Oggi ho iniziato a rimettermi in pari con i video sul covid-19 di MedCram e ho provato una strana sensazione: sto evidentemente iniziando ad assimilare le teorie di “Antifragile” di Taleb e, automaticamente, le riapplico a ciò che vedo/leggo/studio.
Una teoria di Taleb, a mio parere dubbia, riguardava l’importanza della conoscenza “accademica” (v. Istruzione e ricchezza e La iatrogenesi di Taleb). In breve Taleb è scettico che la conoscenza accademica sia effettivamente il fattore trainante del progresso tecnologico: spesso è solo una formalizzazione teorica di scoperte empiriche. Ovvero si scopre che un qualcosa sembra avere un certo effetto e ci si costruisce sopra una teoria scientifica che spieghi il fenomeno.
L’idea è che tale teoria sia poi utile a creare nuova conoscenza: che sia cioè una specie di mattoncino utilizzabile per arrivare a nuove scoperte.
Sembrerebbe logico e corretto vero?
Ma in verità in questo modo di procedere vi è un grande rischio: la teoria che spiega un certo fenomeno potrebbe essere errata: spiega cioè il fenomeno, e questo la fa sembrare affidabile e corretta, ma ciò non prova che i passaggi che adopera siano a loro volta corretti o completi.
Il problema è che quando si cerca di costruire nuova conoscenza basandoci su questa teoria, se essa è solo apparentemente corretta, si può facilmente giungere a conclusioni errate che hanno magari effetti opposti a quelli attesi ma di cui talvolta non è facile accorgersi subito.
Questo mio ragionamento può sembrare troppo astratto e ipotetico: siamo abituati a pensare che la scienza sia assolutamente affidabile e che se una ricerca, magari verificata dai pari, stabilisce un qualcosa allora ci possa fidare ciecamente di tale risultato.
In realtà nelle scienze esatte, come la matematica, è così: una dimostrazione è corretta o errata, non può “sembrare” corretta e invece essere sbagliata!
Però in altri campi le cose possono essere diverse. Oggi (come peraltro suggeriva anche Taleb) mi sono reso conto che la medicina è troppo complessa. Le interazioni fra farmici e corpo umano sono così numerose che l’illusione di aver capito quando in realtà si è frainteso è particolarmente frequente e pericolosa. E sto parlando di scienziati e medici in buona fede senza considerare cioè le case farmaceutiche che potrebbero aggiungere tutto un ulteriore livello di incertezza motivato da interessi economici…
Me ne sono reso conto osservando le spiegazioni elegantissime del dr. Seheult sulle complesse interazioni fra farmici e corpo umano che, oltretutto, sono semplificate per essere comprensibile da tutti.
Prendiamo per esempio l’idrossiclorochina che inizialmente era considerata un farmaco utile per combattere il covid-19. Se ben ricordo la spiegazione del dr. Seheult sull’efficacia di tale farmaco, basata su ricerche affidabilissime, era che favorisse l’assimilazione di zinco nelle cellule e che questo, a sua volta, limitasse la capacità del virus di replicarsi (come era stato dimostrato da esperimenti in vitro). Tutto logico e ragionevole.
Poi ci furono per mesi teorie (e ricerche) discordanti: per alcuni medici medici non faceva niente, per altri faceva male e per altri ancora non faceva niente.
L'ipotesi del dr. Seheult fu che la discriminante fosse sul momento in cui si iniziava la terapia a base di idrossiclorochina: visto che questa essenzialmente (in teoria!) ostacolava la replicazione del virus era logico pensare che fosse efficace solo nelle fasi iniziali della malattia prima cioè che si verificassero i danni al sistema respiratorio e circolatorio.
Però, in una ricerca che ho visto oggi (ormai di ottobre: ero rimasto molto indietro con i video!), di quelle estremamente affidabili (numero soggetti, metodologia di analisi, serietà dei ricercatori, mancanza di conflitti d’interesse etc.) risulta che la somministrazione di idrossiclorochina non altera la mortalità del covid.
Mettiamo quindi una pietra sopra all’uso dell’idrossiclorochina nel trattamento del covid-19? Sembrerebbe che la scienza dica proprio di fare così.
E i medici che si dicono sicuri di aver salvato molte vite proprio grazie all’uso di tale farmaco? Hanno semplicemente preso un abbaglio? Di nuovo sembrerebbe così…
Se però facciamo un passo indietro e diveniamo più scettici sulle certezze della scienza medica ci rendiamo conto che è lecito, e magari sensato, rimanere con qualche dubbio.
I fattori in gioco fra farmaco e corpo umano (e altri farmaci!) sono così tanti che anche alle ricerche più ricche e articolate possono sfuggire elementi significativi.
Ipotizziamo che l’idrossiclorochina abbia un effetto positivo A e uno negativo B sui malati di covid-19 tanto che l’effetto complessivo C sembri essere neutro. Una teoria che non considera gli effetti A e B arriverà alla conclusione scientifica che l’idrossiclorochina ha un effetto C nullo e che pertanto sia inutile come terapia per il trattamento del covid-19.
Basandosi su tale ricerca si dovrebbe smettere di usare l’idrossiclorochina e di effettuare ulteriori esperimenti e analisi: ma in questa maniera ci si preclude la possibilità di individuare i due effetti A e B e, quindi, potenzialmente di eliminare B rendendo l’idrossiclorochina efficace. L’effetto B potrebbe essere dato da un altro farmaco, da una particolare condizione del paziente e via discorrendo; o viceversa potrebbe essere il fattore A che si attiva solo in specifiche situazioni (per esempio integrazione di zinco)…
Ovviamente medici e ricercatori sono ben consapevoli di questo fenomeno e prendono tutte le precauzioni per cercare di considerare il maggior numero di fattori possibile. Col tempo si riesce effettivamente a comprendere una malattia in maniera sempre più approfondita e quindi a trattarla in maniera sempre più efficace: ma è un processo lento che include molti errori e vicoli ciechi.
I medici ne sono consapevoli: giornalisti, politici e, di conseguenza l’uomo comune, no. La prima teoria scientifica su qualsiasi problema viene considerata come verità assoluta: invece, soprattutto nel caso di una malattia nuova e quindi sconosciuta come il covid-19, si dovrebbe ricordare che non si hanno certezze scientifiche su di essa. In verità quindi, imporre un qualcosa sulla base di una ricerca scientifica (e su una problematica nuova!), non è troppo lontano dal puro arbitrio soprattutto se ci sono teorie (di esperti) discordanti.
Mi sto persuadendo dell’idea che la maniera più efficace per trovare la migliore terapia per il trattamento del covid-19 sarebbe procedere per tentativi, senza preoccuparsi della teoria per cui un farmaco sarebbe “adatto” o no. Osservare i risultati cercando di tener presenti tutti i fattori coinvolti.
Probabilmente è effettivamente così che si procede nella realtà: sostanzialmente per tentativi e sempre col dubbio che qualche fattore significativo (potenzialmente in grado di cambiare una valutazione complessiva) possa essere ignorato. E questo a tutti i livelli.
La politica invece cerca di vendere certezze avendo fra le mani solo incertezze: lo capisco ed è parzialmente inevitabile però, allo stesso tempo, trovo proprio per questo profondamente sbagliato trattare da pazzo e/o ignorante e/o cretino chi abbia un’opinione minoritaria e/o contraria a quella propugnata dalle autorità (v. anche La verità non può essere un dogma).
Conclusione: diffidare dalle spiegazioni di teorie complesse anche se molto eleganti e apparentemente logiche e affidabili.
lunedì 30 novembre 2020
sabato 28 novembre 2020
Il nuovo razzismo
[E] Attenzione! Per la comprensione di questo pezzo è necessaria la lettura della mia Epitome (V. 1.7.0 "Trampata").
In verità mi sembrava di aver già affrontato questo tema: ho provato a fare una ricerca per “razzismo” e “diseguaglianza” ma non ho trovato niente. Può darsi che avessi già avuto questa idea senza però aver trovato l’occasione giusta oppure, semplicemente, non ho ritrovato dove ne avevo già scritto!
Comunque l’idea è semplice: di solito associamo il termine razzismo al colore della pelle, ovvero avere dei pregiudizi negativi e discriminare altre persone in base alla loro epidermide.
Ebbene credo che questa definizione sia inesatta o comunque superata (quindi corretta in passato ma non ora) e che vi sia una forma di razzismo più sottile, invisibile ai più e quindi non ritenuto tale, di cui quello “classico” è spesso solo una mera conseguenza incidentale.
Prima di spiegare di cosa si tratti devo però fare un passo indietro: nella mia Epitome spiego che, praticamente in tutto il mondo occidentale, è in atto una deriva morale ([E] 14.3) causata da numerosi fattori (troppo complesso riassumere tutto qui: chi è interessato può scaricarsi gratuitamente l’Epitome). La conseguenza è un cambiamento dell’etica: la misura del bene è sempre meno l’uomo e sempre di più il denaro. Qualcosa è buona giusta se porta un profitto non se dà benessere agli individui. I diritti degli individui stanno cedendo il passo al diritto del profitto: per esempio l’accesso alla salute o all’acqua sono subordinate alla logica che permetta al privato di guadagnarci.
Ma cosa succede se consideriamo la deriva morale applicata al razzismo?
Quando il bene si valutava coll’uomo ci potevano essere delle interpretazioni distorte che andassero a misurare gli aspetti esteriori dell’individuo: c’era un’illusione di razionalità nel valutare inferiori delle persone a causa delle loro caratteristiche fisiche o mentali (*1).
Adesso invece la misura del bene di un uomo è data da quanto denaro egli possieda.
Il nero ricco e famoso non è vittima del razzismo: a meno che il “razzista” non lo riconosca e/o non si accorga che è ricco!
Al contrario è il povero a essere discriminato: certo questa discriminazione non è chiamata “razzismo” e, anzi, a causa della deriva della morale ciò è generalmente considerato giusto e normale ma, in realtà, sempre di discriminazione si tratta: non per il colore della pelle ma per quello del conto in banca.
I neri o i nordafricani vengono discriminati essenzialmente perché poveri o percepiti tali: al saudita che viene in Italia col seguito di mogli, figli e servitù varia gli italiani baciano i piedi perché è ricco e porta ricchezza, ovvero il bene (*2).
La riprova l’abbiamo osservando come viene trattato il bianco povero: automaticamente dovrà accontentarsi di servizi, salute, giustizia e istruzione minori della media perché tutta la società è ormai organizzata per garantire solo sulla carta pari diritti a tutti mentre invece il denaro dà accesso a soluzioni che il povero non riesce neppure a immaginarsi.
Guardiamo come vengono considerati con disprezzo i populisti/sovranisti dalle élite dominanti: tutti ignoranti, rozzi, intellettualmente e moralmente inferiori. E non sono questi dei pregiudizi?
Non sono rare, per esempio, le proposte di limitare il voto con un “patentino” basato sull’istruzione dell’individuo. Sfugge che in genere il populista è tale perché divenuto povero e, quindi, arrabbiato con un sistema che non sembra far più i suoi interessi ([E] 13.2 e 13.3). Sfugge che il livello d’istruzione è dato dalla ricchezza: discriminare in base all’istruzione equivale a discriminare in base al censo.
Questo atteggiamento contro i poveri non si chiama razzismo ma nell’essenza lo è.
Ovvio che il lettore potrà trovare nella cronaca numerosi esempi di razzismo “tradizionale”: quella che io ho esposto è infatti una tendenza, forse addirittura al momento minoritaria, ma che sicuramente nel tempo crescerà sempre più.
Discorso ancora diverso è quello del rapporto fra poveri: tutta la popolazione è ugualmente influenzata dalla deriva morale. Il povero è considerato malvagio: gruppi sociali diversi di poveri non si considerano “fratelli” ma nemici. Facilmente si accuseranno a vicenda della loro povertà. Anche in questo caso il razzismo “tradizionale” è solo incidentale. Se i migranti sui barconi arrivassero carichi di denaro sarebbero accolti a braccia aperte ma invece, a torto o a ragione, vengono percepiti come zavorra sociale come persone che quindi toglieranno risorse ai poveri italiani.
Conclusione: il nuovo razzismo è quello contro i poveri, indipendentemente dal loro colore, ed è spesso istituzionalizzato. È particolarmente pericoloso perché è percepito come giusto e inevitabile e, quindi, sfugge al dibattito politico e mediatico non venendo considerato né un problema né una vera ingiustizia. Il razzismo “tradizionale” sicuramente ancora esiste ma in parte è solo apparente (spesso cioè razzismo “economico” o è un aspetto della “guerra fra poveri”) e, credo, in costante diminuzione via via che i principi della deriva morale divengono più forti.
Nota (*1): per quanto queste ultime siano ancor più sfuggenti e difficili, forse impossibile, da misurare.
Nota (*2): e lo stesso vale per altre forme di discriminazione: è enormemente più probabile che la donna, l’anziano o l’omosessuale venga discriminato se è povero piuttosto che se fosse ricco.
In verità mi sembrava di aver già affrontato questo tema: ho provato a fare una ricerca per “razzismo” e “diseguaglianza” ma non ho trovato niente. Può darsi che avessi già avuto questa idea senza però aver trovato l’occasione giusta oppure, semplicemente, non ho ritrovato dove ne avevo già scritto!
Comunque l’idea è semplice: di solito associamo il termine razzismo al colore della pelle, ovvero avere dei pregiudizi negativi e discriminare altre persone in base alla loro epidermide.
Ebbene credo che questa definizione sia inesatta o comunque superata (quindi corretta in passato ma non ora) e che vi sia una forma di razzismo più sottile, invisibile ai più e quindi non ritenuto tale, di cui quello “classico” è spesso solo una mera conseguenza incidentale.
Prima di spiegare di cosa si tratti devo però fare un passo indietro: nella mia Epitome spiego che, praticamente in tutto il mondo occidentale, è in atto una deriva morale ([E] 14.3) causata da numerosi fattori (troppo complesso riassumere tutto qui: chi è interessato può scaricarsi gratuitamente l’Epitome). La conseguenza è un cambiamento dell’etica: la misura del bene è sempre meno l’uomo e sempre di più il denaro. Qualcosa è buona giusta se porta un profitto non se dà benessere agli individui. I diritti degli individui stanno cedendo il passo al diritto del profitto: per esempio l’accesso alla salute o all’acqua sono subordinate alla logica che permetta al privato di guadagnarci.
Ma cosa succede se consideriamo la deriva morale applicata al razzismo?
Quando il bene si valutava coll’uomo ci potevano essere delle interpretazioni distorte che andassero a misurare gli aspetti esteriori dell’individuo: c’era un’illusione di razionalità nel valutare inferiori delle persone a causa delle loro caratteristiche fisiche o mentali (*1).
Adesso invece la misura del bene di un uomo è data da quanto denaro egli possieda.
Il nero ricco e famoso non è vittima del razzismo: a meno che il “razzista” non lo riconosca e/o non si accorga che è ricco!
Al contrario è il povero a essere discriminato: certo questa discriminazione non è chiamata “razzismo” e, anzi, a causa della deriva della morale ciò è generalmente considerato giusto e normale ma, in realtà, sempre di discriminazione si tratta: non per il colore della pelle ma per quello del conto in banca.
I neri o i nordafricani vengono discriminati essenzialmente perché poveri o percepiti tali: al saudita che viene in Italia col seguito di mogli, figli e servitù varia gli italiani baciano i piedi perché è ricco e porta ricchezza, ovvero il bene (*2).
La riprova l’abbiamo osservando come viene trattato il bianco povero: automaticamente dovrà accontentarsi di servizi, salute, giustizia e istruzione minori della media perché tutta la società è ormai organizzata per garantire solo sulla carta pari diritti a tutti mentre invece il denaro dà accesso a soluzioni che il povero non riesce neppure a immaginarsi.
Guardiamo come vengono considerati con disprezzo i populisti/sovranisti dalle élite dominanti: tutti ignoranti, rozzi, intellettualmente e moralmente inferiori. E non sono questi dei pregiudizi?
Non sono rare, per esempio, le proposte di limitare il voto con un “patentino” basato sull’istruzione dell’individuo. Sfugge che in genere il populista è tale perché divenuto povero e, quindi, arrabbiato con un sistema che non sembra far più i suoi interessi ([E] 13.2 e 13.3). Sfugge che il livello d’istruzione è dato dalla ricchezza: discriminare in base all’istruzione equivale a discriminare in base al censo.
Questo atteggiamento contro i poveri non si chiama razzismo ma nell’essenza lo è.
Ovvio che il lettore potrà trovare nella cronaca numerosi esempi di razzismo “tradizionale”: quella che io ho esposto è infatti una tendenza, forse addirittura al momento minoritaria, ma che sicuramente nel tempo crescerà sempre più.
Discorso ancora diverso è quello del rapporto fra poveri: tutta la popolazione è ugualmente influenzata dalla deriva morale. Il povero è considerato malvagio: gruppi sociali diversi di poveri non si considerano “fratelli” ma nemici. Facilmente si accuseranno a vicenda della loro povertà. Anche in questo caso il razzismo “tradizionale” è solo incidentale. Se i migranti sui barconi arrivassero carichi di denaro sarebbero accolti a braccia aperte ma invece, a torto o a ragione, vengono percepiti come zavorra sociale come persone che quindi toglieranno risorse ai poveri italiani.
