La scorsa settimana ho letto meno del solito: non è tanto un problema di ore ma di energie mentali: dedicandone molte alla programmazione me ne sono rimaste meno per la lettura attenta (e faticosa) dei miei libri…
Fra sabato e domenica poi, non ricordo più perché (ma forse bevvi una Monster alle 3:30AM!), non chiusi occhio e mi ci sono voluti due giorni per riprendermi.
Ieri finalmente sono riuscito ad andare avanti e mi sono appuntato almeno due spunti interessanti.
Il primo proviene da “Il secolo breve”.
Inutile cercare di sintetizzare, meglio far parlare direttamente l’autore:
«Quando l’economia transnazionale stabilì la sua presa sul mondo, essa pregiudicò il funzionamento di una importante istituzione, estesasi dopo il 1945 a livello universale: lo stato nazionale territoriale, dal momento che tale stato non poteva più controllare se non una parte sempre più piccola degli affari economici.» (*1)
Buttata giù cosi quasi non ci si rende conto delle sue implicazioni e deve essere riletta per afferrarle pienamente.
Qui in pratica si dice che la globalizzazione economica è incompatibile con gli stati nazionali così come li conosciamo (*2).
L’Italia (ma anche la Francia, la Germania o la Spagna etc.) libera e indipendente che fa l’interesse della propria popolazione non può più esistere nel mondo attuale.
È impressionante ricordare che queste considerazioni ancora oggi, che quasi possiamo toccare questi fenomeni con le nostre mani, sono comunque difficili da ammettere e riconoscere per quel che sono: apertamente nessuno dei nostri politici ammetterebbe che il governo eletto dagli italiani non conta niente e che le decisioni importanti vengano prese a Bruxelles o Washington (senza alcun controllo democratico). Eppure Hobsbawm aveva già capito tutto almeno dal 1993!
Aggiungo che quell’“estasasi dopo il 1945” va interpretata alla luce di una ventina di pagine circa in cui descrive un fenomeno graduale e che va in crescendo. Tendenza che diviene chiaramente marcata solo negli anni ‘80 con Reagan e la Thatcher, ovvero col trionfo del liberismo più esasperato: lo Stato smette di fornire servizi, tutto passa ai privati, deregolamentazione, vengono abbattute barriere e restrizioni alla circolazione dei capitali etc. …
Ma qui sembra che mi inventi tutto io: se gli stati nazionali perdono forza e importanza chi invece ne guadagna?
Risponde Hobsbawm: «[…] ne guadagnarono organizzazioni non vincolate al territorio nazionale, come le aziende multinazionali, il mercato valutario internazionale, i sistemi di comunicazione a livello mondiale [...]» (*3)
In queste parole vi leggo: industria, finanza e media…
Interessante anche questo passaggio: «Nei tempi in cui i teologi del libero mercato erano in auge, il potere statale fu ulteriormente pregiudicato dalla tendenza a smantellare per ragioni di principio attività fino ad allora gestiti da organismi pubblici e a lasciare che fossero organizzate dal “mercato”» (*4)
Nelle pagine seguenti l’autore spiega quali furono le tre principali resistenze a questa tendenza.
La prima è piuttosto autoreferenziale e vaga: un misto di protezione economica a cui si sovrappone una pennellata culturale, talvolta etnica.
Io con la mia teoria delle leggi del potere la spiego più direttamente con la resistenza del parapotere politico di livello nazionale a perdere forza.
Ma giustamente Hobsbawm osserva che si tratta di battaglie combattute nelle retrovie che, anche quando vengono vinte, non possono cambiare l’esito della guerra.
E infatti fino a quando, per esempio, l’Italia ha protetto gli interessi delle proprie aziende a partire dalla FIAT? Fino a quando queste erano nazionali: con la morte di Gianni Agnelli nel 2003 la FIAT ha rapidamente perso il proprio carattere nazionale e il nostro governo ha smesso di collaborare con un parapotere economico italiano ma ha iniziato a farlo con uno internazionale (legge del confronto; [E] 5.6).
La tendenza era infatti quella dell’aggregamento delle grandi aziende e quando anche in Italia ciò è divenuto una realtà ecco che è cessato il nostro protezionismo.
A questo poi si è sovrapposta l’influenza della UE con i suoi espliciti divieti di proteggere il mercato nazionale o di aiutarlo in altri modi.
La seconda resistenza era invece principalmente economica: la volontà di proteggere la propria ricchezza. Intendo a livello di macroregioni. Tipo Quebec/Canada, UE/Stati più ricchi, Nord Italia (Lega Nord) e Italia.
La terza resistenza la riassumerei come “coesione sociale”: ma non voglio essere accusato di mettere le parole in “bocca” ad Hobsbwam!
«Il terzo elemento fu una reazione […] a quella straordinaria dissoluzione del tessuto, delle norme e dei valori sociali tradizionali che ha lasciato orfani così tanti abitanti del pianeta, privandoli di un sicuro riferimento.» (*5) e poi «La parola “comunità” […] non è mai stata usata in maniera tanto vuota e indiscriminata quanto in questi decenni, nei quali le comunità in senso sociologico sono difficilissime da trovare nelle vita reale.» (*5)
Si formano invece “gruppi” che hanno però interessi molto più particolari e spesso in competizione fra loro.
