Aristotele partirebbe dalle definizioni note di comunicazione, le valuterebbe indicandone i limiti e poi darebbe la sua versione corretta. Io però sono ignorante e non conosco la teoria e quindi mi limito a indicare qual è, a mio avviso, l’elemento saliente della comunicazione.
La persona A usa la parola, scritta od orale, per trasmettere un messaggio, un’idea, alla persona B.
Sono consapevole che ci possono essere anche altre forme di comunicazione ma al momento mi limito a quella principale. Anzi, forse è già troppo mettere insieme la comunicazione scritta e orale perché in quella diretta (l’orale cioè) vi sono conteste altre forme di condivisione: l’espressione facciale, il tono della voce, i movimenti e la postura del corpo, l’espressione degli occhi etc.
In effetti la comunicazione orale è un continuo divenire perché quello che dice A è direttamente influenzato dalle reazioni di B: è un messaggio “cucito” appositamente per il proprio interlocutore.
Poi ci sarebbe anche da distinguere fra la comunicazione tra due persone e quella tra uno e molti (come un professore che insegna in classe).
E allora sapete cosa? Mi limiterò ad analizzare la comunicazione scritta.
Poi, in realtà, più che analizzare il fenomeno da zero avevo in mente di ripercorrere il mio pensiero su tale problematica attraverso i pezzi già scritti.
Il punto di partenza dovrebbe essere il pezzo La lingua degli angeli dell’ottobre 2015.
Mentre almanacco sul più e il meno arrivo alla conclusione che alcuni pensieri profondi non sono esprimibili a parole. Ogni messaggio non banale ha più livelli di interpretazione: lo sa bene il geloso che analizzando gli scritti della persona amata vi legge, o meglio crede di leggervi, significati sempre più nascosti.
Per questo arrivo a ipotizzare che proprio la poesia, un linguaggio cioè che non vuole essere logico e preciso, abbia la capacità di trasmettere i pensieri e le emozioni più profonde.
Il linguaggio è infatti un formalismo con precise regole il cui scopo è raggiungere un’uniformità espressiva benefica per la società: contemporaneamente però, le stesse regole, possono essere delle pastoie che complicano la comunicazione invece di facilitarla.
Mi pare chiaro infatti che il linguaggio si sia evoluto per trasmettere una conoscenza fattuale: descrivere situazioni concrete ed eventi che si succedono linearmente uno dopo l’altro; anzi la stessa logica espressa dal linguaggio deve essere lineare: causa e conseguenza in fila una dietro l’altra.
I limiti del linguaggio quindi emergono chiaramente quando vogliamo esprimere emozioni o comunque concetti astratti, quando più cause ed effetti sono intrecciati fra loro sia temporalmente che logicamente. In questi casi il linguaggio fa fatica.
Lo vedo proprio in questi giorni leggendo Proust: solo uno scrittore abilissimo riesce a descrivere il contorto funzionamento di una mente umana con i pensieri che si sovrappongono e che, talvolta, si contraddicono: e comunque, nonostante l’abilità dell’autore, è richiesta grande attenzione, pazienza e sensibilità anche al lettore.
Nella vita quotidiana il problema di trasmettere idee complesse emerge quando cerchiamo di confrontarci, anche fra amici, su tematiche che non siano estremamente banali: un divertente esempio di discussione l’ho descritto in Depresso da riunione deprimente del gennaio 2015. Interessante, sulla generica difficoltà di trasmettere idee e pensieri articolati, è anche la seconda parte di Pigro e facile del novembre 2015.
Non ricordo se ho “formalizzato” il passaggio successivo in uno specifico pezzo ma, sull’inadeguatezza del linguaggio, ritorno anche nell’Epitome quando introduco la giustizia: butto lì che le leggi, in quanto parola scritta, non sono in grado di prevedere tutti i possibili scenari del reale. Come se fossero diversi generi di infinito: l’infinito della parola è cardinalmente minore dell’infinito della realtà: proprio come l’infinito dei numeri naturali è “minore” dell’infinito dei numeri reali (*1).
Nei due anni successivi, diciamo 2016-2017, sono più o meno rimasto alle idee sullodate. Più o meno nel 2018 ho iniziato a confrontarmi piuttosto duramente tramite epistola con un amico. All’epoca ho iniziato a teorizzare l’importanza del voler comprendere l’altro: la parola scritta è così vaga e imprecisa, stenta così tanto a esprimere idee articolate, che se manca la buona volontà da parte di un interlocutore di capire il messaggio altrui allora i pretesti per distorcere quanto viene detto, ribaltarne il significato e usarlo a mo’ di clava contro l’altro, sono praticamente infiniti.
All’epoca detti una mia interpretazione personale (*2) alla ricorrente formula evangelica del “chi ha orecchi per intendere intenda”: ovvero chi ha i mezzi per capire si sforzi di farlo altrimenti è una perdita di tempo.
In pratica, oltre all’ovvia esigenza di massima chiarezza logica ed espressiva, è necessaria anche la buona volontà.
Di nuovo, per circa un paio di anni, non ho fatto altri progressi su questo argomento ma poi, nell’agosto del 2020, ho scritto: Il pericolo dell’incomprensione.