Conclusione: il nuovo razzismo è quello contro i poveri, indipendentemente dal loro colore, ed è spesso istituzionalizzato. È particolarmente pericoloso perché è percepito come giusto e inevitabile e, quindi, sfugge al dibattito politico e mediatico non venendo considerato né un problema né una vera ingiustizia. Il razzismo “tradizionale” sicuramente ancora esiste ma in parte è solo apparente (spesso cioè razzismo “economico” o è un aspetto della “guerra fra poveri”) e, credo, in costante diminuzione via via che i principi della deriva morale divengono più forti.
Nota (*1): per quanto queste ultime siano ancor più sfuggenti e difficili, forse impossibile, da misurare.
Nota (*2): e lo stesso vale per altre forme di discriminazione: è enormemente più probabile che la donna, l’anziano o l’omosessuale venga discriminato se è povero piuttosto che se fosse ricco.
venerdì 27 novembre 2020
Ancora Proust
Nel corto Ritmo antico avevo accennato a una mia intuizione sul rapporto fra Proust e il tempo (e il lettore!).
Partendo da un riferimento all’ora solare mi ero reso conto che il lettore si deve adattare a un cambiamento di ritmo, a una narrativa che avanza con le sue more.
Ebbene proseguendo nella lettura mi sono accorto di un altro fenomeno legato al tempo compatibile, anzi, probabilmente connesso al precedente.
ATTENZIONE SCIUPATRAMA!
La fuggitiva inizialmente segue due trame collegate fra loro: la storia della relazione fra il protagonista e Albertine, la fidanzata/convivente, che lo ha lasciato e le vicissitudini interiori del protagonista che si ingegna per farla tornare a sé ponderando a tavolino le azioni da compiere.
Proprio quando sembra che il protagonista abbia avuto successo e che Albertine stia per tornare ecco che gli giunge la notizia dell’improvvisa morte di lei causata da una banale caduta da cavallo.
A questo punto la prima trama, diciamo quindi il resoconto delle azioni del protagonista sul piano reale si sospende (con l’eccezione di qualche breve resoconto estemporaneo non collocabile temporalmente), e rimane solo la seconda trama, ovvero la descrizione del suo tormento interiore, le sue riflessioni, le sue emozioni e ossessioni legate all’amore per sempre perduto e soprattutto i suoi ricordi.
Ecco, in queste pagine, mi sono reso conto che si perde completamente il senso del tempo: dopo aver letto una decina di pagine non so più se siano passati pochi giorni dalla scomparsa di Albertine oppure mesi o addirittura anni (si accenna infatti alle emozioni rievocate dal passaggio delle stagioni). Chiaramente è un effetto voluto dall’autore a cui io però faccio particolarmente caso perché quando leggo qualcosa (oppure guardo un film etc.) cerco sempre di tenerne traccia per valutare la verosimiglianza della trama: molto spesso ci scoprono delle evidenti inconsistenze…
Credo che, proprio per questa perdita della nozione del tempo, il lettore debba avere ancora più pazienza nella lettura del libro: egli, come se facesse una crociera nella mente del protagonista, non deve aspettarsi di arrivare a una qualche conclusione/destinazione ma deve invece limitarsi ad apprezzare il viaggio e i panorami che l’autore gli mostra.
Del resto il concentrarsi sui giorni di ferie rimasti piuttosto che nel piacere della vacanza sono il risultato della concezione moderna del tempo con la vita dell’uomo scandita e controllata da esso: e non mi riferisco ai ritmi naturali del tempo, quelli dettati dal sorgere e dal tramontare del sole, ma a quello ossessivo, preciso al millisecondo, di orologi e telefonini…
Visto che come “corto” sono andato “lungo” ne approfitto per presentare delle considerazioni del protagonista che mi hanno lasciato perplesso. Oltretutto sono concentrate in due-tre pagine lette ieri sera: magari rappresentano l’inizio di una nuova fase del romanzo in cui dalla semplice descrizione dello stato d’animo del protagonista si passa a delle riflessioni che cercano di porvi ordine, di generalizzarle e di comprenderle. Se fosse così troverei il romanzo molto più interessante!
Comunque ecco i tre passaggi che mi hanno colpito (ricordo che il protagonista è afflitto per la perdita dell’amata Albertine):
1. «Certo, avevo conosciuto persone di intelligenza maggiore [rispetto ad Albertine]. Ma l’infinito dell’amore, o il suo egoismo, fa sì che gli esseri che amiamo sian quelli la cui fisionomia intellettuale e morale sia per noi la meno oggettivamente definita.» (*1)
2. «E allora provavo, insieme a una grande pietà per lei, la vergogna di sopravviverle. Mi pareva, infatti, nelle ore di minor sofferenza, di beneficiare in qualche modo della sua morte, perché una donna è di maggior utilità per la nostra vita se, invece d’esser un elemento di felicità, è uno strumento di afflizione; e non ne esiste alcuna il cui possesso sia prezioso quanto quello della verità ch’essa ci rivela facendoci soffrire.» (*2)
3. «Quando parliamo della “grazia” di una donna, forse ci limitiamo a proiettare all’esterno il piacere che proviamo a vederla, come i bambini che dicono: “Mio caro lettino, mio bel piccolo cuscino, miei cari piccoli biancospini”. Questo spiega, d’altra parte, che gli uomini non dicano mai di una donna che non li inganni: “È tanto cara”, mentre lo dicono tanto spesso di una donna che invece li inganni.» (*3)
Il significato di 1 mi pare di intuirlo anche se non sono sicuro di condividerlo.
Il significato di 2 è chiaro ma non riesco a comprendere l’apparente antinomia.
Il significato di 3 invece proprio mi sfugge…
Proverò a chiedere agli amici/conoscenti su FB: anche se di solito non ottengo granché…
Conclusione: vediamo… se adesso il romanzo cambia ritmo e diventa più “filosofico”, con riflessioni profonde su amore e lutto, potrebbe iniziare a interessarmi maggiormente… sempre ovviamente che riesca a seguirlo visto che queste prime frasi citate mi hanno lasciato sostanzialmente perplesso!
Nota (*1): Tratto da “La fuggitiva” di Marcel Proust, (E.) CDE spa, 1996, trad. Franco Fortini, pag. 84.
Nota (*2): ibidem, pag. 84
Nota (*3): ibidem, pag. 85
Partendo da un riferimento all’ora solare mi ero reso conto che il lettore si deve adattare a un cambiamento di ritmo, a una narrativa che avanza con le sue more.
Ebbene proseguendo nella lettura mi sono accorto di un altro fenomeno legato al tempo compatibile, anzi, probabilmente connesso al precedente.
ATTENZIONE SCIUPATRAMA!
La fuggitiva inizialmente segue due trame collegate fra loro: la storia della relazione fra il protagonista e Albertine, la fidanzata/convivente, che lo ha lasciato e le vicissitudini interiori del protagonista che si ingegna per farla tornare a sé ponderando a tavolino le azioni da compiere.
Proprio quando sembra che il protagonista abbia avuto successo e che Albertine stia per tornare ecco che gli giunge la notizia dell’improvvisa morte di lei causata da una banale caduta da cavallo.
A questo punto la prima trama, diciamo quindi il resoconto delle azioni del protagonista sul piano reale si sospende (con l’eccezione di qualche breve resoconto estemporaneo non collocabile temporalmente), e rimane solo la seconda trama, ovvero la descrizione del suo tormento interiore, le sue riflessioni, le sue emozioni e ossessioni legate all’amore per sempre perduto e soprattutto i suoi ricordi.
Ecco, in queste pagine, mi sono reso conto che si perde completamente il senso del tempo: dopo aver letto una decina di pagine non so più se siano passati pochi giorni dalla scomparsa di Albertine oppure mesi o addirittura anni (si accenna infatti alle emozioni rievocate dal passaggio delle stagioni). Chiaramente è un effetto voluto dall’autore a cui io però faccio particolarmente caso perché quando leggo qualcosa (oppure guardo un film etc.) cerco sempre di tenerne traccia per valutare la verosimiglianza della trama: molto spesso ci scoprono delle evidenti inconsistenze…
Credo che, proprio per questa perdita della nozione del tempo, il lettore debba avere ancora più pazienza nella lettura del libro: egli, come se facesse una crociera nella mente del protagonista, non deve aspettarsi di arrivare a una qualche conclusione/destinazione ma deve invece limitarsi ad apprezzare il viaggio e i panorami che l’autore gli mostra.
Del resto il concentrarsi sui giorni di ferie rimasti piuttosto che nel piacere della vacanza sono il risultato della concezione moderna del tempo con la vita dell’uomo scandita e controllata da esso: e non mi riferisco ai ritmi naturali del tempo, quelli dettati dal sorgere e dal tramontare del sole, ma a quello ossessivo, preciso al millisecondo, di orologi e telefonini…
Visto che come “corto” sono andato “lungo” ne approfitto per presentare delle considerazioni del protagonista che mi hanno lasciato perplesso. Oltretutto sono concentrate in due-tre pagine lette ieri sera: magari rappresentano l’inizio di una nuova fase del romanzo in cui dalla semplice descrizione dello stato d’animo del protagonista si passa a delle riflessioni che cercano di porvi ordine, di generalizzarle e di comprenderle. Se fosse così troverei il romanzo molto più interessante!
Comunque ecco i tre passaggi che mi hanno colpito (ricordo che il protagonista è afflitto per la perdita dell’amata Albertine):
1. «Certo, avevo conosciuto persone di intelligenza maggiore [rispetto ad Albertine]. Ma l’infinito dell’amore, o il suo egoismo, fa sì che gli esseri che amiamo sian quelli la cui fisionomia intellettuale e morale sia per noi la meno oggettivamente definita.» (*1)
2. «E allora provavo, insieme a una grande pietà per lei, la vergogna di sopravviverle. Mi pareva, infatti, nelle ore di minor sofferenza, di beneficiare in qualche modo della sua morte, perché una donna è di maggior utilità per la nostra vita se, invece d’esser un elemento di felicità, è uno strumento di afflizione; e non ne esiste alcuna il cui possesso sia prezioso quanto quello della verità ch’essa ci rivela facendoci soffrire.» (*2)
3. «Quando parliamo della “grazia” di una donna, forse ci limitiamo a proiettare all’esterno il piacere che proviamo a vederla, come i bambini che dicono: “Mio caro lettino, mio bel piccolo cuscino, miei cari piccoli biancospini”. Questo spiega, d’altra parte, che gli uomini non dicano mai di una donna che non li inganni: “È tanto cara”, mentre lo dicono tanto spesso di una donna che invece li inganni.» (*3)
Il significato di 1 mi pare di intuirlo anche se non sono sicuro di condividerlo.
Il significato di 2 è chiaro ma non riesco a comprendere l’apparente antinomia.
Il significato di 3 invece proprio mi sfugge…
Proverò a chiedere agli amici/conoscenti su FB: anche se di solito non ottengo granché…
Conclusione: vediamo… se adesso il romanzo cambia ritmo e diventa più “filosofico”, con riflessioni profonde su amore e lutto, potrebbe iniziare a interessarmi maggiormente… sempre ovviamente che riesca a seguirlo visto che queste prime frasi citate mi hanno lasciato sostanzialmente perplesso!
Nota (*1): Tratto da “La fuggitiva” di Marcel Proust, (E.) CDE spa, 1996, trad. Franco Fortini, pag. 84.
Nota (*2): ibidem, pag. 84
Nota (*3): ibidem, pag. 85
martedì 24 novembre 2020
Ritmo antico
Stamani leggendo le mie consuete due paginette di Proust ho avuto un’intuizione.
In un passaggio scrive che il tempo è definito “dalla posizione del Sole”: oggi si direbbe “dalle lancette dell’orologio” o, chi è più moderno di me, “da quanto indicato dal telefonino”.
Basare il trascorrere del tempo sulla posizione del Sole è tipico del medioevo: solo piuttosto recentemente (dal XIX secolo?) con la diffusione massiccia degli orologi la vita dell’uomo, e quindi la società, hanno preso un ritmo completamente indipendente da quello solare: solo utilitaristicamente ci ricordiamo del Sole col periodico passaggio dall’ora legale a quella solare e vice versa.
Ecco allora la mia intuizione: Proust va letto senza fretta, fuori dal tempo, bisogna navigare con calma, lasciandosi trasportare dalla descrizione delle emozioni e dei pensieri dei suoi personaggi. Va letto senza la frenesia dell’uomo moderno che si aspetta fatti concreti e non impalpabili emozioni per il tempo che investe nella lettura.
Braccino - 28/11/2020
Ormai sono passate due settimane dalla crisi che mi aveva lasciato col braccio destro completamente dolorante: probabilmente un gomito del tennista dovuto alla cattiva postura al calcolatore.
Inizialmente, per 2-3 giorni, smisi di usarlo; poi comprai un tutore che mi fece subito benissimo: in pratica a metà della prima settimana mi era passato il dolore alla spalla e al polso rimanendo solo alla zona gomito (*1).
Dalla scorsa settimana ho iniziato a fare impacchi di ghiaccio due volte al giorno e un po’ di ginnastica molto leggera. Siccome sto continuando a migliorare per il momento non mi farò visitare…
Ah! Sto continuando a usare il topo con la mano sinistra ma scrivo con entrambe...
Nota (*1): infatti credo che al gomito del tennista si sia sovrapposto altro: al momento mi fa infatti male il bicipite vicino all’attaccamento al gomito. Poi a questo dolore se ne erano aggiiunti molti altri.
Vittoria e sconfitta - 30/11/2020
Vittoria!
Anzi sconfitta…
Perché la vittoria di alcuni e la sconfitta di altri.
Mesi fa avevo indicato una tendenza nella narrazione della gestione della pandemia: uno scaricabarile da parte del governo verso altre entità con l’obiettivo finale di scaricare la colpa di non essere riusciti a contenere l’epidemia sulla popolazione.
Beh, il governo, ovviamente coadiuvato dai media compiacenti, è riuscito nel suo intento.
Su FB mi è capitato ormai diverse volte di vedere associati a foto di persone in fila all’aperto, con mascherine in volto e distanziate fra loro commenti del tipo “Ecco, vedi come ce l’andiamo a cercare!”/“In questa maniera ovvio che diventeremo zona rossa” e simili.
Si dà quindi la colpa a comportamenti innocui o comunque a bassissimo rischio e si dimentica la totale presa di contromisure durante l’estate da parte dell’autorità centrale nonché quali siano probabilmente i veri centri di diffusione del virus: scuole, mezzi pubblici, luoghi di lavoro al chiuso.
Si crede invece alla favola che la colpa sia degli italiani che in realtà, per la massima parte, hanno sempre ottemperato alle indicazioni sulle precauzioni da seguire (evidentemente inutili o comunque insufficienti).
Vittoria quindi della disinformazione e sconfitta dell’obiettività.
Pausa antifragile - 1/12/2020
Da qualche giorno non sto più leggendo “Antifragile” di Taleb: sto cercando infatti di rimettermi in pari con i miei appunti.
Il libro è interessantissimo ma è anche molto disorganizzato e non è facile identificare chiaramente le varie idee: per questo sto ricontrollando le mie note ma è un’operazione abbastanza lenta e noiosa. Ma fin quando non la concludo non voglio proseguire la lettura.
Comunque questo lavoro di analisi è utilissimo e mi sta facendo capire molto meglio dei passaggi che in prima battuta mi erano sembrati oscuri…
Aggiornamento braccio - 5/12/2020
Sto migliorando: adesso lo posso muovere liberamente e non sento quasi mai male. Solo se ci faccio qualche piccolo sforzo (basta sollevare una bottiglia d’acqua per esempio) allora ho del dolore; oppure se faccio movimenti strani, tipo dietro la schiena o simili...
Ancora uso il topo con la mano sinistra ma per scrivere uso entrambe le mani. Il tutore lo porto molto ma non sempre. Ginnastica lievissima.
Sono fiducioso che fra una settimana starò bene: vedremo…
In un passaggio scrive che il tempo è definito “dalla posizione del Sole”: oggi si direbbe “dalle lancette dell’orologio” o, chi è più moderno di me, “da quanto indicato dal telefonino”.
Basare il trascorrere del tempo sulla posizione del Sole è tipico del medioevo: solo piuttosto recentemente (dal XIX secolo?) con la diffusione massiccia degli orologi la vita dell’uomo, e quindi la società, hanno preso un ritmo completamente indipendente da quello solare: solo utilitaristicamente ci ricordiamo del Sole col periodico passaggio dall’ora legale a quella solare e vice versa.
Ecco allora la mia intuizione: Proust va letto senza fretta, fuori dal tempo, bisogna navigare con calma, lasciandosi trasportare dalla descrizione delle emozioni e dei pensieri dei suoi personaggi. Va letto senza la frenesia dell’uomo moderno che si aspetta fatti concreti e non impalpabili emozioni per il tempo che investe nella lettura.
Braccino - 28/11/2020
Ormai sono passate due settimane dalla crisi che mi aveva lasciato col braccio destro completamente dolorante: probabilmente un gomito del tennista dovuto alla cattiva postura al calcolatore.
Inizialmente, per 2-3 giorni, smisi di usarlo; poi comprai un tutore che mi fece subito benissimo: in pratica a metà della prima settimana mi era passato il dolore alla spalla e al polso rimanendo solo alla zona gomito (*1).
