È da un po’ che non scrivo dei miei progressi nella lettura di “Social Psychology” di Myers e Twenge che, come più volte ho spiegato, aspetto di completare per riorganizzare il primo capitolo dell’Epitome (v. 1.9.2).
A causa di questo “alto” motivo sto dandogli una priorità maggiore di quella che gli darei normalmente: invece di leggerlo quando mi va cerco di leggerne sempre qualche pagina.
L’ultimo aggiornamento è stato quello di inizio luglio, L’alieno 2, ed ero impegnato nella lettura del capitolo 11, “Amore e intimità”.
Nel frattempo ho terminato il capitolo successivo, “Aiutare”, e sono alle prese col seguente, “Conflitto e pacificazione”. Aggiungo che ho dato un’occhiata ai capitoli che mi mancano al termine del libro e non mi sembrano molto interessanti: ma lo stesso valeva per “Conflitto e pacificazione” mentre invece vi sto trovando dei concetti utili.
Comunque il pezzo di oggi sarà sul capitolo 12, intitolato “Aiutare”. Così a memoria non ricordo di aver trovato rivelazioni clamorose o controintuitive ma lasciatemi controllare le mie note.
Sì, infatti nella prima decina di pagine non c’è neppure una “B”…
Riassumo brevemente: di solito si aiuta perché ci è utile o per contraccambiare. Le norme sociali impongono che chi riceve un favore lo restituisca quando può. Fra amici invece non si tiene più questo conto e si aiuta quando c’è bisogno aspettandoci che avvenga lo stesso quando si è noi in difficoltà. Il vero altruismo è raro. E talvolta entrano in gioco dei sottili fattori psicologici: aiutare ci fa stare bene perché ci si sente più buoni o, al contrario, a volte si aiuta per non sentirsi poi in colpa dopo.
Anzi il senso di colpa è molto potente e per liberarcene si è pronti a fare molto.
Curiosamente un mio amico mi suggerì questo stesso concetto una trentina di anni fa in una versione sentimentale: la donna che ti rifiuta si sente un po’ in colpa e chi “ci sa fare” (non io!) ne può approfittare. All’epoca non lo presi molto sul serio ma in effetti notai che c’era del vero nelle sue parole.
La norma sociale di restituire un favore è talmente forte che chi è nell’impossibilità di farlo può sentirsi addirittura minacciato da chi cerca di aiutarlo.
Ma l’istinto ad aiutare può essere anche visto dalla prospettiva della psicologia evolutiva la cui logica è: ci comportiamo in un certo modo perché questo aiuta la nostra sopravvivenza o quella dei nostri geni.
In questa ottica tendiamo ad aiutare i nostri famigliari, chi ci ha aiutato (reciprocità diretta), aiuto qualcuno nella speranza che altri facciano lo stesso per me (reciprocità indiretta: è alla base del farsi un “buon nome”) e, infine, tendiamo ad aiutare gli appartenenti al nostro gruppo.
Insomma, l’altruismo, l’aiutare gli altri è una sovrapposizione di fattori biologici, psicologici e sociali.
Ciò non significa che il genuino altruismo non esista ma è raro e non esistono fattori evidenti che aiutino a capire che sia più o meno predisposto a esso. L’unico generico elemento è l’empatia: aiuta a capire chi ha bisogno di aiuto e ha più soddisfazione nell’aiutare e rendere felice il prossimo.
La seconda parte del capitolo è invece più specifica: in quali situazioni, anche potenzialmente d’emergenza, si aiuta gli altri?
Un primo fattore è l’esempio diretto: se vediamo qualcuno aiutare allora siamo motivati a seguirne l’esempio. Un fattore che sorprendentemente diminuisce notevolmente la tendenza ad aiutare è la folla. Se molte persone, come la folla di una via affollata, vedono un uomo a terra difficilmente lo aiuterà. Ciascuno pensa che la responsabilità sia di altri, che qualcuno abbia più tempo; inoltre il vedere che nessuno interviene ci porta a pensare che non si tratti di un’emergenza (esperimenti molto buffi al riguardo!); in una folla poi è anche più difficile notare l’emergenza.
