Oggi un pezzo diverso dal solito: fra i vari nuovi libri che sto leggendo c’è Il padiglione d’oro di Yukio Mishima, (E.) Feltrinelli, 2019, trad. Mario Teti.
È la storia di un ragazzino giapponese e ancora non ho capito dove andrà a parare: comunque scritto benissimo…
Ieri sera l’avevo da poco ripreso in mano quando mi sono imbattuto in un divertente aneddoto, anzi un “tema” per la meditazione zen, dal titolo “Nansen uccide il gatto”.
La storia è la seguente: un gattino entra in monastero mentre i monaci sono impegnati al lavoro, quando lo vedono lo rincorrono e infine lo catturano. I monaci dell’ala est se lo contendono con quelli dell’ala ovest: ognuno lo vorrebbe tenere come cucciolo da compagnia.
A questo punto entra in scena l’abate Nansen che afferra il gatto per la collottola e minaccia di ucciderlo con un falcetto. Poi chiede ai monaci presenti «Datemi una buona ragione per non farlo!» ma tutti restano zitti così egli, con un colpo ben assestato, mozza la testa al gatto.
A sera Nansen racconta l’episodio al maestro Joshu chiedendogli la sua opinione: immediatamente Joshu si alza e se ne va mettendosi sopra la testa gli zoccoli. L’abate Nansen commenta: “Se tu stamani fossi stato presente avresti salvato la vita al gatto”.
La meditazione consiste nel cercare di capire cos’è successo e in particolare il comportamento di Joshu. Così qui ho interrotto la lettura e mi sono messo a... leggere Ibsen!
Nella notte però ho riflettuto su questo divertente dilemma.
Credo che sarebbe utile se anche il lettore perdesse qualche minuto, o magari molte ore, a rifletterci con calma e tornasse poi qui successivamente a leggere il resto del pezzo: fate voi...
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Ho la sensazione che l’episodio abbia più livelli di interpretazione. Parto da quella più letterale che è la prima che mi è venuta in mente.
Joshu si mette gli zoccoli sulla testa per far capire che non sta agendo da monaco e che quindi la sua azione deve essere interpretata opportunamente. Alzandosi e andando via egli vuole dire che il gatto non sarebbe rimasto né nell’ala est né in quella ovest ma avrebbe girovagato dove più preferiva: l’intera diatriba fra i monaci era quindi inutile.
Poi ho iniziato a chiedermi il perché del comportamento dell’abate: va bene porre fine al litigio dei monaci ma possibile che non ci fosse una maniera meno cruenta? Non sarebbe, per esempio, bastato scacciare il gatto?
Forse quindi la domanda di Nansen è volutamente equivoca: in verità non chiede perché non dovrebbe uccidere il gatto ma perché non dovrebbe chiedere una ragione per non ucciderlo. La vera domanda sarebbe quindi una richiesta di spiegazione per la sua strana minaccia.
La prima risposta che viene in mente è che i monaci non dovrebbero litigare fra loro soprattutto per un qualcosa di così futile: ma allora come spiegare la “risposta” di Joshu evidentemente apprezzata e approvata dall’abate?
Forse che i monaci avrebbero dovuto rendersi conto del proprio errore e avrebbero dovuto ignorare il gatto tornando alle proprie mansioni. I sandali sulla testa, non so, forse potevano significare un atto di sottomissione e/o penitenza?
Invece i monaci rimanendo, seppure muti, ad aspettare mostravano di essere interessarti alla sorte del gatto che, a occhio, non mi pare un comportamento indifferente come insegna la religione buddista.
Mi è poi venuto il sospetto che il gatto sia in realtà una metafora: il gatto, per esempio, potrebbe rappresentare le tentazioni del mondo esterno. Questo renderebbe addirittura un “peccato” per i monaci non tanto il litigare fra loro quanto il voler tenere l’animale nella loro ala del monastero.
Di nuovo si potrebbe interpretare la “risposta” di Joshu come il rendersi conto dell’errore e tornare quindi a ignorare l’animale e la sua sorte.
In queste due ultime interpretazioni l’abate vuole quindi insegnare ai monaci una lezione e solo per questo minaccia la vita dell’animale: lasciarlo andare libero avrebbe tolto automaticamente ai monaci il loro motivo d’interesse ma questo, per essere utile, era una scelta che avrebbero dovuto compiere da soli mentre la sorte del gatto era ancora incerta.
Ho notato che i giapponesi, ma suppongo anche i cinesi, cercano di fare in modo che l’allievo comprenda da solo la lezione senza suggerigliela esplicitamente: del resto quello che si capisce da soli si assimila maggiormente.
E poi ci sarebbero le interpretazioni allegoriche a anagogiche… perlomeno l’ermeneutica prevede anche questi metodi interpretativi!
L’allegoria è simile alla metafora ma la relazione iniziale fra gatto e XXX è arbitraria e non può essere ricavata logicamente se non la si conosce a priori.
L’anagogia è ancora più complessa e, suppongo, sia quella a cui puntano davvero i maestri zen: si tratta di un’interpretazione spirituale e mistica a cui si può arrivare non con la ragione ma con l’intuito e, quindi, la meditazione appunto. Una visione che rende in un attimo il significato dell’intera storia evidente e che, magari, non è neppure possibile spiegare. Del resto se la si potesse spiegare anche l’interpretazione anagogica dovrebbe avere un fondamento razionale che invece non ha: probabilmente si potrebbe fornire circa metà della spiegazione ma l’altra metà sarebbe ineffabile.
Spero che il libro non dia nessuna interpretazione di questo “tema” zen: mi piacerebbe pensarci ancora un po’ ma contemporaneamente voglio proseguire nella mia lettura.
Ho la forte sensazione che il nodo centrale sia l’equivoco morale dell’abate che uccide una creatura innocente seppure, evidentemente, con buone intenzioni. Ha un valore morale più alto una lezione utile impartita a svariati monaci o una crudeltà contro un animale?
Conclusione: chiudo con un’ultima interpretazione che mi è sovvenuta adesso. Joshu trova che nessuna lezione, per quanto utile, valeva la crudeltà perpetrata dall’abate. Anzi la ritiene folle: per questo se ne va mettendosi i sandali sopra la testa: quando il male si scambia col bene allora il mondo si è ribaltato e così i sandali si indossano non con i piedi ma con il capo.
venerdì 21 agosto 2020
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