Dalla scorsa settimana ho iniziato a fare impacchi di ghiaccio due volte al giorno e un po’ di ginnastica molto leggera. Siccome sto continuando a migliorare per il momento non mi farò visitare…
Ah! Sto continuando a usare il topo con la mano sinistra ma scrivo con entrambe...
Nota (*1): infatti credo che al gomito del tennista si sia sovrapposto altro: al momento mi fa infatti male il bicipite vicino all’attaccamento al gomito. Poi a questo dolore se ne erano aggiiunti molti altri.
Vittoria e sconfitta - 30/11/2020
Vittoria!
Anzi sconfitta…
Perché la vittoria di alcuni e la sconfitta di altri.
Mesi fa avevo indicato una tendenza nella narrazione della gestione della pandemia: uno scaricabarile da parte del governo verso altre entità con l’obiettivo finale di scaricare la colpa di non essere riusciti a contenere l’epidemia sulla popolazione.
Beh, il governo, ovviamente coadiuvato dai media compiacenti, è riuscito nel suo intento.
Su FB mi è capitato ormai diverse volte di vedere associati a foto di persone in fila all’aperto, con mascherine in volto e distanziate fra loro commenti del tipo “Ecco, vedi come ce l’andiamo a cercare!”/“In questa maniera ovvio che diventeremo zona rossa” e simili.
Si dà quindi la colpa a comportamenti innocui o comunque a bassissimo rischio e si dimentica la totale presa di contromisure durante l’estate da parte dell’autorità centrale nonché quali siano probabilmente i veri centri di diffusione del virus: scuole, mezzi pubblici, luoghi di lavoro al chiuso.
Si crede invece alla favola che la colpa sia degli italiani che in realtà, per la massima parte, hanno sempre ottemperato alle indicazioni sulle precauzioni da seguire (evidentemente inutili o comunque insufficienti).
Vittoria quindi della disinformazione e sconfitta dell’obiettività.
Pausa antifragile - 1/12/2020
Da qualche giorno non sto più leggendo “Antifragile” di Taleb: sto cercando infatti di rimettermi in pari con i miei appunti.
Il libro è interessantissimo ma è anche molto disorganizzato e non è facile identificare chiaramente le varie idee: per questo sto ricontrollando le mie note ma è un’operazione abbastanza lenta e noiosa. Ma fin quando non la concludo non voglio proseguire la lettura.
Comunque questo lavoro di analisi è utilissimo e mi sta facendo capire molto meglio dei passaggi che in prima battuta mi erano sembrati oscuri…
Aggiornamento braccio - 5/12/2020
Sto migliorando: adesso lo posso muovere liberamente e non sento quasi mai male. Solo se ci faccio qualche piccolo sforzo (basta sollevare una bottiglia d’acqua per esempio) allora ho del dolore; oppure se faccio movimenti strani, tipo dietro la schiena o simili...
Ancora uso il topo con la mano sinistra ma per scrivere uso entrambe le mani. Il tutore lo porto molto ma non sempre. Ginnastica lievissima.
Sono fiducioso che fra una settimana starò bene: vedremo…
La iatrogenesi di Taleb
[E] Attenzione! Per la comprensione di questo pezzo è necessaria la lettura della mia Epitome (V. 1.7.0 "Trampata").
Ieri mi sono rimesso a ricontrollare le parti già lette di “Antifragile” nel tentativo di arrivare a una sintesi utile per un pezzo: mi sarebbe stato utile per aiutarmi a memorizzare i vari concetti incontrati.
Mi sono però reso conto di essere ormai già troppo avanti: ho riempito due pagine di note ed ero ancora a 1/4 forse 1/3 dell’intero libro (mentre a leggerlo sono a metà). Allora ho deciso di limitarmi a un singolo argomento piuttosto che a una panoramica generale (comunque solo rimandata).
Il soggetto di oggi sarà quindi la iatrogenesi, un termine medico dal significato ben preciso e (credo) limitato, al quale però Taleb dà un valore molto più ampio: provocare dei danni nel tentativo di aiutare (*1).
Secondo Taleb i medici, soprattutto in passato, con i loro interventi rischiano più di danneggiare che di curare. Il medico da una parte procede un po’ per tentativi e, da un’altra, ha troppa fiducia nella propria scienza (v. anche Istruzione e ricchezza). Secondo una statistica, negli USA i morti per errori medici sono circa 5 volte tanti quelli causati da incidenti automobilistici.
I casi famosi non mancano: uno l’avevo trovato anche nel corso sulla rivoluzione americana: George Washington fu ucciso dal suo medico che “prontamente” applicò le cure del tempo al suo paziente che, nel caso specifico, erano però assolutamente dannose in combinazione con la sua patologia.
Anzi, secondo Taleb, proprio i medici personali sono particolarmente perniciosi: l’effetto è provocato da un limite psicologico dell’uomo. L’uomo, specialmente nell’occidente, tende a premiare l’azione evidente non l’inazione (in oriente invece, grazie al tao, c’è almeno la consapevolezza che azione e inazione debbano equilibrarsi e che nessuna delle due è più importante dell’altra). Per questo un medico personale, per giustificare il proprio stipendio, è portato a intervenire sul suo paziente ancor più spesso del normale e, così facendo, si moltiplicano le possibilità di iatrogenesi.
Il fenomeno è comunque tuttora reale: per esempio si sottostimano i pericoli dei farmaci sul lungo periodo (dieci e più anni) concentrandosi sui benefici a breve termine.
«Dobbiamo preoccuparci dell'incitamento a somministrare cure inutili da parte di aziende farmaceutiche, lobby varie e gruppi di interesse particolare, e dei danni che non appaiono subito rilevanti e che non vengono dunque considerati “errori”. […] La iatrogenicità è aggravata dal […] “problema del mandatario e del mandante”, che si verifica quando una delle parti (il mandatario) [la casa farmeceutica] ha interessi diversi da quelli di chi utilizza i suoi servizi (il mandante) [il malato/cliente].» (*2) (*3)
Ho evitato di copiare un passaggio intermedio dove Taleb propone l’esempio degli psicofarmaci prescritti ai bambini per il trattamento di “patologie” comportamentali che in passato non erano neppure considerate tali. Gli stessi ragionamenti si sarebbero potuti traslare parola per parola ai vaccini ma, prudentemente, Taleb si tiene fuori da questa polemica dove gli interessi in gioco sono giganteschi e chi osa esprimere un’opinione fuori dal coro rischia l’immediata gogna mediatica.
Strettamente collegato alla iatrogenesi è quello che Taleb chiama “l’interventismo ingenuo”.
Il cercare di regolare rigidamente un qualsiasi sistema (che può essere la società, un’azienda, lo stesso corpo umano etc.) rischia solo di renderlo più fragile: magari resistente alla piccola volatilità degli eventi comuni ma, nel lungo termine, molto più vulnerabile ai cigni neri, gli eventi rari e imponderabili che hanno così conseguenze ancor più catastrofiche.
È chiaro infatti che la volontà di chi interviene sia (in genere!) quella di proteggere il sistema ma in realtà l’effetto che si ottiene è quello di renderlo solo apparentemente più forte ma in realtà più vulnerabile.
L’antifragilità di un sistema è infatti ottenuta distribuendo gli eventi (positivi e negativi) fra le sue sottoparti ridondanti. Le sottoparti seguono poi una logica evolutiva: solo quelle che sopravvivono si riproducono rendendo il sistema, nel suo complesso, ancora più forte.
Ovviamente questo meccanismo è possibile solo se c’è sufficiente variabilità fra le diverse parti: l’idea non è infatti quella che tutte debbano sopravvivere (questa sarebbe la robustezza) ma che lo facciano in un numero sufficiente da poter mantenere il sistema in vita e, col tempo, rinforzarlo. Se tutte le componenti di un sistema fossero uguali allora un evento esterno avrebbe la possibilità di spazzarle via tutte insieme distruggendo così l’intero sistema (*4) (*5).
Alla base dell’interventismo ingenuo vi è probabilmente la sopravvalutazione dell’accademia e delle sue certezza (v. Istruzione e ricchezza). Volendo la possiamo interpretare come una fiducia eccessiva nei risultati della scienza; la sopravvalutazione di ciò che è certo è la sottostima dell’incerto.
Un caso particolarmente attuale e clamoroso è quello di cui ho già scritto nel corto Virologi fragili: l’affidarsi alle indicazioni dei virologi per gestire tutti gli effetti della pandemia nasconde una molteplicità di aspetti e di interazioni della società che, sommate insieme, rischiano di avere un impatto molto maggiore del virus stesso. Il virologo per forma mentale, come qualsiasi esperto di una singola materia, vede infatti solo il suo “orticello” e, almeno che non sia particolarmente illuminato, non è in grado né di prevedere né immaginare tutte le conseguenze estranee al suo ambito di lavoro.
In realtà sono giunto alla conclusione che Taleb nell’attuale tendenza all’“interventismo ingenuo” vede l’effetto ma non la causa e, pertanto, l’interpreta erroneamente.
La tendenza globale all’“interventismo ingenuo” è provocata dalla degenerazione delle democrazie occidentali: tale “interventismo” infatti non è ingenuo ma semplicemente è orientato non all’interesse di tutti ma di pochi.
Per esempio la gestione maldestra della pandemia secondo me ha, almeno come significativa concausa, l’interesse delle case farmaceutiche a vendere i loro vaccini: la crisi è stata gestita male sotto la pressione delle lobbi interessate a vendere a prezzi altissimi farmaci “salva vita” quando, sempre mia teoria, sarebbe stato molto più utile la vitamina D e/o la distribuzione gratuita di mascherine FFP2 (v. Divagazioni insalubri).
Conclusione: vabbè, come ho spiegato volevo solo evidenziare uno dei tanti concetti interessanti forniti da “Antifragile” di Taleb: questo della iatrogenicità mi pare utile e, soprattutto, attuale.
Nota (*1): esiste poi la iatrogenesi inversa: aiutare cercando di danneggiare. Un esempio possono essere le critiche verso libri o simili che si trasformano in involontaria pubblicità.
Nota (*2): Tratto da “Antifragile” di Nassim Nicholas Taleb, (E.) Il Saggiatore, 2013, trad. Daniela Antongiovanni, Marina Beretta, Francesca Cosi, Alessandra Repossi, pag. 133.
Nota (*3): ovviamente io vi noto anche le analogie con la mia legge della rappresentatività ([E] 5.4)
Nota (*4): ovviamente io vi vedo il pericolo causato dalla legge dell’omogeneizzazione ([E] 5.15) a livello globale ([E] 20.3).
Nota (*5): intendiamoci, per Taleb esiste anche l’interventismo non ingenuo e, anzi, talvolta doveroso per proteggere i più deboli: essenzialmente deve andare contro la tendenza all’omogeneizzazione della civiltà moderna e a quella che lui chiama la “velocità” che io tradurrei con marcata prudenza e prevenzione verso i possibili effetti imprevisti (tipo abbassare la velocità in autostrada per diminuire i rischi di incidenti).
Ieri mi sono rimesso a ricontrollare le parti già lette di “Antifragile” nel tentativo di arrivare a una sintesi utile per un pezzo: mi sarebbe stato utile per aiutarmi a memorizzare i vari concetti incontrati.
Mi sono però reso conto di essere ormai già troppo avanti: ho riempito due pagine di note ed ero ancora a 1/4 forse 1/3 dell’intero libro (mentre a leggerlo sono a metà). Allora ho deciso di limitarmi a un singolo argomento piuttosto che a una panoramica generale (comunque solo rimandata).
Il soggetto di oggi sarà quindi la iatrogenesi, un termine medico dal significato ben preciso e (credo) limitato, al quale però Taleb dà un valore molto più ampio: provocare dei danni nel tentativo di aiutare (*1).
Secondo Taleb i medici, soprattutto in passato, con i loro interventi rischiano più di danneggiare che di curare. Il medico da una parte procede un po’ per tentativi e, da un’altra, ha troppa fiducia nella propria scienza (v. anche Istruzione e ricchezza). Secondo una statistica, negli USA i morti per errori medici sono circa 5 volte tanti quelli causati da incidenti automobilistici.
I casi famosi non mancano: uno l’avevo trovato anche nel corso sulla rivoluzione americana: George Washington fu ucciso dal suo medico che “prontamente” applicò le cure del tempo al suo paziente che, nel caso specifico, erano però assolutamente dannose in combinazione con la sua patologia.
Anzi, secondo Taleb, proprio i medici personali sono particolarmente perniciosi: l’effetto è provocato da un limite psicologico dell’uomo. L’uomo, specialmente nell’occidente, tende a premiare l’azione evidente non l’inazione (in oriente invece, grazie al tao, c’è almeno la consapevolezza che azione e inazione debbano equilibrarsi e che nessuna delle due è più importante dell’altra). Per questo un medico personale, per giustificare il proprio stipendio, è portato a intervenire sul suo paziente ancor più spesso del normale e, così facendo, si moltiplicano le possibilità di iatrogenesi.
Il fenomeno è comunque tuttora reale: per esempio si sottostimano i pericoli dei farmaci sul lungo periodo (dieci e più anni) concentrandosi sui benefici a breve termine.
«Dobbiamo preoccuparci dell'incitamento a somministrare cure inutili da parte di aziende farmaceutiche, lobby varie e gruppi di interesse particolare, e dei danni che non appaiono subito rilevanti e che non vengono dunque considerati “errori”. […] La iatrogenicità è aggravata dal […] “problema del mandatario e del mandante”, che si verifica quando una delle parti (il mandatario) [la casa farmeceutica] ha interessi diversi da quelli di chi utilizza i suoi servizi (il mandante) [il malato/cliente].» (*2) (*3)
Ho evitato di copiare un passaggio intermedio dove Taleb propone l’esempio degli psicofarmaci prescritti ai bambini per il trattamento di “patologie” comportamentali che in passato non erano neppure considerate tali. Gli stessi ragionamenti si sarebbero potuti traslare parola per parola ai vaccini ma, prudentemente, Taleb si tiene fuori da questa polemica dove gli interessi in gioco sono giganteschi e chi osa esprimere un’opinione fuori dal coro rischia l’immediata gogna mediatica.
Strettamente collegato alla iatrogenesi è quello che Taleb chiama “l’interventismo ingenuo”.
Il cercare di regolare rigidamente un qualsiasi sistema (che può essere la società, un’azienda, lo stesso corpo umano etc.) rischia solo di renderlo più fragile: magari resistente alla piccola volatilità degli eventi comuni ma, nel lungo termine, molto più vulnerabile ai cigni neri, gli eventi rari e imponderabili che hanno così conseguenze ancor più catastrofiche.
È chiaro infatti che la volontà di chi interviene sia (in genere!) quella di proteggere il sistema ma in realtà l’effetto che si ottiene è quello di renderlo solo apparentemente più forte ma in realtà più vulnerabile.
L’antifragilità di un sistema è infatti ottenuta distribuendo gli eventi (positivi e negativi) fra le sue sottoparti ridondanti. Le sottoparti seguono poi una logica evolutiva: solo quelle che sopravvivono si riproducono rendendo il sistema, nel suo complesso, ancora più forte.
Ovviamente questo meccanismo è possibile solo se c’è sufficiente variabilità fra le diverse parti: l’idea non è infatti quella che tutte debbano sopravvivere (questa sarebbe la robustezza) ma che lo facciano in un numero sufficiente da poter mantenere il sistema in vita e, col tempo, rinforzarlo. Se tutte le componenti di un sistema fossero uguali allora un evento esterno avrebbe la possibilità di spazzarle via tutte insieme distruggendo così l’intero sistema (*4) (*5).
Alla base dell’interventismo ingenuo vi è probabilmente la sopravvalutazione dell’accademia e delle sue certezza (v. Istruzione e ricchezza). Volendo la possiamo interpretare come una fiducia eccessiva nei risultati della scienza; la sopravvalutazione di ciò che è certo è la sottostima dell’incerto.
Un caso particolarmente attuale e clamoroso è quello di cui ho già scritto nel corto Virologi fragili: l’affidarsi alle indicazioni dei virologi per gestire tutti gli effetti della pandemia nasconde una molteplicità di aspetti e di interazioni della società che, sommate insieme, rischiano di avere un impatto molto maggiore del virus stesso. Il virologo per forma mentale, come qualsiasi esperto di una singola materia, vede infatti solo il suo “orticello” e, almeno che non sia particolarmente illuminato, non è in grado né di prevedere né immaginare tutte le conseguenze estranee al suo ambito di lavoro.
In realtà sono giunto alla conclusione che Taleb nell’attuale tendenza all’“interventismo ingenuo” vede l’effetto ma non la causa e, pertanto, l’interpreta erroneamente.
La tendenza globale all’“interventismo ingenuo” è provocata dalla degenerazione delle democrazie occidentali: tale “interventismo” infatti non è ingenuo ma semplicemente è orientato non all’interesse di tutti ma di pochi.
Per esempio la gestione maldestra della pandemia secondo me ha, almeno come significativa concausa, l’interesse delle case farmaceutiche a vendere i loro vaccini: la crisi è stata gestita male sotto la pressione delle lobbi interessate a vendere a prezzi altissimi farmaci “salva vita” quando, sempre mia teoria, sarebbe stato molto più utile la vitamina D e/o la distribuzione gratuita di mascherine FFP2 (v. Divagazioni insalubri).
