Ormai automaticamente, quando mi viene l’idea per un pezzo, inizio a immaginarmi come andrò a esprimerla: strutturalmente quale sarà l’ordine delle mie argomentazioni, le premesse necessarie, magari qualche riferimento esterno o battuta…
Così stamani, mentre facevo il bagno, riflettevo su un capitoletto di Meglio di niente di Danilo Breschi, che sto leggendo (insieme a molto altro) in questi giorni…
In particolare l’autore commenta un saggio basato sul dialogo fra due intellettuali su una tematica molto complessa (non importano i dettagli). In verità io la penso diversamente: il problema è che questi intellettuali partono da premesse economiche completamente errate e, ovviamente, l’edificio che costruiscono è traballante… vabbè, non importa...
Volevo quindi soffermarmi su un’unica frase ma qui, mentre mentalmente formavo l’ordine dei miei pensieri, mi sono reso conto che una digressione che avrei dovuto fare sarebbe stata più interessante del mio commento al capitolo letto: e allora ho deciso che sarà proprio questa idea laterale la base del pezzo odierno.
L’argomento non lo saprei definire bene ma tocca comunicazione, messaggio e comprensione.
Cosa rende intimamente possibile la comunicazione fra due persone?
La chiarezza del messaggio è certamente un fattore: usare un linguaggio comprensibile, preciso e conciso è assolutamente importante. Eppure c’è qualcosa di ancora più fondamentale: la sincera volontà di provare a capire.
Nel Vangelo più volte si trova la frase “chi ha orecchie per intendere intenda”. Wikipedia la spiega come l’esortazione a mettere a frutto ciò che si è appreso: io vi vedo però un significato più profondo: “chi ha orecchie per intendere VOGLIA intendere”. Non basta cioè avere la capacità di ascoltare (o di leggere) ma è necessaria la volontà di voler comprendere il messaggio dell’altro.
La lingua, l’ho scritto più volte (v. per esempio il finale di La lingua degli angeli), è imperfetta: non può rendere con totale esattezza un fenomeno fisico e ancor meno un’idea complessa. Alla fine chi vuole contraddire il proprio interlocutore troverà sempre un qualche appiglio per farlo (*1). Ed è questo il mio punto: per poter capire bisogna volerlo. Bisogna andare oltre le singole parole e, aiutandosi con la fantasia, la sensibilità e l’intuizione, raggiungere il significato profondo nella mente dell’autore che stiamo leggendo o di colui che ci parla.
Ma questo, bene o male, l’avevo già capito e scritto anche in passato: la novità odierna è che anche la volontà di capire l’altro nasconde una trappola.
Veniamo alla frase del libro che mi aveva colpito e che vorrebbe sintetizzare l’idea principale di uno dei due intellettuali: “Il senso civico nasce [...] dal disciplinamento sociale di forti e motivati poteri politico sociali.” (*2).
Lo so che non avete letto il libro e non conoscete il contesto ma prendetevi qualche minuto per sforzatevi comunque di comprendere il significato…
Fatto?
Ditemi allora ciò che secondo voi significa: … hum… sì… capisco… e quindi?… ah… ok…
Bene, anzi male, perché avete sbagliato!
Il vero significato infatti è… non importa quale sia!
Analizziamo la frase: già cosa sia il “senso civico” è un concetto vago; ancor peggio il “disciplinamento sociale”; quanto poi “forti e motivati” debbano essere i “poteri politico sociali” (qualunque essi siano!) non è specificato…
In altre parole detta frase è di una vaghezza assoluta: il lettore spiccio, quello che “non vuole intendere”, in questo caso ha ragione a definirla “fuffa” e a dimenticarsene subito dopo.
Al contrario il lettore volenteroso che cerca di dargli un senso sbaglia: ma sbaglia a priori. Il cercare di capire una frase troppo astratta (senza il necessario contesto) non è solo un’attività faticosa ma è pure futile.
Ogni lettore darà infatti a ogni singola espressione ambigua un significato che si adatta alla propria personale visione del mondo: il risultato sarà che due lettori diversi daranno alla stessa frase due significati altrettanto diversi se non, almeno potenzialmente, contrari.
Entrambi si illuderanno poi di pensarla come l’intellettuale che ha sentenziato tale frase e che invece, probabilmente, avrà avuto in mente un terzo significato!
Il pericolo è quindi questo: se non si ha il contesto che permetta di sbrogliare ragionevolmente tale groppo semantico/letterario allora ci si può illudere di aver capito qualcosa mentre invece lo si è frainteso.
Da un altro punto di vista una frase vaga e indeterminata è la maniera più semplice per convincere un ascoltatore ben disposto (chi non lo è la rifiuterà immediatamente) di pensarla come chi parla. I politici italiani lo fanno regolarmente. Poi, una volta che una persona ha stabilito di pensarla come un’altra, subentrano tanti altri meccanismi psicologici su cui non ho intenzione di entrare ma che sono comunque significativi e potenzialmente dannosi.
Ovviamente non significa che chi pronunci una frase vaga sia automaticamente in mala fede: tutto dipende dal contesto, dalle eventuali altre spiegazioni che ha dato o che seguiranno. Del resto, come detto, la precisione assoluta nel linguaggio non esiste…
In sintesi è giusto sforzarci di interpretare il pensiero altrui ma, se questo è troppo vago, allora c’è il rischio concreto di fraintenderlo magari anche illudendosi che, per vie traverse, sia simile o compatibile col nostro. Non fidatevi dei discorsi vaghi e fumosi, soprattutto se di persone che vi piacciono e che vorreste la pensassero come voi: rischiate di illudervi ma sarebbe solo apparenza!
Conclusione: voglio concludere con un antico proverbio contadino italiano di mia invenzione: “Del sesso degli angeli è meglio non saperne nulla che saperne poco”. Significa che di una questione complessa è meglio non saperne nulla piuttosto che poco perché, nel secondo caso, c’è il rischio concreto di illudersi di averla capita profondamente!
Altro antico proverbio contadino (armeno stavolta) inventato da me con lo stesso significato: "chi pensa di poter saltare un fosso rischia di caderci dentro"!
Nota (*1): il proverbio “Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire” esprime bene il concetto.
Nota (*2): tratto da “Meglio di niente” di Danilo Breschi, (E.) Mauro Pagliai, 2017, pag. 26.
lunedì 17 agosto 2020
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