Comunque poi, quando qualcuno interviene, molte altre persone si accorgono del problema e forniscono il loro aiuto.
Come al solito poi ci sono delle inclinazioni che possono influenzare il nostro comportamento: per esempio tendiamo ad aiutare più facilmente chi ci è simile, gli uomini tendono ad aiutare più facilmente le donne, i poveri sono più generosi dei ricchi, gli uomini aiutano più spesso in situazioni di pericolo mentre le donne in situazioni sociali. Anche la religione porta a essere più generosi.
Una mia personale osservazione (marcata “KGB”) evidenzia la sensazione di disgusto che mi prende leggendo di quanto le persone siano facilmente manipolabili e influenzabili.
Quando dico che non bisognerebbe guardare la tivvù o leggere i media tradizionali ho più ragione di quanto pensassi: le probabilità di essere sottilmente manipolati, al di là del venire disinformati, è altissima.
La terza parte del capitolo cerca di analizzare cosa si possa fare per far sì che la popolazione aiuti di più il prossimo.
Filosoficamente non tutti gli approcci proposti mi piacciono, ovvero li trovo moralmente accettabili. In genere su quelli che aumentano la consapevolezza delle persone e ne stimolino la responsabilizzazione non ho niente in contrario. Invece ritengo sbagliate (immorali) le manipolazioni a “fin di bene”. Si tratta infatti sempre di eterodirezione kantiana: un far fare agli altri quello che NOI si pensa sia meglio per LORO o, addirittura, per la società nel suo complesso.
Dico solo che esiste una sezione del capitolo intitolata “media modeling”: potete immaginare di cosa si tratti: manipolazione che gli psicosociologi prospettano a “fin di bene” (cosa comunque moralmente sbagliata) ma che ora più che mai viene invece usata a “fin di bene” ma non di tutti bensì di pochi!
Forse lo spunto più interessante del capitolo lo si trova nella penultima pagina: l’effetto di “sovragiustificazione”. Se una persona fosse già disposta ad aiutarci allora compensarla ulteriormente (per esempio pagandola) potrebbe avere un effetto negativo: questo perché aiutare disinteressatamente (anche se, come visto, non è mai proprio così) ci fa sentire bene ma se, per esempio, si viene pagati allora questa sensazione di fare un buona azione sparisce perché inferiamo che agiamo per denaro.
A volte conviene così suggerire idee che portino chi ci aiuta a inferire di esserci stato utile e che è una brava persona.
Leggendo questo capitolo non ho potuto fare a meno di pensare a come avevo progettato di farmi aiutare dai miei vicini (ben prima di averlo letto).
In pratica ero stato molto diabolico agendo sui giusti pedali per ottenere le reazioni volute: l’unico errore fu quello della “sovragiustificazione” ma appena mi resi conto che la proposta non aveva funzionato (pochi istanti) ero stato lesto a suggerire quanto mi sarebbero stati utili…
Poi, lo sapete, io sono KGB, sensibile alla bellezza e al fascino femminile di Anna, sono poi talmente romantico da apprezzare la genuinità e calma intelligenza del suo fidanzato Andrea e provo pure un’innata simpatia per lo scorbutico e scontroso INTP Emilio in cui rivedo un po’ di me stesso.
Insomma il mio progetto di sfruttamento è rapidamente naufragato a causa della mia sensibilità!
Però questo mi porta a pensare che non dicevo sciocchezze quando scrivevo che alle medie ero un abilissimo manipolatore ma che smisi di colpo di esserlo quando in prima liceo mi resi conto che era immorale. Insomma ho la sensazione che una versione di me senza i miei principi morali avrebbe potuto facilmente essere un “dark empath” (cercate su YouTube per vedere di cosa si tratta!)…
Conclusione: un capitolo noioso ma, fortunatamente, quello che sto leggendo adesso mi pare più interessante…
alla prima stazione
1 ora fa
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