Conclusione: vabbè, come ho spiegato volevo solo evidenziare uno dei tanti concetti interessanti forniti da “Antifragile” di Taleb: questo della iatrogenicità mi pare utile e, soprattutto, attuale.
Nota (*1): esiste poi la iatrogenesi inversa: aiutare cercando di danneggiare. Un esempio possono essere le critiche verso libri o simili che si trasformano in involontaria pubblicità.
Nota (*2): Tratto da “Antifragile” di Nassim Nicholas Taleb, (E.) Il Saggiatore, 2013, trad. Daniela Antongiovanni, Marina Beretta, Francesca Cosi, Alessandra Repossi, pag. 133.
Nota (*3): ovviamente io vi noto anche le analogie con la mia legge della rappresentatività ([E] 5.4)
Nota (*4): ovviamente io vi vedo il pericolo causato dalla legge dell’omogeneizzazione ([E] 5.15) a livello globale ([E] 20.3).
Nota (*5): intendiamoci, per Taleb esiste anche l’interventismo non ingenuo e, anzi, talvolta doveroso per proteggere i più deboli: essenzialmente deve andare contro la tendenza all’omogeneizzazione della civiltà moderna e a quella che lui chiama la “velocità” che io tradurrei con marcata prudenza e prevenzione verso i possibili effetti imprevisti (tipo abbassare la velocità in autostrada per diminuire i rischi di incidenti).
domenica 22 novembre 2020
Talete di Mileto
Preannuncio subito che questo pezzo sarà incentrato su una di quelle serendipità che, puntualmente, riescono sempre a stupirmi: però dopo averla evidenziata ne approfitterò per proporre quello che mi pare un quesito interessante su cui il lettore potrà divertirsi a riflettere…
La coincidenza odierna si basa sulla lettura contemporanea di due diversi libri: pertanto devo iniziare con lo spiegare come questi fossero fra loro totalmente irrelati.
Il primo libro è “Antifragile” di Taleb che mi fu consigliato, ormai qualche anno fa dal mio amico matematico russo conosciuto su Steam.
Il secondo libro è la “Costituzione di Atene” di Aristotele: mi venne voglia di prenderlo leggendo “Le origini della democrazia greca” di Forrest (v. Nascita della democrazia) del quale è, prevedibilmente, una fonte molto importante.
Questi titoli erano poi finiti nella mia lista (v. Libri e sacchetti) da cui scelgo in base a più criteri: quando andavo da Feltrinelli semplicemente in base a cosa era disponibile immediatamente; su Amazon scegliendo invece in base alle offerte (Aristotele era a metà prezzo) ed evitando testi dello stesso genere (filosofia, religione, storia, politica, psicologia, svago etc.).
Caso ha voluto che acquistai i due libri sullodati insieme anche se poi ho iniziato a leggere il testo di Taleb molto prima dell’altro…
Ma veniamo alla serendipità: il capitolo 12 di “Antifragile” intitolato “I dolci grappoli di Talete” descrive un aneddoto che vede come protagonista proprio Talete e che è tratto dalla “Politica” di Aristotele.
Ma ecco che, verso la fine del primo capitolo (chiamato “libro”) de “La costituzione di Atene” ho trovato proprio il medesimo aneddoto!
Infatti, senza che me ne fossi accorto (io pensavo fosse un unico titolo!), sto leggendo la “Politica” di Aristotele e non la “Costituzione di Atene” (che è a seguire): vabbè broccolo io a non accorgermene subito… in effetti mi sembrava che Aristotele la prendesse un po’ parecchio alla larga ma ancora non mi stavo preoccupando!
Ma veniamo all’aneddoto così com’è raccontato da Aristotele.
Talete, benestante ma non ricco, stuzzicato a mettere a frutto il suo ingegno, studiando le stelle, capisce che sarà un’annata eccezionale per la produzione delle olive. Affitta quindi con largo anticipo tutti i frantoi disponibili con una spesa relativamente modesta. Quando poi gli agricoltori si ritrovano con le olive da spremere ecco che Talete rivende loro il permesso di usare i frantoi ottenendo un grande guadagno che lo arricchisce notevolmente. Soddisfatto torna a dedicarsi alla filosofia.
Cosa ne pensate? Qual è la chiave con cui interpretare questo aneddoto? Come ha realmente fatto Talete a divenire ricco? Se volete pensateci ma attenti che qui di seguito c’è subito la “risposta”...
Per Aristotele Talete è riuscito a trarre profitto dalla sua conoscenza superiore e, forse, è anche una maniera per mostrare la superiorità della cultura su qualcosa di moralmente ambiguo come il commercio.
Taleb scrive invece che Aristotele non ha capito veramente l’aneddoto di Talete che lui stesso ha proposto: Talete non è diventato ricco grazie alle proprie conoscenze astronomiche ma perché ha sfruttato una asimmetria (che nella teoria di Taleb corrisponde a un aspetto dell’antifragilità). Talete non aveva assolutamente idea se l’annata per la raccolta delle olive sarebbe stata eccezionale o no ma aveva sfruttato un’opportunità asimmetrica: da una parte il rischio di perdere i propri soldi investiti era limitato dall’altra c’era la probabilità, per quanto incerta, di un profitto altissimo (che nella teoria di Taleb equivale a un “cigno nero positivo”). Talete insomma aveva fatto una scommessa e l’aveva vinta.
Personalmente, per quel che vale, io sono un po’ perplesso: non so quanto fosse ricco Talete ma il noleggiare in anticipo tutti i frantoi di Mileto e dintorni mi sembra una spesa significativa: verrebbe quindi meno l’idea che il rischio di perdita fosse trascurabile. Probabilmente quindi Talete, al di là, dell’astronomia avrebbe dovuto avere una ragionevole convinzione che la probabilità di un’ottima annata fossero a lui favorevoli. Ma questa valutazione della probabilità, corretta o meno che fosse, andrebbe ad annullare l’argomento di Taleb secondo il quale questa probabilità è irrilevante (e comunque non sarebbe mai calcolabile) quando si ha un’asimmetria che permetta guadagni praticamente illimitati di fronte a un rischio limitato.
Conclusione: qual è la probabilità che leggessi direttamente questo aneddoto di Aristotele pochi giorni dopo averlo incontrato nel testo di Taleb? È un “cigno nero” (*1)?
Nota (*1): battuta comprensibile solo da chi ha letto “Antifragile”: i “cigni neri” sono eventi rarissimi e, in quanto tali, nonostante si tenda a pensarla diversamente neppure gli esperti sono in grado di calcolare in maniera affidabile la probabilità che si verifichino. A volte con conseguenze disastrose quando l’evento raro è negativo...
La coincidenza odierna si basa sulla lettura contemporanea di due diversi libri: pertanto devo iniziare con lo spiegare come questi fossero fra loro totalmente irrelati.
Il primo libro è “Antifragile” di Taleb che mi fu consigliato, ormai qualche anno fa dal mio amico matematico russo conosciuto su Steam.
Il secondo libro è la “Costituzione di Atene” di Aristotele: mi venne voglia di prenderlo leggendo “Le origini della democrazia greca” di Forrest (v. Nascita della democrazia) del quale è, prevedibilmente, una fonte molto importante.
Questi titoli erano poi finiti nella mia lista (v. Libri e sacchetti) da cui scelgo in base a più criteri: quando andavo da Feltrinelli semplicemente in base a cosa era disponibile immediatamente; su Amazon scegliendo invece in base alle offerte (Aristotele era a metà prezzo) ed evitando testi dello stesso genere (filosofia, religione, storia, politica, psicologia, svago etc.).
Caso ha voluto che acquistai i due libri sullodati insieme anche se poi ho iniziato a leggere il testo di Taleb molto prima dell’altro…
Ma veniamo alla serendipità: il capitolo 12 di “Antifragile” intitolato “I dolci grappoli di Talete” descrive un aneddoto che vede come protagonista proprio Talete e che è tratto dalla “Politica” di Aristotele.
Ma ecco che, verso la fine del primo capitolo (chiamato “libro”) de “La costituzione di Atene” ho trovato proprio il medesimo aneddoto!
Infatti, senza che me ne fossi accorto (io pensavo fosse un unico titolo!), sto leggendo la “Politica” di Aristotele e non la “Costituzione di Atene” (che è a seguire): vabbè broccolo io a non accorgermene subito… in effetti mi sembrava che Aristotele la prendesse un po’ parecchio alla larga ma ancora non mi stavo preoccupando!
Ma veniamo all’aneddoto così com’è raccontato da Aristotele.
Talete, benestante ma non ricco, stuzzicato a mettere a frutto il suo ingegno, studiando le stelle, capisce che sarà un’annata eccezionale per la produzione delle olive. Affitta quindi con largo anticipo tutti i frantoi disponibili con una spesa relativamente modesta. Quando poi gli agricoltori si ritrovano con le olive da spremere ecco che Talete rivende loro il permesso di usare i frantoi ottenendo un grande guadagno che lo arricchisce notevolmente. Soddisfatto torna a dedicarsi alla filosofia.
Cosa ne pensate? Qual è la chiave con cui interpretare questo aneddoto? Come ha realmente fatto Talete a divenire ricco? Se volete pensateci ma attenti che qui di seguito c’è subito la “risposta”...
Per Aristotele Talete è riuscito a trarre profitto dalla sua conoscenza superiore e, forse, è anche una maniera per mostrare la superiorità della cultura su qualcosa di moralmente ambiguo come il commercio.
Taleb scrive invece che Aristotele non ha capito veramente l’aneddoto di Talete che lui stesso ha proposto: Talete non è diventato ricco grazie alle proprie conoscenze astronomiche ma perché ha sfruttato una asimmetria (che nella teoria di Taleb corrisponde a un aspetto dell’antifragilità). Talete non aveva assolutamente idea se l’annata per la raccolta delle olive sarebbe stata eccezionale o no ma aveva sfruttato un’opportunità asimmetrica: da una parte il rischio di perdere i propri soldi investiti era limitato dall’altra c’era la probabilità, per quanto incerta, di un profitto altissimo (che nella teoria di Taleb equivale a un “cigno nero positivo”). Talete insomma aveva fatto una scommessa e l’aveva vinta.
Personalmente, per quel che vale, io sono un po’ perplesso: non so quanto fosse ricco Talete ma il noleggiare in anticipo tutti i frantoi di Mileto e dintorni mi sembra una spesa significativa: verrebbe quindi meno l’idea che il rischio di perdita fosse trascurabile. Probabilmente quindi Talete, al di là, dell’astronomia avrebbe dovuto avere una ragionevole convinzione che la probabilità di un’ottima annata fossero a lui favorevoli. Ma questa valutazione della probabilità, corretta o meno che fosse, andrebbe ad annullare l’argomento di Taleb secondo il quale questa probabilità è irrilevante (e comunque non sarebbe mai calcolabile) quando si ha un’asimmetria che permetta guadagni praticamente illimitati di fronte a un rischio limitato.
Conclusione: qual è la probabilità che leggessi direttamente questo aneddoto di Aristotele pochi giorni dopo averlo incontrato nel testo di Taleb? È un “cigno nero” (*1)?
Nota (*1): battuta comprensibile solo da chi ha letto “Antifragile”: i “cigni neri” sono eventi rarissimi e, in quanto tali, nonostante si tenda a pensarla diversamente neppure gli esperti sono in grado di calcolare in maniera affidabile la probabilità che si verifichino. A volte con conseguenze disastrose quando l’evento raro è negativo...
venerdì 20 novembre 2020
Libri e sacchetti
Chi mi conosce sa bene che mi piacciono i libri e, quindi, le librerie (*1). Dei libri mi piace tutto, la forma, la copertina, il dorso, la carta, l’odore della carta, la sua sensazione tattile, il rumore delle pagine sfogliate…
Per questo tipicamente, fin da ragazzino, le mie escursioni in città non erano complete se non passavo da una o più librerie: non necessariamente per comprare qualcosa ma anche solo a vedere le novità. Oltretutto ho una memoria fotografica eccellente e, quindi, individuavo subito i nuovi arrivi…
Da una decina d’anni però questo piacere mi viene rovinato: per prima Feltrinelli, seguita poi da altre librerie, ha avuto la balzana idea di far pagare i sacchetti di carta anche quando si acquista un libro.
L’idea “ufficiale” era quella di disincentivare lo spreco della carta (i primi tempi ne discutevo sempre con i commessi che, probabilmente per educazione, mi davano ragione e ammettevano che la cosa aveva poco tempo ma che non ci potevano fare niente) ma in verità io ho la sensazione che fosse solo una scusa per estorcere qualche decina di centesimi in più: perché, forse non se ne sono accorti, ma i libri sono fatti di carta!
Cioè da un lato la libreria mi vende oggetti (libri) di carta ma, contemporaneamente, mi suggerisce che non dovrei comprarli…
Dieci anni fa probabilmente i libri elettronici non erano ancora molto diffusi né la loro concorrenza faceva davvero paura: adesso non è più così. Contemporaneamente Amazon ha guadagnato sempre più mercato: e non ti fa pagare gli imballaggi e, anzi, ti fa arrivare tutta la merce a casa.
E così la scelta di Feltrinelli & C. di irritare la clientela (almeno me: forse gli altri clienti sono più mansueti) mostra tutta la sua assurda miopia. Oggi mi sono arrivati da Amazon tre libri (I diritti dell’uomo contro il popolo di Jean-Louis Harouel, Leviatano di Thomas Hobbes e Fedeli al vinile di Alessandro Casalini (*2)) ordinati ieri mattina: e io non mi sento neppure in colpa ad aver usato Amazon (*2) proprio a causa dell’irritazione che mi causava dover pagare un sacchetto di carta.
Aggiungo che questi libri avevo anche provato a comprarli in libreria: il “Leviatano” era esaurito ma sarebbe tornato disponibile, “Fedeli al vinile” non sapevano cosa fosse (si tratta di un libro che ho trovato pubblicizzato su FB dove l’autore pubblica brevi racconti molto carini e, per questo, avevo deciso di sostenerlo comprando questa sua opera. Sfogliandolo ho scoperto che questo libro è stato stampato da Amazon Italia Logistica su licenza di Libromania…) mentre de “I diritti dell’uomo contro il popolo” non ricordo bene ma ho la sensazione che, facendomi un piacere, si offrissero di provare a ordinarmelo senza però troppa convinzione.
Esopo avrebbe potuto scriverci la favola “La libreria e l’amazzone” dove si mostra come l’avidità più stupida venga infine punita! (Magari se Esopo non ha tempo la scriverò io… vedi anche Nuove “Antiche favole di Esopo” e Altre nuove “Antiche favole di Esopo”)
Conclusione: e nella mia lista di libri da comprare ne avrei ancora 11: dove li acquisterò?
Nota (*1): e le biblioteche anche se non le frequento molto…
Nota (*2): che “in teoria” sto boicottando (e infatti uso l’utenza di mio padre sebbene con la mia carta di credito) anche se non ricordo più bene per quale motivo (*3)!
Nota (*3): ho cercato su questo ghiribizzo e ho “scoperto” che boicotto: Microsoft, Facebook, Samsung, Apple (Boicottaggio), Hyundai (L’arbitro Moreno e la Hyundai). Eppure sono sicuro che stavo boicottando anche Amazon: mi pare per qualcosa legato ad Assange, bo…
Per questo tipicamente, fin da ragazzino, le mie escursioni in città non erano complete se non passavo da una o più librerie: non necessariamente per comprare qualcosa ma anche solo a vedere le novità. Oltretutto ho una memoria fotografica eccellente e, quindi, individuavo subito i nuovi arrivi…
Da una decina d’anni però questo piacere mi viene rovinato: per prima Feltrinelli, seguita poi da altre librerie, ha avuto la balzana idea di far pagare i sacchetti di carta anche quando si acquista un libro.
L’idea “ufficiale” era quella di disincentivare lo spreco della carta (i primi tempi ne discutevo sempre con i commessi che, probabilmente per educazione, mi davano ragione e ammettevano che la cosa aveva poco tempo ma che non ci potevano fare niente) ma in verità io ho la sensazione che fosse solo una scusa per estorcere qualche decina di centesimi in più: perché, forse non se ne sono accorti, ma i libri sono fatti di carta!
Cioè da un lato la libreria mi vende oggetti (libri) di carta ma, contemporaneamente, mi suggerisce che non dovrei comprarli…
Dieci anni fa probabilmente i libri elettronici non erano ancora molto diffusi né la loro concorrenza faceva davvero paura: adesso non è più così. Contemporaneamente Amazon ha guadagnato sempre più mercato: e non ti fa pagare gli imballaggi e, anzi, ti fa arrivare tutta la merce a casa.
E così la scelta di Feltrinelli & C. di irritare la clientela (almeno me: forse gli altri clienti sono più mansueti) mostra tutta la sua assurda miopia. Oggi mi sono arrivati da Amazon tre libri (I diritti dell’uomo contro il popolo di Jean-Louis Harouel, Leviatano di Thomas Hobbes e Fedeli al vinile di Alessandro Casalini (*2)) ordinati ieri mattina: e io non mi sento neppure in colpa ad aver usato Amazon (*2) proprio a causa dell’irritazione che mi causava dover pagare un sacchetto di carta.
