Ieri ho terminato “Il canto della meditazione” di Osho: come scrissi in Osho > Tolle è stata una sorpresa positiva. Ho trovato il pensiero di Osho più semplice e profondo ma anche meno artificioso e autoreferenziale di quello di Tolle. Ovviamente sono consapevole che sia solo la mia sensazione…
Mi ha stupito il gran numero di barzellette presenti nel testo. Soprattutto non sempre ne ho capito il collegamento con l’argomento trattato. Non so: forse sbagliavo io a cercarvi un’analogia profonda e magari dei punti di contatto fra l’essenza della battuta e l’essenza dell’insegnamento di Osho.
Di solito siamo abituati a vedere l’umorismo, magari una vignetta, usato in questa maniera: a sottolineare ironicamente un comportamento dimostrato assurdo dall’autore.
Invece in Osho il collegamento fra pensiero e barzelletta mi è parso estremamente labile: per esempio dopo aver scritto di aspetto esteriore può proporre una barzelletta dove si parla effettivamente di apparenza ma la cui battuta chiave non ha niente a che fare col suo messaggio.
Io credo che ciò sia voluto: l’obiettivo delle barzellette non è quindi quello di fornire un’analogia o una sintesi scherzosa e facile da ricordare ma deve essere altro.
Posso provare a fare qualche ipotesi:
- spezzare volutamente il ritmo, il filo del pensiero: fare abbandonare la logica, la ragione, che come spiega nel testo Osho, non possono portare alla comprensione profonda del suo messaggio.
- sorprendere e spiazzare il lettore: anche qui lo scopo di interrompere il pensiero logico e farlo riprendere da punti di vista completamente diversi.
- far riflettere il lettore che cercherà, come me, di confrontare quanto ha compreso con la barzelletta: anche se magari il parallelo logico è errato o assente.
- genuina ironia, ma anche un messaggio più profondo: non credere alle parole di Osho perché lo hai frainteso. La vera comprensione non può arrivare dall’esterno ma deve sbocciare in noi.
Ho la sensazione che Osho inserisse veramente delle barzellette nelle lezioni ai suoi seguaci: probabilmente l’effetto dal vivo era molto più incisivo e meno ambiguo. In un libro, e per giunta tradotto, il loro significato diviene molto più difficile da comprendere.
In una barzelletta le protagoniste sono tre giovani ragazze e, quando ho iniziato a leggerla, mi sono subito chiesto se sarebbe stata politicamente non corretta. Difficile dire: a un livello molto esteriore forse appena appena sì ma se si scende più in profondità direi di no. La barzelletta è piuttosto criptica e, secondo me, il significato è che l’interpretazione della realtà è soggettiva. Quindi il sesso delle protagoniste è irrilevante e non escludo che tale elemento sia stato tirato in ballo proprio per spiazzare maggiormente il lettore.
Credo comunque che Osho si sarebbe fatto una bella risata se qualcuno gli avesse spiegato il concetto del politicamente corretto. Tutto sommato non sarebbe una questione banale.
Immagino che Osho avrebbe considerato la questione come una grande sciocchezza: se sei interessato al significato profondo delle cose, se non credi per niente al significato delle parole, se ritieni che la vera comunicazione tramite il linguaggio non possa esistere allora diatribe su singoli termini o regole grammaticali ti appariranno come prive di senso.
In genere, nelle situazioni in cui il suo insegnamento va contro la norma, Osho è molto tollerante e dice sempre qualcosa del tipo “io faccio così ma tu fai come vuoi, fai come ti senti e come ti sembra meglio e andrà bene per te…”
In questo caso però il politicamente corretto non è una visione personale, condivisibile o no, ma è il tentativo di imporre ad altri la propria: tutti devono adeguarsi a usare il linguaggio in una certa maniera perché ad alcune persone non va bene diversamente.
L’imporsi sugli altri mi pare però assolutamente contrario all’insegnamento di Osho: tutta la consapevolezza deve provenire dall’interno figuriamoci quindi se possa venire non dico insegnata ma addirittura imposta dall’esterno!