In parte, l’ho capito adesso rileggendo frammenti di vecchi pezzi, il nocciolo di fondo di questa idea l’avevo già compreso da tempo ma l’avevo erroneamente collegato solo al mio modo di pensare: in realtà si tratta di un fenomeno universale.
La volontà di comprendere l’altro, o meglio il suo eccesso, porta ugualmente all'incomprensione: all’illusione della comprensione col fraintendimento di dettagli anche molto significativi.
Un discorso, uno scritto, alla fine lo si può pensare come a una sequenza di puntini che l’interlocutore deve unire insieme per ricavare l’immagine del pensiero che voleva essere espresso.
Chi non vuole capire aggiunge puntini arbitrari e ne elimina altri fino a ottenere la figura che ha deciso di voler vedere nel discorso altrui.
Ma anche chi si sforza di comprendere può commettere errori: più il pensiero è complesso è più incerta diventa la posizione dei vari punti, si può poi fraintendere l’ordine con cui unirli, altri puntini intermedi possono essere considerati ovvi, e quindi taciuti, da una persona ma non dall’altra etc. E poi se l’idea è molto complessa e il numero di puntini non è sufficientemente alto allora l’immagine risultante potrebbe comunque risultare troppo confusa: come un’immagine a bassissima risoluzione, con i quadrettoni colorati che la rendono indistinta.
Insomma sia la chiarezza espositiva (comunque limitata da tempo e capacità degli interlocutori) che la buona volontà non sono sufficienti per arrivare a una piena comprensione reciproca: al massimo si può ottenere l’illusione della stessa.
Fortunatamente, dopo pochi mesi, ho avuto una nuova intuizione, stavolta positiva.
Mi chiedo se mi abbia aiutato il passaggio intermedio compiuto in Capire Aristotele, capire gli altri dove l’elemento significativo è la comprensione dell’importanza del contesto: di come ogni concetto venga trasferito automaticamente nel proprio sistema di riferimento cartesiano, con le nostre unità di misura e le nostre distorsioni. Ogni concetto, anzi ogni singola parola, non ha un unico significato ma equivale a una moltitudine di collegamenti ad altre idee e pensieri: tutto dipende dal singolo ma anche dalla cultura, dall’epoca e dalla specifica lingua. A una parola corrisponde una costellazione di significati: unendo più parole insieme le possibili combinazioni, ovvero le diverse interpretazioni, si moltiplicano e in pochissimi passaggi qualsiasi pensiero, anche apparentemente semplice, diviene potenzialmente inintelligibile.
Insomma in realtà anche questo passaggio intermedio, ammesso che lo sia realmente, è negativo.
L’intuizione positiva è nella seconda parte del pezzo Gli incomprensibili.
Il succo è che non è tanto importante l’effettiva comprensione, che come ho detto è praticamente impossibile da raggiungere esattamente, ma lo sforzo che si compie nel tentativo di ottenerla.
È questo sforzo che è positivo: esso stimola la creatività e la ricettività della nostra mente. Non è detto che si arrivi a capire pienamente le idee altrui ma se ne possono afferrare dei singoli passaggi e soprattutto si può stimolare la propria mente a essere feconda, a trovare i propri collegamenti fra idee, a migliorare cioè la nostra comprensione del mondo, di noi stessi e degli altri. È il viaggio che conta, non la destinazione.
Volendo tornare all’analogia col gioco dei puntini delle riviste di enigmistica chi si sforza di capire riflette sui puntini che gli vengono proposti, cerca di individuarli e posizionarli correttamente, soprattutto cerca di interpretare l’immagine risultante. Mentre compie questo sforzo gli può capitare di collegare insieme dei puntini che non aveva mai pensato a unire, oppure stimolato da quanto osserva gli appare nella sua fantasia l’immagine di un concetto inedito.
Insomma anche nei casi in cui la comprensione è molto più illusoria che reale è comunque utilissimo sforzarsi di raggiungerla.
Conclusione: alla fine il passaggio finale, quello più importante, dopo aver ricostruito nella propria mente la “bozza” dell’idea altrui, è il salto intuitivo che si deve compiere per trasformare lo "scarabocchio" espresso dalle parole in una foto "HD4K" nella propria mente. Non è detto che nonostante la buona volontà vi si riesca ma, si spera, il risultato finale non sarà troppo dissimile da quanto pensava effettivamente il nostro interlocutore: comunque la nuova immagine che abbiamo ottenuto ci avrà arricchito portandoci a un qualcosa di nuovo e, magari, genuinamente inedito.
Nota (*1): è facile dimostrare che fra i numeri reali 0 e 1 si possono inserire tutti gli infiniti numeri naturali: basta prenderne le cifre e scriverle in ordine opposto dopo lo “0,”: per esempio 2020 lo possiamo scrivere come 0,0202 e così via. Insomma a ogni numero naturale possiamo far corrispondere univocamente un unico numero reale compreso fra 0 e 1.
Nota (*2): mi pare di ricordare che l’interpretazione “classica” di questo passaggio sia un po’ più banale: al momento mi sfugge.
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