Aggiungo che questi libri avevo anche provato a comprarli in libreria: il “Leviatano” era esaurito ma sarebbe tornato disponibile, “Fedeli al vinile” non sapevano cosa fosse (si tratta di un libro che ho trovato pubblicizzato su FB dove l’autore pubblica brevi racconti molto carini e, per questo, avevo deciso di sostenerlo comprando questa sua opera. Sfogliandolo ho scoperto che questo libro è stato stampato da Amazon Italia Logistica su licenza di Libromania…) mentre de “I diritti dell’uomo contro il popolo” non ricordo bene ma ho la sensazione che, facendomi un piacere, si offrissero di provare a ordinarmelo senza però troppa convinzione.
Esopo avrebbe potuto scriverci la favola “La libreria e l’amazzone” dove si mostra come l’avidità più stupida venga infine punita! (Magari se Esopo non ha tempo la scriverò io… vedi anche Nuove “Antiche favole di Esopo” e Altre nuove “Antiche favole di Esopo”)
Conclusione: e nella mia lista di libri da comprare ne avrei ancora 11: dove li acquisterò?
Nota (*1): e le biblioteche anche se non le frequento molto…
Nota (*2): che “in teoria” sto boicottando (e infatti uso l’utenza di mio padre sebbene con la mia carta di credito) anche se non ricordo più bene per quale motivo (*3)!
Nota (*3): ho cercato su questo ghiribizzo e ho “scoperto” che boicotto: Microsoft, Facebook, Samsung, Apple (Boicottaggio), Hyundai (L’arbitro Moreno e la Hyundai). Eppure sono sicuro che stavo boicottando anche Amazon: mi pare per qualcosa legato ad Assange, bo…
giovedì 19 novembre 2020
Istruzione e ricchezza
Su “Antifragile” di Taleb penso che baserò un’appendice dell’Epitome: la sua teoria almeno al momento (sono a metà) non aggiunge niente alla mia ma ha però il merito di poter reinterpretarne molti elementi da un punto di vista diverso. In altre parole la sostanza non cambia ma aumenta la comprensione.
Per questo volevo scrivere un pezzo propedeutico qui sul ghiribizzo che mi servisse da bozza: però si tratta di un lavoretto piuttosto impegnativo e preferisco quindi rinviarlo a quando potrò usare anche il braccio destro (che continuo a tenere a riposo). Contemporaneamente però non voglio perdere contatto col pensiero di Taleb: scriverne infatti mi aiuta a memorizzare meglio le sue idee e, quindi, a comprenderlo più chiaramente. Per questo ho deciso di affrontare un tema minore e a sé stante, sempre però basato su “Antifragile”.
Sono infatti attualmente alle prese con un capitolo dove Taleb sostiene un’idea di fondo che non condivido, almeno non completamente.
Taleb sostiene che la relazione lineare comunemente accettata fra istruzione media e ricchezza di un paese è errata e, anzi, va invertita: non è l’istruzione che genera ricchezza ma è la ricchezza a generare l’istruzione.
Al riguardo presenta dati riguardanti l’andamento di ricchezza e istruzione di vari paesi che sembrano confermare la sua teoria, poi passa a un’altra ricerca dove si scopre che molte delle invenzioni che permisero la rivoluzione industriale non provennero dall’accademia (su cosa si intenda per “accademia” tornerò poi) ma da appassionati o artigiani o imprenditori che cercavano di risolvere problemi concreti. In tempi più recenti lo stesso avvenne per il motore a reazione: prima si procedette per tentativi e solo in seguito arrivò la scienza con le sue teorie a spiegarne i meccanismi. Idem per vari algoritmi euristici usati in Borsa dai suoi addetti (spesso di istruzione bassissima) ben prima che la teoria economica ne proponesse delle proprie versioni spesso semplificate e meno precise delle originali…
Gli aspetti del ragionamento di Taleb che non mi convincono sono molteplici:
- Prima di tutto sospetto possa esserci qualche difficoltà nella traduzione e nella scelta dei vocaboli: per esempio spesso si parla di accademia invece che di università credo intendendo l’insieme delle attività dei professori universitari: ricerche, pubblicazioni, confronti, dibattiti, seminari etc.
- Poi, a mio avviso, andrebbe chiarito bene cosa si intende per istruzione (non vorrei, vedi sopra, che intendesse qualcosa di più generico come “cultura”). È evidente che l’innovazione tecnologica difficilmente sarà guidata da avvocati, letterati ed economisti ma, al contrario, ingegneri, chimici e informatici potrebbero avere un ruolo molto più diretto. Insomma fare di tutta l’istruzione un fascio mi sembra una semplificazione eccessiva.
- La relazione fra istruzione media e ricchezza di un paese è, secondo me, reale ma molto indiretta: possono cioè intervenire molti altri fattori a distorcere gli effetti della prima sulla seconda. Giudicare quindi direttamente i grafici dell’educazione e della ricchezza, magari solo di alcuni paesi, senza considerare il più ampio contesto sociale può essere fuorviante.
- A riprova del punto precedente, prendendo pure per vero che molte innovazioni non sono nate dall’“accademia”, i singoli appassionati che hanno ideato tante innovazioni non erano contadini che, lasciato temporaneamente l’aratro, passavano a costruire telai meccanici: evidentemente avevano comunque una preparazione scientifica, magari come autodidatti, che costituiva le fondamenta su cui basare le loro invenzioni. Anche loro quindi, sebbene indirettamente, erano il prodotto dell’istruzione media.
- E poi anche la scienza sta cambiando: i suoi diversi ambiti hanno raggiunto dei livelli di specializzazione tali che il singolo appassionato difficilmente avrà il tempo di approfondire. Oggi diviene fondamentale la cooperazione fra scienziati: singoli mattoncini che poi devono essere usati insieme. Insomma non si può confrontare insieme la scienza di oggi con quella del secolo scorso (o di 50 anni fa!): funzionavano in maniera completamente diversa…
Contemporaneamente intuisco che in effetti deve comunque esserci un qualcosa di vero in questo pensiero di Taleb: perché non furono gli scienziati a dare il via alla rivoluzione industriale ma semplici artigiani e appassionati? Riguardo al motore a reazione ho poi dei vaghi ricordi che alcuni scienziati coevi avevano “dimostrato” che tale tipo di volo sarebbe stato impossibile. E com’è che un semplice imprenditore come Elon Musk sembra aver spostato bruscamente in avanti il confine fra scienza e fantascienza?
Io credo che l’elemento centrale che determina il tutto non sia l’istruzione in sé ma, invece, la maniera in cui questa è usata. È possibilissimo che in alcuni ambiti ed epoche l’uso fatto dell’istruzione, specialmente di quella più alta, resti “sterile” e che invece siano persone persone meno istruite (ma non ignoranti!) ad applicarla più proficuamente.
Importante sarebbe quindi riuscire a identificare i motivi psicologici, sociali e, probabilmente, economici che favoriscono o impediscono l’uso migliore dell’istruzione e della conoscenza da parte dell’individuo.
Io qualche idea al riguardo l’avrei ma al momento preferisco rifletterci ulteriormente prima di sbilanciarmi...
Conclusione: Non fatevi ingannare da questo pezzo! Per la gran parte apprezzo e condivido le teorie di Taleb: semplicemente, in questo caso, ho preferito concentrarmi su un’eccezione, ovvero su un qualcosa che non mi ha convinto totalmente.
Per questo volevo scrivere un pezzo propedeutico qui sul ghiribizzo che mi servisse da bozza: però si tratta di un lavoretto piuttosto impegnativo e preferisco quindi rinviarlo a quando potrò usare anche il braccio destro (che continuo a tenere a riposo). Contemporaneamente però non voglio perdere contatto col pensiero di Taleb: scriverne infatti mi aiuta a memorizzare meglio le sue idee e, quindi, a comprenderlo più chiaramente. Per questo ho deciso di affrontare un tema minore e a sé stante, sempre però basato su “Antifragile”.
Sono infatti attualmente alle prese con un capitolo dove Taleb sostiene un’idea di fondo che non condivido, almeno non completamente.
Taleb sostiene che la relazione lineare comunemente accettata fra istruzione media e ricchezza di un paese è errata e, anzi, va invertita: non è l’istruzione che genera ricchezza ma è la ricchezza a generare l’istruzione.
Al riguardo presenta dati riguardanti l’andamento di ricchezza e istruzione di vari paesi che sembrano confermare la sua teoria, poi passa a un’altra ricerca dove si scopre che molte delle invenzioni che permisero la rivoluzione industriale non provennero dall’accademia (su cosa si intenda per “accademia” tornerò poi) ma da appassionati o artigiani o imprenditori che cercavano di risolvere problemi concreti. In tempi più recenti lo stesso avvenne per il motore a reazione: prima si procedette per tentativi e solo in seguito arrivò la scienza con le sue teorie a spiegarne i meccanismi. Idem per vari algoritmi euristici usati in Borsa dai suoi addetti (spesso di istruzione bassissima) ben prima che la teoria economica ne proponesse delle proprie versioni spesso semplificate e meno precise delle originali…
Gli aspetti del ragionamento di Taleb che non mi convincono sono molteplici:
- Prima di tutto sospetto possa esserci qualche difficoltà nella traduzione e nella scelta dei vocaboli: per esempio spesso si parla di accademia invece che di università credo intendendo l’insieme delle attività dei professori universitari: ricerche, pubblicazioni, confronti, dibattiti, seminari etc.
- Poi, a mio avviso, andrebbe chiarito bene cosa si intende per istruzione (non vorrei, vedi sopra, che intendesse qualcosa di più generico come “cultura”). È evidente che l’innovazione tecnologica difficilmente sarà guidata da avvocati, letterati ed economisti ma, al contrario, ingegneri, chimici e informatici potrebbero avere un ruolo molto più diretto. Insomma fare di tutta l’istruzione un fascio mi sembra una semplificazione eccessiva.
- La relazione fra istruzione media e ricchezza di un paese è, secondo me, reale ma molto indiretta: possono cioè intervenire molti altri fattori a distorcere gli effetti della prima sulla seconda. Giudicare quindi direttamente i grafici dell’educazione e della ricchezza, magari solo di alcuni paesi, senza considerare il più ampio contesto sociale può essere fuorviante.
- A riprova del punto precedente, prendendo pure per vero che molte innovazioni non sono nate dall’“accademia”, i singoli appassionati che hanno ideato tante innovazioni non erano contadini che, lasciato temporaneamente l’aratro, passavano a costruire telai meccanici: evidentemente avevano comunque una preparazione scientifica, magari come autodidatti, che costituiva le fondamenta su cui basare le loro invenzioni. Anche loro quindi, sebbene indirettamente, erano il prodotto dell’istruzione media.
- E poi anche la scienza sta cambiando: i suoi diversi ambiti hanno raggiunto dei livelli di specializzazione tali che il singolo appassionato difficilmente avrà il tempo di approfondire. Oggi diviene fondamentale la cooperazione fra scienziati: singoli mattoncini che poi devono essere usati insieme. Insomma non si può confrontare insieme la scienza di oggi con quella del secolo scorso (o di 50 anni fa!): funzionavano in maniera completamente diversa…
Contemporaneamente intuisco che in effetti deve comunque esserci un qualcosa di vero in questo pensiero di Taleb: perché non furono gli scienziati a dare il via alla rivoluzione industriale ma semplici artigiani e appassionati? Riguardo al motore a reazione ho poi dei vaghi ricordi che alcuni scienziati coevi avevano “dimostrato” che tale tipo di volo sarebbe stato impossibile. E com’è che un semplice imprenditore come Elon Musk sembra aver spostato bruscamente in avanti il confine fra scienza e fantascienza?
Io credo che l’elemento centrale che determina il tutto non sia l’istruzione in sé ma, invece, la maniera in cui questa è usata. È possibilissimo che in alcuni ambiti ed epoche l’uso fatto dell’istruzione, specialmente di quella più alta, resti “sterile” e che invece siano persone persone meno istruite (ma non ignoranti!) ad applicarla più proficuamente.
Importante sarebbe quindi riuscire a identificare i motivi psicologici, sociali e, probabilmente, economici che favoriscono o impediscono l’uso migliore dell’istruzione e della conoscenza da parte dell’individuo.
Io qualche idea al riguardo l’avrei ma al momento preferisco rifletterci ulteriormente prima di sbilanciarmi...
Conclusione: Non fatevi ingannare da questo pezzo! Per la gran parte apprezzo e condivido le teorie di Taleb: semplicemente, in questo caso, ho preferito concentrarmi su un’eccezione, ovvero su un qualcosa che non mi ha convinto totalmente.
mercoledì 18 novembre 2020
La verità non può essere un dogma
Oggi il braccio destro mi sembra inizi a stare veramente meglio: almeno a riposo ha smesso di darmi fastidio la spalla. Però non voglio ricominciare subito a stressarlo e quindi continuerò a usare, per quanto possibile, solo il braccio sinistro.
Il problema è che in questa maniera scrivo 4/5 volte più lentamente e, soprattutto, mi occorre un’attenzione molto maggiore che va a discapito della mia capacità di abbandonarmi a riflessioni profonde.
Però voglio comunque pubblicare qualcosa: lascerò perdere pezzi troppo impegnativi ma mi limiterò a qualcosa di “semplice”.
Articolo: Coronavirus, sfiducia e complottismi. I 4 anni che hanno decuplicato i no-vax di Goffredo Guccini da Corriere.it
In realtà l’articolo si concentra sull’andamento delle percentuali sulla fiducia nei vaccini in Italia e nel mondo e, soprattutto, sull’impatto causato dal covid-19.
A mio avviso invece l’elemento più interessante dimostrato da questi dati è un altro: la strategia comunicativa in stile Burioni non ha funzionato e, anzi, ha probabilmente contribuito ad aumentare la diffidenza verso i vaccini.
Per comunicazione “stile Burioni” intendo la strategia del salire in cattedra e, parlando a nome della Scienza, dichiarare, talvolta con arroganza, che la verità è una e che chi ha dubbi e/o la pensa diversamente non ha capito nulla e, anzi, è un ignorante e/o un cretino.
Questo approccio è sbagliato per più motivi. Vediamoli:
1. La scienza non ha un’unica verità: soprattutto quando si parla di ricerca e tecnologia all’avanguardia come quella che sta dietro ai moderni vaccini. Parlare quindi di verità scientifiche uniche e assolute è epistemologicamente errato.
2. La scienza si basa sul libero dibattito della comunità scientifica: solo così vi può essere del progresso. Gli scienziati devono essere liberi di poter smentire, con prove ed esperimenti replicabili, anche le teorie più consolidate. Da questo punto di vista l’intervento a gamba tesa del governo italiano che ha censurato i medici minacciandoli con la radiazione pone legittimi dubbi: non solo scientifici ma anche sociali e politici.
3. Per esperienza personale (maturata ai tempi in cui ero attivista nel M5S) attaccare direttamente chi non la pensa come noi (dandogli del cretino) non serve a niente, anzi ne rafforza le convinzioni. Quello che si ottiene è al massimo un aumento della conflittualità con una maggiore polarizzazione della popolazione: meno persone neutrali ma con i gruppi di chi la pensa diversamente su posizioni più distanti. Ovvio che l’aumento di conflittualità non favorisce la comunicazione (*1).
Aggiungo che approcci aggressivi del tipo “sei un cretino perché XXX” sono completamente inefficaci nonostante l’eventuale bontà delle argomentazioni contenute in XXX.
4. Chi sale in cattedra non ascolta i dubbi e le obiezioni dell’altra parte: se non si risponde a queste (al di là dell’arrogante ed errato “la Scienza dice così”) perplessità allora esse non solo non scompaiono ma anzi si rafforzano. È errato ma umano: la mancanza di chiarimenti viene interpretata come la prova della loro inesistenza (v. Comuni “logiche” errate), ovvero che non sia possibile fornirli perché dubbi e obiezioni sono sostanzialmente giustificati.
5. Una delle tante lezioni che ho imparato da John Stuart Mill (v. Libertà d’opinione 1 e 2) è che la verità non deve essere trasformata in un dogma e che le obiezioni a essa, anche nel caso siano completamente errate, sono comunque utilissime: i dubbi e gli errori rendono la verità più chiara, la fanno comprendere maggiormente. Questo però solo se non si ripete sterilmente “la verità è questa” ma se, al contrario, si discutono e affrontano oggettivamente le opinioni altrui dimostrandole errate.
Il non difendere la verità ma il cercare di imporla semplicemente in quanto tale non la rafforza ma, anzi, l’indebolisce: la verità va spiegata, non imposta.
In definitiva se si vuole convincere i no-vax della bontà e utilità dei vaccini allora si deve cambiare completamente strategia comunicativa. Soprattutto si dovrebbe ascoltare le loro ragioni e rispondere seriamente a esse invece di censurarle o ridicolizzarle.
Per esempio perché non organizzare e finanziare delle ricerche indipendenti e neutrali, alle quali potrebbero partecipare scienziati in rappresentanza dei no-vax e delle case farmaceutiche, che verifichino se alcune delle critiche più comuni hanno fondamento o no?
Ovvio che occorrerebbe tempo per ricomporre la frattura, soprattutto di fiducia, che si è venuta a creare fra no-vax e istituzioni ritenute, a torto o a ragione, troppo vicine agli interessi economici delle case farmaceutiche. Ma la strada dovrebbe essere questa: la comunicazione non la censura.