L’uso della parola “gruppo” mi ha fatto drizzare le antenne perché è il termine con cui identifico il mattone di cui è composta la società: nella mia teoria manca infatti la “comunità” che vedo essenzialmente come un fatto culturale causato dalla condivisione degli stessi epomiti, ovvero dagli stessi valori culturali…
Hobsbawm spiega poi che questi gruppi possono essere di tipo etnico e, in tal caso, hanno lo scopo di favorire la propria minoranza a spese della maggioranza della società (*6).
«Lo scopo essenziale di una politica etnica o similare in società urbanizzate, cioè quasi per definizione eterogenea, è quello di entrare in competizione con altri gruppi per appropriarsi di una quota delle risorse gestite da uno stato non etnico [...]» (*7). Che volendo potrebbe essere forse un’epigrafe per il mio capitolo sulla “società nella società”…
Non mi è chiarissimo come Hobsbawm leghi insieme questa frantumazione della società in gruppi e la resistenza alla globalizzazione: a me pare che proprio questa divisione, questi interessi spesso conflittuali, impediscano una strategia comune per contrastare le tendenze della globalizzazione: arretramento dello stato e accrescimento del potere dei poteri economici/finanziari e dei media da essi controllati.
Ma devo ancora terminare questo capitolo quindi può darsi che nelle prossime pagine tutto mi sarà più chiaro.
L’altro spunto di riflessione proviene invece da “Le conseguenze economiche della pace”. Sono arrivato a uno dei capitoli finali dove Keynes inizia a tirare delle conclusioni.
Siccome ho già scritto abbastanza per oggi mi limiterò a ricopiare il passaggio che mi è sembrato particolarmente interessante in maniera che i lettori possano rifletterci indipendentemente:
«Lenin ha detto, pare, che la via migliore per distruggere il sistema capitalistico è svilire la moneta. Mediante un continuo processo di inflazione i governi possono confiscare, segretamente e inosservati, una grossa parte della ricchezza dei loro cittadini. Con questo metodo non solo confiscano, ma confiscano arbitrariamente, e il processo, mentre impoverisce molti, arricchisce alcuni.» (*8).
Uhm, mi devo trattenere per non dire la mia: alla fine non è un vero ragionamento ma più un’associazione di idee e similitudini. Ma pensateci per conto vostro…
Conclusione: nel frattempo, come se non avessi già troppi libri per le mani, ho iniziato a rileggere “Neuromante” di Gibson alla ricerca di un’epigrafe per il capitolo sul pericolo delle IA (!) trovata a pag. 130 (*9) e un libro un po’ di “nicchia”: “The revolution betrayed and other works” di Leon Trotsky. Dovrebbe essere interessante perché vuole evidenziare i limiti dell’URSS là dove non ha realizzato gli ideali del comunismo: che volendo è una (delle tante) tesi della mia Epitome. Con il pregio che l’autore, fatto poi assassinare da Stalin, fu uno dei massimi esponenti comunisti...
Nota (*1): tratto da “Il secolo breve” di Eric J. Hobsbawm, (E.) BURexploit, 2009, trad. Brunello Lotti, pag. 495.
Nota (*2): o almeno così come li conoscono chi, come me, è nato ampiamente nel XX secolo. Temo che chi è nato nel XXI secolo dia per scontato che il proprio stato abbia una sovranità limitata e sia senza la possibilità di decidere cosa sia meglio per la popolazione. Da una parte vi è un’ottusa e malriposta fiducia nelle istituzioni europee ma dall’altra, a causa della plasmabilità infantile ([E] 1), credo che si sia effettivamente perso la consapevolezza del valore della libertà e della giustizia.
Nota (*3): ibidem, pag. 495-496.
Nota (*4): ibidem, pag. 496.
Nota (*5): ibidem, pag. 499.
Nota (*6): l’ho già scritto ma lo ripeto: non accusate Hobsbawm di essere fascista/razzista/nazista: egli era comunista e, da giovane, distribuiva (di nascosto) volantini comunisti nella Germania dei primi anni ‘30!
Nota (*7): ibidem, pag. 500.
Nota (*8): tratto da “Le conseguenze economiche della pace” di John Maynard Keynes, (E.) Adelphi, 2007, trad. Franco Salvatorelli, pag. 187.
Nota (*9): ho notato che molte volte gli autori di romanzi, anche se magari privi di una preparazione specifica, hanno molta più libertà di esprimere le proprie intuizioni socioculturali dei saggisti che, invece, hanno il vincolo di provare ciò che scrivono.
Io vorrei i tre giorni di sonno!
2 ore fa
Dividi e impera!
RispondiEliminaPer realizzare la divisione e' necessario passare per la frantumazione. Questa si ottiene inserendo quantia' elevate in maggiori punti possibile e in minor tempo possibile "gruppi" storicamente aggressivi, non integrabili ed egemonici.
Gli SUA sono un esempio paradigmatico di macedonia conflittuale semper-esplodente: sono un paio di secoli buoni che sono, ogni paio di settimane, con alcune parti, sull'orlo di guerre civili, una non-nazione distopica nella quale vige il tutti i gruppi contro tutti gli altri gruppi, se sbagli strada all'ora sbagliata sei fottuto.
Cio' che e' gia realizzato in varie luoghi incubo in Europa.
In effetti questi argomenti di Hobsbawm, anche se non limitati all'immigrazione, forniscono una nuova interpretazione del perché sia voluta.
EliminaAnche la frase che non ho commentato (quella di Keynes) fa pensare che molti comportamenti apparentemente inspiegabili delle autorità siano invece comprensibili con l'interesse di pochi...