Il punto è che, in questo caso, non potrebbe limitarsi a rispondere al seguace di fare come gli pare.
Mi pare sia un problema comune della spiritualità concentrarsi troppo sull’individuo e tralasciare invece il rapporto con la società. Tolle mi pare, per esempio, che ne sia totalmente oblioso mentre Osho ne è più consapevole e dà, sebbene genericamente, alla società delle responsabilità concrete nel provocare il disagio umano. Per Osho la società "crea menzogne" che ingannano l’uomo e lo distolgono da quelli che dovrebbero essere i suoi veri obiettivi.
Quindi, sì, probabilmente Osho considererebbe il politicamente corretto come una grande falsità che distrae e confonde l’uomo dall’essenza delle cose.
Immagino che direbbe al seguace: “se vuoi vivere nella società allora seguine le regole”. Ma il vero punto sarebbe che per raggiungere l’illuminazione si deve uscire, almeno temporaneamente, dalla società, dopodiché problematiche come quelle del politicamente corretto divengono irrilevanti.
Immagino che lo stesso Osho si adeguerebbe ai dettami del politicamente corretto magari usando le parole considerate “accettabili” col sorriso sulle labbra: non per sfottere ma perché genuinamente divertito. E a un seguace convinto sostenitore del politicamente corretto direbbe: “se mi vuoi seguire seguimi ma per ascoltarmi dovrai pulirti le orecchie” intendendo che per imparare veramente qualcosa dovrà liberarsi di molta zavorra ideologica…
O almeno così mi piace e mi diverto a pensare!
Volevo limitarmi a un corto ma, evidentemente, sono andato lungo…
Fatemi aggiungere qualche altra considerazione estemporanea: del resto sarebbe impossibile fare una sintesi organica di un libro denso di messaggi spirituali…
Mi chiedo se consigliare o no la lettura di questo libro: io credo che la risposta debba essere “no” a meno che l’aspirante lettore non senta un vuoto dentro di sé, un bisogno di risposte per una vita che appare incomprensibile… Ecco a questo tipo di persone il libro potrebbe essere utile mentre per tutte le altre sarebbe solo una perdita di tempo.
Questo mi porta infatti alla mia seconda osservazione: ho scoperto una notevole affinità di pensiero fra quanto ho scritto nel capitolo 22.3, “La comunicazione verbale”, e quanto affermato da Osho proprio nelle ultime pagine del suo libretto.
Per Osho la comunicazione verbale, a causa dei limiti del linguaggio, è semplicemente impossibile: per me è invece molto difficile. Scrivo io: «Paradossalmente, a causa delle limitazioni del linguaggio umano, non credo sia mai possibile trasmettere esattamente un proprio pensiero un po’ complesso né, tantomeno, comprendere perfettamente le idee altrui». Sebbene, fortunatamente, un’approssimazione della comprensione è spesso sufficiente.
Osho spiega che il rimedio all’incomprensione è l’amore. Io non me la sono sentita di essere così spirituale sull’Epitome e parlo genericamente di “buoni rapporti”, su questo ghiribizzo (v. Ragionamento sulla comunicazione) credo poi di aver quasi sicuramente parlato di “tolleranza e volontà di comprensione” come ingredienti necessari a una comunicazione effettiva. Ma nell’essenza concordo con Osho...
Volendo un’altra similitudine molto significativa è che nel mio pezzo più “spirituale” (v. La lingua degli angeli) su questa materia concludo che probabilmente il mezzo comunicativo più efficace, che usi il linguaggio, è la poesia.
Ecco, tutta la prima parte del libro di Osho, si basa su un commento, a modo suo, di una poesia: “Il canto della meditazione” di Hakuin…
Conclusione: un’ultimissima considerazione finale: nella mia teoria spiego che vi è anche un merito nella comunicazione imperfetta: essa può portare a formulare nuove idee. Ecco, forse, quello è l’obiettivo delle barzellette di Osho...
alla prima stazione
1 ora fa
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