Conclusione: che fatica non usare la mano destra! Ma almeno mi sono dilungato un po’ meno di quanto non avrei fatto normalmente...
Nota (*1): ricordo a suo tempo di avere avuto una discussione al riguardo con un amico che propugnava la necessità di scendere “al livello” dei no-vax. Mi sembra che questi dati gli diano torto.
Il problema è che in questa maniera scrivo 4/5 volte più lentamente e, soprattutto, mi occorre un’attenzione molto maggiore che va a discapito della mia capacità di abbandonarmi a riflessioni profonde.
Però voglio comunque pubblicare qualcosa: lascerò perdere pezzi troppo impegnativi ma mi limiterò a qualcosa di “semplice”.
Articolo: Coronavirus, sfiducia e complottismi. I 4 anni che hanno decuplicato i no-vax di Goffredo Guccini da Corriere.it
In realtà l’articolo si concentra sull’andamento delle percentuali sulla fiducia nei vaccini in Italia e nel mondo e, soprattutto, sull’impatto causato dal covid-19.
A mio avviso invece l’elemento più interessante dimostrato da questi dati è un altro: la strategia comunicativa in stile Burioni non ha funzionato e, anzi, ha probabilmente contribuito ad aumentare la diffidenza verso i vaccini.
Per comunicazione “stile Burioni” intendo la strategia del salire in cattedra e, parlando a nome della Scienza, dichiarare, talvolta con arroganza, che la verità è una e che chi ha dubbi e/o la pensa diversamente non ha capito nulla e, anzi, è un ignorante e/o un cretino.
Questo approccio è sbagliato per più motivi. Vediamoli:
1. La scienza non ha un’unica verità: soprattutto quando si parla di ricerca e tecnologia all’avanguardia come quella che sta dietro ai moderni vaccini. Parlare quindi di verità scientifiche uniche e assolute è epistemologicamente errato.
2. La scienza si basa sul libero dibattito della comunità scientifica: solo così vi può essere del progresso. Gli scienziati devono essere liberi di poter smentire, con prove ed esperimenti replicabili, anche le teorie più consolidate. Da questo punto di vista l’intervento a gamba tesa del governo italiano che ha censurato i medici minacciandoli con la radiazione pone legittimi dubbi: non solo scientifici ma anche sociali e politici.
3. Per esperienza personale (maturata ai tempi in cui ero attivista nel M5S) attaccare direttamente chi non la pensa come noi (dandogli del cretino) non serve a niente, anzi ne rafforza le convinzioni. Quello che si ottiene è al massimo un aumento della conflittualità con una maggiore polarizzazione della popolazione: meno persone neutrali ma con i gruppi di chi la pensa diversamente su posizioni più distanti. Ovvio che l’aumento di conflittualità non favorisce la comunicazione (*1).
Aggiungo che approcci aggressivi del tipo “sei un cretino perché XXX” sono completamente inefficaci nonostante l’eventuale bontà delle argomentazioni contenute in XXX.
4. Chi sale in cattedra non ascolta i dubbi e le obiezioni dell’altra parte: se non si risponde a queste (al di là dell’arrogante ed errato “la Scienza dice così”) perplessità allora esse non solo non scompaiono ma anzi si rafforzano. È errato ma umano: la mancanza di chiarimenti viene interpretata come la prova della loro inesistenza (v. Comuni “logiche” errate), ovvero che non sia possibile fornirli perché dubbi e obiezioni sono sostanzialmente giustificati.
5. Una delle tante lezioni che ho imparato da John Stuart Mill (v. Libertà d’opinione 1 e 2) è che la verità non deve essere trasformata in un dogma e che le obiezioni a essa, anche nel caso siano completamente errate, sono comunque utilissime: i dubbi e gli errori rendono la verità più chiara, la fanno comprendere maggiormente. Questo però solo se non si ripete sterilmente “la verità è questa” ma se, al contrario, si discutono e affrontano oggettivamente le opinioni altrui dimostrandole errate.
Il non difendere la verità ma il cercare di imporla semplicemente in quanto tale non la rafforza ma, anzi, l’indebolisce: la verità va spiegata, non imposta.
In definitiva se si vuole convincere i no-vax della bontà e utilità dei vaccini allora si deve cambiare completamente strategia comunicativa. Soprattutto si dovrebbe ascoltare le loro ragioni e rispondere seriamente a esse invece di censurarle o ridicolizzarle.
Per esempio perché non organizzare e finanziare delle ricerche indipendenti e neutrali, alle quali potrebbero partecipare scienziati in rappresentanza dei no-vax e delle case farmaceutiche, che verifichino se alcune delle critiche più comuni hanno fondamento o no?
Ovvio che occorrerebbe tempo per ricomporre la frattura, soprattutto di fiducia, che si è venuta a creare fra no-vax e istituzioni ritenute, a torto o a ragione, troppo vicine agli interessi economici delle case farmaceutiche. Ma la strada dovrebbe essere questa: la comunicazione non la censura.
Conclusione: che fatica non usare la mano destra! Ma almeno mi sono dilungato un po’ meno di quanto non avrei fatto normalmente...
Nota (*1): ricordo a suo tempo di avere avuto una discussione al riguardo con un amico che propugnava la necessità di scendere “al livello” dei no-vax. Mi sembra che questi dati gli diano torto.
lunedì 16 novembre 2020
Comuni "logiche" errate
L’assenza della prova non equivale alla prova dell’assenza.
Ovvero la mancanza della prova di un fenomeno non equivale alla prova della sua assenza: per esempio se tu non riesci a dimostrare a un bambino come mai sia la Terra a girare intorno al Sole questa tua incapacità non equivale alla prova che allora sia il Sole a orbitare intorno alla Terra!
Volendo generalizzare: l’assenza della prova non equivale alla prova del suo contrario.
Un altro errore comune è confondere la dimostrazione di A con la dimostrazione di B: accade spesso quando A e B hanno uno o più elementi in comune.
Scrivendo queste frasi così apertamente sembrano ovvietà ma in realtà gli errori logici che descrivono sono spesso nascosti in paralogismi speciosi in cui possiamo imbatterci quotidianamente.
PS: l’affermazione iniziale proviene da “Antifragile”, il resto è mio.
Un po’ meglio - 16/11/2020
L’aver tenuto per due giorni a riposo (per quanto possibile!) il braccio destro ha aiutato: adesso il dolore è molto più localizzato.
Oggi telefono al mio dottore e sento cosa mi dice…
Notturno 16 - 22/11/2020
[In effetti era già mattino e mi stavo per alzare ma lo spaccio comunque per “notturno”...]
È incredibile constatare quante persone sbagliate riescano ad arrivare al posto sbagliato.
Ho poi la netta sensazione che più la posizione è appetibile e peggiore diviene la selezione tanto che, alla fine, vengono scelte persone sempre più inadeguate.
Mi riferisco a tutti i campi anche se, probabilmente, il fenomeno è più evidente in politica.
Credo che l’elemento decisivo sia il numero di persone che decidono insieme: maggiore è il loro numero e peggiore la qualità della loro scelta.
Proust - 22/11/2020
Da qualche settimana ho iniziato un libro di Proust (scelto a caso, il quinto della sua serie “Alla ricerca del tempo perduto”) che però trovo molto pesante: ho protestato su FB, e non solo, e ho avuto il conforto di trovare un paio di persone che hanno avuto la stessa sensazione.
Ho quindi riflettuto molto sul perché di questa mia difficoltà. La seguente è la mia conclusione (basata su ¼ di un unico libro: quindi prendetela per quello che vale… cioè poco!)…
Proust porta avanti due trame: la prima è quella classica degli eventi che si succedono e dei personaggi che interagiscono fra di loro; la seconda è invece tutta interna alla mente del protagonista e ne descrive con minuzia di dettaglio tutti i ragionamenti, comprese paure, idiosincrasie, istinti e incongruenze. Mentre la prima trama procede lineare la seconda è continuamente sconvolta da colpi di scena interiori con improvvise intuizioni che per un attimo, come lampi, illuminano il cielo di un mare in burrasca.
La seconda trama è il bello e il pesante di Proust.
Il mio problema è che non so come pormi di fronte a essa, ovvero di fronte ai processi mentali del protagonista. Non è un autobiografia né un saggio psicologico quindi ci saranno elementi di pura fantasia e per me, il non riuscire a distinguerli, mi mette a disagio. Cosa posso imparare da quello che leggo? Non lo posso sapere: il processo psicologico che mi sembra significativo potrebbe essere frutto della fantasia di Proust e totalmente irrealistico.
Probabilmente dovrei limitarmi ad apprezzare superficialmente le massime umane che comunque emergono: ma la mia mente non è fatta così, ho bisogno di certezza. Queste sfumature impalpabili non mi bastano né mi soddisfano…
Prandelli - 22/11/2020
Avete voluto Prandelli, ora pedalate.
Ovvero la mancanza della prova di un fenomeno non equivale alla prova della sua assenza: per esempio se tu non riesci a dimostrare a un bambino come mai sia la Terra a girare intorno al Sole questa tua incapacità non equivale alla prova che allora sia il Sole a orbitare intorno alla Terra!
Volendo generalizzare: l’assenza della prova non equivale alla prova del suo contrario.
Un altro errore comune è confondere la dimostrazione di A con la dimostrazione di B: accade spesso quando A e B hanno uno o più elementi in comune.
Scrivendo queste frasi così apertamente sembrano ovvietà ma in realtà gli errori logici che descrivono sono spesso nascosti in paralogismi speciosi in cui possiamo imbatterci quotidianamente.
PS: l’affermazione iniziale proviene da “Antifragile”, il resto è mio.
Un po’ meglio - 16/11/2020
L’aver tenuto per due giorni a riposo (per quanto possibile!) il braccio destro ha aiutato: adesso il dolore è molto più localizzato.
Oggi telefono al mio dottore e sento cosa mi dice…
Notturno 16 - 22/11/2020
[In effetti era già mattino e mi stavo per alzare ma lo spaccio comunque per “notturno”...]
È incredibile constatare quante persone sbagliate riescano ad arrivare al posto sbagliato.
Ho poi la netta sensazione che più la posizione è appetibile e peggiore diviene la selezione tanto che, alla fine, vengono scelte persone sempre più inadeguate.
Mi riferisco a tutti i campi anche se, probabilmente, il fenomeno è più evidente in politica.
Credo che l’elemento decisivo sia il numero di persone che decidono insieme: maggiore è il loro numero e peggiore la qualità della loro scelta.
Proust - 22/11/2020
Da qualche settimana ho iniziato un libro di Proust (scelto a caso, il quinto della sua serie “Alla ricerca del tempo perduto”) che però trovo molto pesante: ho protestato su FB, e non solo, e ho avuto il conforto di trovare un paio di persone che hanno avuto la stessa sensazione.
Ho quindi riflettuto molto sul perché di questa mia difficoltà. La seguente è la mia conclusione (basata su ¼ di un unico libro: quindi prendetela per quello che vale… cioè poco!)…
Proust porta avanti due trame: la prima è quella classica degli eventi che si succedono e dei personaggi che interagiscono fra di loro; la seconda è invece tutta interna alla mente del protagonista e ne descrive con minuzia di dettaglio tutti i ragionamenti, comprese paure, idiosincrasie, istinti e incongruenze. Mentre la prima trama procede lineare la seconda è continuamente sconvolta da colpi di scena interiori con improvvise intuizioni che per un attimo, come lampi, illuminano il cielo di un mare in burrasca.
La seconda trama è il bello e il pesante di Proust.
Il mio problema è che non so come pormi di fronte a essa, ovvero di fronte ai processi mentali del protagonista. Non è un autobiografia né un saggio psicologico quindi ci saranno elementi di pura fantasia e per me, il non riuscire a distinguerli, mi mette a disagio. Cosa posso imparare da quello che leggo? Non lo posso sapere: il processo psicologico che mi sembra significativo potrebbe essere frutto della fantasia di Proust e totalmente irrealistico.
Probabilmente dovrei limitarmi ad apprezzare superficialmente le massime umane che comunque emergono: ma la mia mente non è fatta così, ho bisogno di certezza. Queste sfumature impalpabili non mi bastano né mi soddisfano…
Prandelli - 22/11/2020
Avete voluto Prandelli, ora pedalate.
giovedì 12 novembre 2020
Pensiero analogico
Ho iniziato a tenere un archivio dove inserire tutte le idee per pezzi che mi passano per la mente: probabilmente ci avevo già provato ma qualcosa non aveva funzionato. Ma visto che ritentare non costa niente…
Lo spunto di oggi è “Errore di non considerare alternative”: in realtà è un argomento più vasto di quanto non sembri.
È una considerazione nata leggendo i commenti su FB ma in realtà il suo ambito è molto più ampio e lo possiamo ritrovare anche, per esempio, in politica o sui media.
È chiaro che, in genere, tutti noi si sia d’accordo con le nostre idee: se crediamo in qualcosa abbiamo dei motivi per farlo. Fin qui niente di male: è normale ragionare così.
Il problema è che spesso ci si convince che solo la nostra idea è corretta e che quindi, chi la pensa diversamente, o è uno stupido o è in malafede. Sfortunatamente le reti sociali, proprio per la loro struttura, incoraggiano questa radicalizzazione del pensiero invece di promuovere una maggiore comunicazione (di questo ho già scritto nel corto Da FB...).
Ma, sostanzialmente, a cosa è dovuta questa cristallizzazione di un unico pensiero?
Quali ne sono le cause?
Io vi vedo almeno due ragioni principali.
La prima è psicologica: il singolo tende a imitare il comportamento della comunità e, in questo caso, dei media. Ormai per i nostri media è diventato tutto nero e bianco, buono o cattivo: non esistono più le vie di mezzo e le sfumature di grigio.
Per esempio, i terroristi sono i supercattivi e gli USA i superbuoni: le voci che la pensano diversamente, non dico in maniera contraria, ma magari solamente in maniera più sfumata dando cioè un minimo di giustificazione ai primi e di colpe ai secondi, non ricevano spazio sui media e, lentamente, la loro opinione viene coperta dalla massa di voci che ripetono “le cose stanno così”.
E questo vale per una miriade di altre situazioni e problematiche: sempre più spesso sembra esserci un’unica voce ufficiale che ripete la medesima verità.
Per chi la pensa diversamente, non importa su cosa, è stato coniato un apposito termine dispregiativo: “negazionista”, colui che non si omologa a una delle molteplici verità ufficiali, non importa quale dato che comunque egli ha sempre torto.
Le sue opinioni, i suoi dubbi, le sue paure, le sue osservazioni, le sue critiche non vengono minimamente prese in considerazione: tutto ciò è considerato pattume che non merita di essere neppure ascoltato.
Questo rifiuto totale crea un muro che in genere divide la popolazioni fra buoni, ovvero tutti coloro che si adeguano all’unica verità ufficiale (e che, se hanno dubbi, se li tengono per sé) e i dissidenti, ovvero i negazionisti, ridotti così a una piccola minoranza che però è resa esasperata e combattiva.
Nel suo piccolo ogni persona tende a imitare questo modo di rapportarsi agli altri e crea tanti piccoli muri intorno a sé: chi sta dall’altra parte, non importa se è un amico da una vita, diviene un nemico perché la ragione è tutta all’interno del nostro castello e chi è al di fuori di esso ci sta assediando.
Ovviamente da questa logica non può venire niente di buono: ognuno ha il proprio castello e quindi finisce per esserci un tutti contro tutti che, alla fine, ha il solo risultato di dividere la società proprio quando dovrebbe essere unita e coesa per superare le difficoltà che stiamo attraversando.
La maggioranza impone la propria volontà in totale dispregio dell’opinione della minoranza: questo è in totale contraddizione con l’ideale di democrazia in cui è sì la maggioranza che, alla fine, ha il dovere di stabilire cosa fare ma sempre però nel rispetto della minoranza. Ripeto: non sto parlando in questo caso solo a livello politico: è un fenomeno che si replica in una moltitudine di scenari all’interno della società.
Recentemente poi è la stessa Scienza a essere brandita come un’arma per ridurre al silenzio chi la pensa diversamente. Il pensiero unico afferma qualcosa del tipo “la Scienza dice che le cose stanno così e, chi la pensa diversamente, è un negazionista che si oppone alla verità scientifica”. E proseguano argomentando che se gli scienziati che studiano un particolare fenomeno dicono che le cose stanno in una certa manera, cosa può saperne un macellaio o un operaio per obiettare? Questi ultimi sono solo dei negazionisti stupidi, arroganti e ignoranti.
Poi però, quando anche i “negazionisti” trovano uno scienziato che la pensa come loro ecco che per i fautori del pensiero unico anche essere esperto di un qualcosa non è più ragione sufficiente per poter dissentire. Lo abbiamo visto, per esempio, sulla questione dei vaccini dove in Italia si è intromesso addirittura il potere politico negando ai medici la possibilità si esprimere i propri dubbi e perplessità.
Eppure basta leggere un qualsiasi libro sulla storia della Scienza per capire che essa non ha certezze: poi ovviamente ci sono le verità scientifiche appurate e verificate da un centinaio e passa di anni ma, quando si affrontano questioni attuali, la Scienza non ha un’unica verità.
Ovviamente ci sarà, per ogni problematica, una maggioranza di scienziati che la pensa in un determinato modo ma ciò non significa che non possa essere una minoranza ad avere ragione. È questa la forza della scienza accorgersi dei propri errori e correggerli quando un esperimento, replicabile da tutti, dimostra che la maggioranza aveva torto. Chiaramente la maggioranza in genere ha ragione ma c’è la consapevolezza che non sempre sia così e tutti gli scienziati sono quindi pronti, con mente aperta, a rivedere le proprie teorie.
Usare quindi la Scienza per dividere fra buoni e cattivi è assurdo: l’opinione della maggioranza degli scienziati su un certo problema è certamente un argomento a proprio favore ma non dà la certezza della verità.
E questo ci porta alla seconda ragione che induce gli individui a cristallizzare la propria opinione.
Si è persa l’abitudine alla scepsi, allo scetticismo buono cioè, quel dubitare non solo degli altri ma anche di se stessi e delle proprie convinzioni. Il sapere di non sapere socratico è dimenticato: al massimo deve valere per gli altri.
Il singolo nel proprio piccolo replica l’arroganza con cui la società non ammette pensieri discordanti o diversi.
In questo caso dovrebbe essere coltivata l’abitudine del singolo a considerare più opzioni: è un qualcosa che dovrebbe partire dalla scuola dove però, proprio il nozionismo che la caratterizza, toglie spazio alle alternative: solo una risposta è corretta e tutte le altre sono errate.
Probabilmente bisognerebbe tornare al “pensiero analogico” e lasciare il “pensiero binario”, quello dell’assolutamente vero contrapposto all’assolutamente falso, al mondo dell’informatica.
Bisognerebbe pensare invece che “le cose stanno sicuramente così” qualcosa del tipo “le cose al 85% stanno così, poi c’è questa possibilità al 10% e altre minori complessivamente al 5%”.
Io, non per vantarmi, ma da sempre ho spontaneamente adottato questo atteggiamento: ricordo che da ragazzo mi costruii uno schema dove annotai la corrispondenza fra le varie locuzioni ipotetiche che usavo e la corrispondente probabilità che sottintendevo!
Quasi quasi provo a cercarlo e, se non lo trovo, magari lo riscriverò ex novo…
Oggi forse su certe problematiche sono più convinto che in passato ma questo perché magari ho letto e, soprattutto, riflettuto molto su un dato argomento. Complessivamente mi pare di aver conservato il salutare scetticismo, anche sulle mie opinioni, che mi caratterizzava.
Probabilmente c’è anche una terza ragione che porta alla cristallizzazione dell’opinione: l'età.
Man mano che si invecchia ci si costruisce un edificio di certezze che diviene sempre più difficile e faticoso modificare. Qualche eccezione c’è: per esempio mio zio Gip aveva una mente apertissima alle nuove idee; per questo era piacevole discorrere con lui: non partiva dall’assunto di avere ragione ma ti ascoltava ed era a sua volta sinceramente pronto a cambiare opinione. Questa è comunicazione costruttiva.
Molti altri, la maggioranza, invece non vuol sentire opinioni diverse dalle proprie: dall’alto della loro “saggezza”, acquisita con anni di esperienza, sanno tutto e non hanno bisogno di ascoltare nessuno.
Un caso intermedio può essere mio padre: quando facciamo una discussione posso anche momentaneamente convincerlo delle mie ragioni e portarlo ad ammettere che su qualcosa si sbagliava, ma pochi giorni dopo si dimentica delle conclusioni a cui era giunto. È come provare a piegare un bambù: appena lo si lascia andare torna nella posizione iniziale. È proprio come se neurologicamente la sua rete mentale non avesse più la capacità di cambiare… (*1)
Conclusione: ho un po’ divagato ma l’idea di associare a ogni nostra “certezza” la probabilità che sia effettivamente corretta mi pare buona: questo dovrebbe portarci automaticamente a considerare anche le alternative. Da parte mia proverò a metterla in pratica.
Nota (*1): casualmente ho trovato su FB questo articolo: «Covid, il negazionismo come la demenza»: la spiegazione di Barbara Gallavotti a DiMartedì da IlMessaggero.it
Lo spunto di oggi è “Errore di non considerare alternative”: in realtà è un argomento più vasto di quanto non sembri.
È una considerazione nata leggendo i commenti su FB ma in realtà il suo ambito è molto più ampio e lo possiamo ritrovare anche, per esempio, in politica o sui media.
È chiaro che, in genere, tutti noi si sia d’accordo con le nostre idee: se crediamo in qualcosa abbiamo dei motivi per farlo. Fin qui niente di male: è normale ragionare così.
Il problema è che spesso ci si convince che solo la nostra idea è corretta e che quindi, chi la pensa diversamente, o è uno stupido o è in malafede. Sfortunatamente le reti sociali, proprio per la loro struttura, incoraggiano questa radicalizzazione del pensiero invece di promuovere una maggiore comunicazione (di questo ho già scritto nel corto Da FB...).
Ma, sostanzialmente, a cosa è dovuta questa cristallizzazione di un unico pensiero?
Quali ne sono le cause?
Io vi vedo almeno due ragioni principali.
La prima è psicologica: il singolo tende a imitare il comportamento della comunità e, in questo caso, dei media. Ormai per i nostri media è diventato tutto nero e bianco, buono o cattivo: non esistono più le vie di mezzo e le sfumature di grigio.
Per esempio, i terroristi sono i supercattivi e gli USA i superbuoni: le voci che la pensano diversamente, non dico in maniera contraria, ma magari solamente in maniera più sfumata dando cioè un minimo di giustificazione ai primi e di colpe ai secondi, non ricevano spazio sui media e, lentamente, la loro opinione viene coperta dalla massa di voci che ripetono “le cose stanno così”.
E questo vale per una miriade di altre situazioni e problematiche: sempre più spesso sembra esserci un’unica voce ufficiale che ripete la medesima verità.
Per chi la pensa diversamente, non importa su cosa, è stato coniato un apposito termine dispregiativo: “negazionista”, colui che non si omologa a una delle molteplici verità ufficiali, non importa quale dato che comunque egli ha sempre torto.
Le sue opinioni, i suoi dubbi, le sue paure, le sue osservazioni, le sue critiche non vengono minimamente prese in considerazione: tutto ciò è considerato pattume che non merita di essere neppure ascoltato.
Questo rifiuto totale crea un muro che in genere divide la popolazioni fra buoni, ovvero tutti coloro che si adeguano all’unica verità ufficiale (e che, se hanno dubbi, se li tengono per sé) e i dissidenti, ovvero i negazionisti, ridotti così a una piccola minoranza che però è resa esasperata e combattiva.
Nel suo piccolo ogni persona tende a imitare questo modo di rapportarsi agli altri e crea tanti piccoli muri intorno a sé: chi sta dall’altra parte, non importa se è un amico da una vita, diviene un nemico perché la ragione è tutta all’interno del nostro castello e chi è al di fuori di esso ci sta assediando.
Ovviamente da questa logica non può venire niente di buono: ognuno ha il proprio castello e quindi finisce per esserci un tutti contro tutti che, alla fine, ha il solo risultato di dividere la società proprio quando dovrebbe essere unita e coesa per superare le difficoltà che stiamo attraversando.
La maggioranza impone la propria volontà in totale dispregio dell’opinione della minoranza: questo è in totale contraddizione con l’ideale di democrazia in cui è sì la maggioranza che, alla fine, ha il dovere di stabilire cosa fare ma sempre però nel rispetto della minoranza. Ripeto: non sto parlando in questo caso solo a livello politico: è un fenomeno che si replica in una moltitudine di scenari all’interno della società.
Recentemente poi è la stessa Scienza a essere brandita come un’arma per ridurre al silenzio chi la pensa diversamente. Il pensiero unico afferma qualcosa del tipo “la Scienza dice che le cose stanno così e, chi la pensa diversamente, è un negazionista che si oppone alla verità scientifica”. E proseguano argomentando che se gli scienziati che studiano un particolare fenomeno dicono che le cose stanno in una certa manera, cosa può saperne un macellaio o un operaio per obiettare? Questi ultimi sono solo dei negazionisti stupidi, arroganti e ignoranti.
Poi però, quando anche i “negazionisti” trovano uno scienziato che la pensa come loro ecco che per i fautori del pensiero unico anche essere esperto di un qualcosa non è più ragione sufficiente per poter dissentire. Lo abbiamo visto, per esempio, sulla questione dei vaccini dove in Italia si è intromesso addirittura il potere politico negando ai medici la possibilità si esprimere i propri dubbi e perplessità.
Eppure basta leggere un qualsiasi libro sulla storia della Scienza per capire che essa non ha certezze: poi ovviamente ci sono le verità scientifiche appurate e verificate da un centinaio e passa di anni ma, quando si affrontano questioni attuali, la Scienza non ha un’unica verità.
Ovviamente ci sarà, per ogni problematica, una maggioranza di scienziati che la pensa in un determinato modo ma ciò non significa che non possa essere una minoranza ad avere ragione. È questa la forza della scienza accorgersi dei propri errori e correggerli quando un esperimento, replicabile da tutti, dimostra che la maggioranza aveva torto. Chiaramente la maggioranza in genere ha ragione ma c’è la consapevolezza che non sempre sia così e tutti gli scienziati sono quindi pronti, con mente aperta, a rivedere le proprie teorie.
Usare quindi la Scienza per dividere fra buoni e cattivi è assurdo: l’opinione della maggioranza degli scienziati su un certo problema è certamente un argomento a proprio favore ma non dà la certezza della verità.
E questo ci porta alla seconda ragione che induce gli individui a cristallizzare la propria opinione.
Si è persa l’abitudine alla scepsi, allo scetticismo buono cioè, quel dubitare non solo degli altri ma anche di se stessi e delle proprie convinzioni. Il sapere di non sapere socratico è dimenticato: al massimo deve valere per gli altri.
Il singolo nel proprio piccolo replica l’arroganza con cui la società non ammette pensieri discordanti o diversi.
In questo caso dovrebbe essere coltivata l’abitudine del singolo a considerare più opzioni: è un qualcosa che dovrebbe partire dalla scuola dove però, proprio il nozionismo che la caratterizza, toglie spazio alle alternative: solo una risposta è corretta e tutte le altre sono errate.
Probabilmente bisognerebbe tornare al “pensiero analogico” e lasciare il “pensiero binario”, quello dell’assolutamente vero contrapposto all’assolutamente falso, al mondo dell’informatica.
Bisognerebbe pensare invece che “le cose stanno sicuramente così” qualcosa del tipo “le cose al 85% stanno così, poi c’è questa possibilità al 10% e altre minori complessivamente al 5%”.
Io, non per vantarmi, ma da sempre ho spontaneamente adottato questo atteggiamento: ricordo che da ragazzo mi costruii uno schema dove annotai la corrispondenza fra le varie locuzioni ipotetiche che usavo e la corrispondente probabilità che sottintendevo!
Quasi quasi provo a cercarlo e, se non lo trovo, magari lo riscriverò ex novo…
Oggi forse su certe problematiche sono più convinto che in passato ma questo perché magari ho letto e, soprattutto, riflettuto molto su un dato argomento. Complessivamente mi pare di aver conservato il salutare scetticismo, anche sulle mie opinioni, che mi caratterizzava.
Probabilmente c’è anche una terza ragione che porta alla cristallizzazione dell’opinione: l'età.
Man mano che si invecchia ci si costruisce un edificio di certezze che diviene sempre più difficile e faticoso modificare. Qualche eccezione c’è: per esempio mio zio Gip aveva una mente apertissima alle nuove idee; per questo era piacevole discorrere con lui: non partiva dall’assunto di avere ragione ma ti ascoltava ed era a sua volta sinceramente pronto a cambiare opinione. Questa è comunicazione costruttiva.
Molti altri, la maggioranza, invece non vuol sentire opinioni diverse dalle proprie: dall’alto della loro “saggezza”, acquisita con anni di esperienza, sanno tutto e non hanno bisogno di ascoltare nessuno.
Un caso intermedio può essere mio padre: quando facciamo una discussione posso anche momentaneamente convincerlo delle mie ragioni e portarlo ad ammettere che su qualcosa si sbagliava, ma pochi giorni dopo si dimentica delle conclusioni a cui era giunto. È come provare a piegare un bambù: appena lo si lascia andare torna nella posizione iniziale. È proprio come se neurologicamente la sua rete mentale non avesse più la capacità di cambiare… (*1)
Conclusione: ho un po’ divagato ma l’idea di associare a ogni nostra “certezza” la probabilità che sia effettivamente corretta mi pare buona: questo dovrebbe portarci automaticamente a considerare anche le alternative. Da parte mia proverò a metterla in pratica.
Nota (*1): casualmente ho trovato su FB questo articolo: «Covid, il negazionismo come la demenza»: la spiegazione di Barbara Gallavotti a DiMartedì da IlMessaggero.it
mercoledì 11 novembre 2020
Il sopravvissuto
Un racconto scritto a schermo spento mentre ascoltavo una raccolta di symphonic metal. Scritto di getto intorno a un'idea nata sul momento. Non ho cambiato praticamente niente perché mi piace la sua spontaneità: ho appena sistemato alcune frasi che non tornavano e corretto gli inevitabili refusi, ma non ho aggiunto né tolto niente. Nel complesso un racconto che mi pare carino: colpa di Cataclysm DDA a cui ormai gioco da settimane?
Il Sopravvissuto
Il Sopravvissuto era sopravvissuto ma adesso era solo. Il giorno precedente il mondo ruotava come sempre, poi improvvisamente era successo. Non sapeva perché, non sapeva come, ma era così. Un qualcosa, forse una radiazione misteriosa, forse un virus venuto dallo spazio, aveva cambiato tutto. Nel giro di 24 ore l’intera popolazione mondiale, almeno a quanto ne sapeva il Sopravvissuto, si era trasformata in zombi.
Non gli zombi ridicoli che si vedono in tivvù o al cinema: è chiaro che dei cadaveri formati da carne putrefatta non potrebbero muoversi perché i corpi, per poter funzionare e muoversi, devono avere i polmoni che respirano, il sangue che circola nelle vene etc.: avete capito cosa intendo.
Questi zombi erano diversi: il corpo era intatto ma la loro mente si era offuscata: il Sopravvissuto fantasticava che, forse, avessero perso l’anima. Ma probabilmente si trattava di qualcosa di molto più prosaico: qualcosa che provocava un’insufficienza al cervello e né diminuiva tutte le capacità mentali.
La cosa forse più terribile era che questi zombie nemmeno si rendevano conto di essere tali: ormai incapaci di parlare propriamente farfugliavano fra di loro frasi sconnesse, annuivano e facevano smorfie che volevano essere, forse, sorrisi. Continuavano a scimmiottare quella che doveva essere stata la loro vita. Camminavano lentamente con movimenti scoordinati e guidavano ancora peggio: piano piano tutti in fila, come sedati: se non si aveva fretta questo in realtà non era malaccio.
Il Sopravvissuto capì immediatamente cosa doveva fare: quando aveva provato ad agire normalmente gli zombi, con un istinto dettato da qualche malevola intuizione, sembravano capire nonostante i loro cervelli malati che lui non era come loro: allora spalancavano la bocca e lo indicavano producendo una sorta di basso gorgoglio famelico, poi tentavano di raggiungere il Sopravvissuto barcollando come ubriachi ma quest’ultimo non era mai rimasto ad attendere per capire che intenzioni avessero. Semplicemente se ne era dato a gambe levate facendo perdere facilmente le proprie tracce.
Osservandoli da lontano ne aveva poi studiato il comportamento: i movimenti, le abitudine, le vocalizzazioni… Non gli era parso troppo difficile provare a imitarli.
Stanco di nascondersi e muoversi furtivamente la notte il sopravvissuto aveva deciso di confrontarsi prima con un singolo zombi: avrebbe provato a muoversi e a parlare come lui e avrebbe visto cosa sarebbe successo.
Il tentativo, nonostante l’inevitabile titubanza, andò sorprendentemente bene: era passato più volte arrancando intorno allo zombie, una volta urtandolo volontariamente con una brusca spallata, ma lo zombi non aveva dato segno di accorgersene. Poi aveva provato a parlargli: “Gru co? Para che...” gli aveva detto. Lo zombie gli aveva risposto sputacchiando “Toto car… carta.. no”. Il Sopravvissuto lo aveva ringraziato con un cenno storto del capo e lo zombi gli aveva restituito a sua volta un sorriso vacuo e stupido.
Dopo questo successo il Sopravvissuto acquistò sempre più coraggio: con prudenza si accorse che, semplicemente muovendosi lentamente e con esitazione, non andando dritto verso la meta ma vagolando un po’ qua e là, magari emettendo qualche verso privo di significato di tanto in tanto, riusciva a passare completamente inosservato. Gli zombi nemmeno lo degnavano di uno sguardo e proseguivano nei loro ottusi compiti.
Passarono così prima settimane e poi mesi e il Sopravvissuto si rese conto di non essere felice: iniziava a sentirsi solo. Aveva ogni bene materiale a sua disposizione ma in realtà non aveva niente. Qualsiasi cosa volesse la poteva prendere: ma si rese conto che nulla aveva importanza per lui.
Come si giudica infatti il valore delle cose? Non glielo diamo noi: lo decide la società. E questi zombi non facevano distinzione fra una Panda rossa o una Ferrari: al massimo commentavano con un “Brum brum” quando gli passava lentamente accanto guidando un macchinone nuovo preso direttamente dalla concessionaria più vicina...
Straordinariamente la società degli zombi riusciva, nonostante la sua assoluta ottusità, se non a prosperare almeno a sopravvivere. In qualche modo il cibo arrivava in tavola: i soldi, sebbene un po’ a casaccio, passavano di mano in mano e perfino la vita continuava: gli zombi continuavano a sposarsi, ad accoppiarsi e a produrre altri ottusi piccoli zombini che avevano lo stesso sguardo smorto e spento dei loro genitori..
Il Sopravvissuto era perso: in ogni città che visitava la situazione era la stessa: nonostante la familiare apparenza di vita vedeva che la morte era già calata, se non nel corpo, nelle mente degli zombi. E soprattutto si sentiva solo: il Sopravvissuto non era mai stato un grande chiacchierone né idee particolarmente brillanti avevano illuminato la sua mente. Però sentiva crescere il bisogno di pronunciare parole umane, frasi compiute che avessero un senso per quanto piccolo e insignificante e, ancor meglio, avrebbe amato udire una risposta intellegibile e non i soliti mugugni dissenati.
Per un certo periodo di tempo aveva trovato momentanea soddisfazione nella compagnia femminile delle zombesse: alcune, se non le si guardava negli occhi, erano davvero carine quando non belle…
Ed erano abbastanza confuse da non ricordare o sapere se fossero fidanzate o no. Il Sopravvissuto fece molti esperimenti ma in breve capì che vi erano tre tipi di femmine zombi: il primo gruppo si conquistava mostrando loro del denaro (non sapendo più contare bastava anche una banconota da 5€ mentre le monete, indipendentemente dalla quantità, non sembravano attirare la loro attenzione), il secondo con un fiore (in realtà notò che bastava anche una spiga di grano o anche un ciuffo d’erbacce purché con un bel fiocco colorato) e l’ultimo con un libro (inizialmente usava raccolte di poesie ma poi si accorse che bastava un libro qualunque, anche l’Almanacco del Calcio andava bene).
Quindi quando vedeva una femmina zombi dalle forme gradevoli le faceva passare sotto il naso una banconota: se la zombessa reagiva con uno schiaffo allora lui le girava intorno, contava fino a 5, poi le si ripresentava davanti e provava con un fiore; infine, se anche questo tentativo falliva, passava al libro. Insomma prima o poi la zombessa gli sorrideva in una maldestra imitazione di malizia femminile. A quel punto il Sopravvissuto le faceva capire cosa voleva da lei, la portava dove non sarebbero stati disturbati, poi le si metteva alle spalle (temeva sempre che standole di fronte avrebbe potuto tradirsi e, se la zombessa se ne fosse accorta, lo avrebbe sicuramente morso proprio quando era più vulnerabile) e così soddisfaceva i suoi bisogni sessuali nella maniera più sicura possibile. Un sesso meccanico che però presto perse ogni attrattiva e che si riduceva alla distrazione di pochi momenti di piacere che difficilmente poteva confondere con vera felicità.
Nel corso del tempo il suo desiderio di non essere più solo si fece sempre più forte: pensò che magari vi erano, da qualche parte, degli altri sopravvissuti come lui che, a loro volta, si fingevano degli zombie per poter sopravvivere senza problemi.
Ma come identificarli? L’unica maniera era viaggiare, visitare nuovi luoghi, stando bene attento a notare particolari, magari uno sguardo più vivo, o uno scopo razionale che emergesse dall’apparente caos: indizi insomma che potessero svelargli la presenza di altri essere umani come lui.
Il Sopravvissuto girò diverse nazioni: ora non vi era più bisogno di conoscere alcuna lingua: i grugniti erano uguali da tutte le parti.
Provò a camminare fra gli zombi portando un cartello con su scritto “Sono vivo” ma qualche zombie si accorgeva che aveva qualcosa di strano e lo squadrava con preoccupante curiosità bestiale. Allora il Sopravvissuto iniziò a lasciare messaggi con lo spray sui muri degli incroci più trafficati: dava degli appuntamenti, scriveva di lasciare indicazioni o recapiti: ma nessuno arrivò mai ai suoi appuntamenti né gli lasciò alcun messaggio.
Alla fine il Sopravvissuto perse ogni speranza di trovare altri come lui. Si sentiva sempre più triste e iniziò a chiedersi che senso aveva continuare a vivere questa apparenza di vita: che senso aveva sapere di non essere uno zombi se poi doveva comportarsi come questi per sopravvivere? E comunque che senso aveva sopravvivere se il prezzo era l’infelicità?
Era più importante vivere o essere felici? Si chiese quindi se, divenendo uno zombie egli stesso, avrebbe potuto essere felice: magari quei cervelli malati si accontentavano della propria assurda esistenza inconcludente, magari riuscivano a produrre un qualche ormone o una tossina che li illudeva di essere felici, di avere uno scopo nei loro sciocchi e ripetitivi gesti quotidiani; magari si sarebbe sentito importante e soddisfatto a sistemarsi con una zombessa e avere con lei tanti zombini.
Forse la felicità non esisteva: forse era solo un’illusione che si raggiungeva più facilmente con gli occhi offuscati e privi di umana intelligenza.
Ovviamente erano ragionamenti senza senso: ma vivendo per anni da solo, senza potersi confrontare con altre persone capaci di capirlo, iniziò a convincersi che non vi fosse altra soluzione.
Decise quindi di infettarsi e diventare egli stesso uno zombi: prima provò con la saliva, poi col sangue, via via in quantità maggiori, ma niente…. Ogni sera si addormentava con una leggera febbriciattola, augurandosi di svegliarsi nel torpido sonno che caratterizzava la non vita degli zombi, ma invece ogni mattina si svegliava esattamente lucido come la sera precedente. Intorno a sé vedeva la follia di una stupidità malata su cui lui non aveva alcun potere.
Un giorno infine, dopo anni di disperata solitudine, il Sopravvissuto trovò sollievo.
Probabilmente pensate che egli finì per suicidarsi: per abbandonare volontariamente una vita che gli dava solo sofferenza: ma non fu così...
Il Sopravvissuto infatti scoprì le droghe e l’alcool: non erano la felicità ma almeno l’imitavano abbastanza bene facendogli dimenticare, sebbene temporaneamente, il grande vuoto che l’opprimeva.
Una domenica, completamente sbronzo, decise di andare allo Stadio a vedere la partita della sua squadra del cuore: i giocatori passeggiavano lenti per il campo, alcuni con le magliette messe al contrario, altri in tute da ginnastica, spesso con due o tre palloni in gioco contemporaneamente. Ma a questo il spettacolo il sopravvissuto era abituato: quello che gli fece perdere le staffe fu l’arbitro che, proprio al novantesimo, fischiò (senza inghiottire il fischietto) giustamente un rigore ma lo fece battere alla squadra che difendeva. Gli ospiti pareggiarono così la partita e il Sopravvissuto, che aveva scommesso sulla vittoria della propria squadra, si arrabbiò così tanto che iniziò a inveire contro l’arbitro: fin qui niente di male, lo facevano tutti i tifosi zombi con i loro ululati belluini, egli però imprecò con proprietà di linguaggio, con offese ben costruite grammaticalmente, con una sintassi e un brio scatologico che non passò inosservato agli zombi che lo circondavano e che si esprimevano solo con grida disarticolate e senza costrutto. Fosse stato lucido il Sopravvissuto se ne sarebbe accorto e probabilmente avrebbe rimediato tornando a fingere di essere uno zombi; invece quel giorno rimase oblioso ai segnali di pericolo: agli sguardi famelici e alla bava che iniziò a colare copiosa da bocche digrignanti.
O, ci piace pensare, magari anche le droghe non davano più nessun reale sollievo al Sopravvissuto che quindi aveva deciso di morire: non per errore e sciocca distrazione ma per profonda volizione sebbene inconscia…
Quale che fosse la ragione del cieco furibondo turpiloquio del Sopravvissuto egli non smise di smoccolare nemmeno quando il primo zombie lo morse a un braccio e, pochi secondi dopo, sparì sotto una massa di zombi eccitati dal sangue che ne dilacerarono le carni facendolo a brandelli.
Così morì l’ultimo umano in un mondo di zombi e nessuno se ne accorse: la terra continuò a girare e gli zombi continuarono a vivere le loro inutili parodie di vita.
Il Sopravvissuto
Il Sopravvissuto era sopravvissuto ma adesso era solo. Il giorno precedente il mondo ruotava come sempre, poi improvvisamente era successo. Non sapeva perché, non sapeva come, ma era così. Un qualcosa, forse una radiazione misteriosa, forse un virus venuto dallo spazio, aveva cambiato tutto. Nel giro di 24 ore l’intera popolazione mondiale, almeno a quanto ne sapeva il Sopravvissuto, si era trasformata in zombi.
Non gli zombi ridicoli che si vedono in tivvù o al cinema: è chiaro che dei cadaveri formati da carne putrefatta non potrebbero muoversi perché i corpi, per poter funzionare e muoversi, devono avere i polmoni che respirano, il sangue che circola nelle vene etc.: avete capito cosa intendo.
Questi zombi erano diversi: il corpo era intatto ma la loro mente si era offuscata: il Sopravvissuto fantasticava che, forse, avessero perso l’anima. Ma probabilmente si trattava di qualcosa di molto più prosaico: qualcosa che provocava un’insufficienza al cervello e né diminuiva tutte le capacità mentali.
La cosa forse più terribile era che questi zombie nemmeno si rendevano conto di essere tali: ormai incapaci di parlare propriamente farfugliavano fra di loro frasi sconnesse, annuivano e facevano smorfie che volevano essere, forse, sorrisi. Continuavano a scimmiottare quella che doveva essere stata la loro vita. Camminavano lentamente con movimenti scoordinati e guidavano ancora peggio: piano piano tutti in fila, come sedati: se non si aveva fretta questo in realtà non era malaccio.
Il Sopravvissuto capì immediatamente cosa doveva fare: quando aveva provato ad agire normalmente gli zombi, con un istinto dettato da qualche malevola intuizione, sembravano capire nonostante i loro cervelli malati che lui non era come loro: allora spalancavano la bocca e lo indicavano producendo una sorta di basso gorgoglio famelico, poi tentavano di raggiungere il Sopravvissuto barcollando come ubriachi ma quest’ultimo non era mai rimasto ad attendere per capire che intenzioni avessero. Semplicemente se ne era dato a gambe levate facendo perdere facilmente le proprie tracce.
Osservandoli da lontano ne aveva poi studiato il comportamento: i movimenti, le abitudine, le vocalizzazioni… Non gli era parso troppo difficile provare a imitarli.
Stanco di nascondersi e muoversi furtivamente la notte il sopravvissuto aveva deciso di confrontarsi prima con un singolo zombi: avrebbe provato a muoversi e a parlare come lui e avrebbe visto cosa sarebbe successo.
Il tentativo, nonostante l’inevitabile titubanza, andò sorprendentemente bene: era passato più volte arrancando intorno allo zombie, una volta urtandolo volontariamente con una brusca spallata, ma lo zombi non aveva dato segno di accorgersene. Poi aveva provato a parlargli: “Gru co? Para che...” gli aveva detto. Lo zombie gli aveva risposto sputacchiando “Toto car… carta.. no”. Il Sopravvissuto lo aveva ringraziato con un cenno storto del capo e lo zombi gli aveva restituito a sua volta un sorriso vacuo e stupido.
Dopo questo successo il Sopravvissuto acquistò sempre più coraggio: con prudenza si accorse che, semplicemente muovendosi lentamente e con esitazione, non andando dritto verso la meta ma vagolando un po’ qua e là, magari emettendo qualche verso privo di significato di tanto in tanto, riusciva a passare completamente inosservato. Gli zombi nemmeno lo degnavano di uno sguardo e proseguivano nei loro ottusi compiti.
Passarono così prima settimane e poi mesi e il Sopravvissuto si rese conto di non essere felice: iniziava a sentirsi solo. Aveva ogni bene materiale a sua disposizione ma in realtà non aveva niente. Qualsiasi cosa volesse la poteva prendere: ma si rese conto che nulla aveva importanza per lui.
Come si giudica infatti il valore delle cose? Non glielo diamo noi: lo decide la società. E questi zombi non facevano distinzione fra una Panda rossa o una Ferrari: al massimo commentavano con un “Brum brum” quando gli passava lentamente accanto guidando un macchinone nuovo preso direttamente dalla concessionaria più vicina...
Straordinariamente la società degli zombi riusciva, nonostante la sua assoluta ottusità, se non a prosperare almeno a sopravvivere. In qualche modo il cibo arrivava in tavola: i soldi, sebbene un po’ a casaccio, passavano di mano in mano e perfino la vita continuava: gli zombi continuavano a sposarsi, ad accoppiarsi e a produrre altri ottusi piccoli zombini che avevano lo stesso sguardo smorto e spento dei loro genitori..
Il Sopravvissuto era perso: in ogni città che visitava la situazione era la stessa: nonostante la familiare apparenza di vita vedeva che la morte era già calata, se non nel corpo, nelle mente degli zombi. E soprattutto si sentiva solo: il Sopravvissuto non era mai stato un grande chiacchierone né idee particolarmente brillanti avevano illuminato la sua mente. Però sentiva crescere il bisogno di pronunciare parole umane, frasi compiute che avessero un senso per quanto piccolo e insignificante e, ancor meglio, avrebbe amato udire una risposta intellegibile e non i soliti mugugni dissenati.
Per un certo periodo di tempo aveva trovato momentanea soddisfazione nella compagnia femminile delle zombesse: alcune, se non le si guardava negli occhi, erano davvero carine quando non belle…
Ed erano abbastanza confuse da non ricordare o sapere se fossero fidanzate o no. Il Sopravvissuto fece molti esperimenti ma in breve capì che vi erano tre tipi di femmine zombi: il primo gruppo si conquistava mostrando loro del denaro (non sapendo più contare bastava anche una banconota da 5€ mentre le monete, indipendentemente dalla quantità, non sembravano attirare la loro attenzione), il secondo con un fiore (in realtà notò che bastava anche una spiga di grano o anche un ciuffo d’erbacce purché con un bel fiocco colorato) e l’ultimo con un libro (inizialmente usava raccolte di poesie ma poi si accorse che bastava un libro qualunque, anche l’Almanacco del Calcio andava bene).
Quindi quando vedeva una femmina zombi dalle forme gradevoli le faceva passare sotto il naso una banconota: se la zombessa reagiva con uno schiaffo allora lui le girava intorno, contava fino a 5, poi le si ripresentava davanti e provava con un fiore; infine, se anche questo tentativo falliva, passava al libro. Insomma prima o poi la zombessa gli sorrideva in una maldestra imitazione di malizia femminile. A quel punto il Sopravvissuto le faceva capire cosa voleva da lei, la portava dove non sarebbero stati disturbati, poi le si metteva alle spalle (temeva sempre che standole di fronte avrebbe potuto tradirsi e, se la zombessa se ne fosse accorta, lo avrebbe sicuramente morso proprio quando era più vulnerabile) e così soddisfaceva i suoi bisogni sessuali nella maniera più sicura possibile. Un sesso meccanico che però presto perse ogni attrattiva e che si riduceva alla distrazione di pochi momenti di piacere che difficilmente poteva confondere con vera felicità.
Nel corso del tempo il suo desiderio di non essere più solo si fece sempre più forte: pensò che magari vi erano, da qualche parte, degli altri sopravvissuti come lui che, a loro volta, si fingevano degli zombie per poter sopravvivere senza problemi.
Ma come identificarli? L’unica maniera era viaggiare, visitare nuovi luoghi, stando bene attento a notare particolari, magari uno sguardo più vivo, o uno scopo razionale che emergesse dall’apparente caos: indizi insomma che potessero svelargli la presenza di altri essere umani come lui.
Il Sopravvissuto girò diverse nazioni: ora non vi era più bisogno di conoscere alcuna lingua: i grugniti erano uguali da tutte le parti.
Provò a camminare fra gli zombi portando un cartello con su scritto “Sono vivo” ma qualche zombie si accorgeva che aveva qualcosa di strano e lo squadrava con preoccupante curiosità bestiale. Allora il Sopravvissuto iniziò a lasciare messaggi con lo spray sui muri degli incroci più trafficati: dava degli appuntamenti, scriveva di lasciare indicazioni o recapiti: ma nessuno arrivò mai ai suoi appuntamenti né gli lasciò alcun messaggio.
Alla fine il Sopravvissuto perse ogni speranza di trovare altri come lui. Si sentiva sempre più triste e iniziò a chiedersi che senso aveva continuare a vivere questa apparenza di vita: che senso aveva sapere di non essere uno zombi se poi doveva comportarsi come questi per sopravvivere? E comunque che senso aveva sopravvivere se il prezzo era l’infelicità?
Era più importante vivere o essere felici? Si chiese quindi se, divenendo uno zombie egli stesso, avrebbe potuto essere felice: magari quei cervelli malati si accontentavano della propria assurda esistenza inconcludente, magari riuscivano a produrre un qualche ormone o una tossina che li illudeva di essere felici, di avere uno scopo nei loro sciocchi e ripetitivi gesti quotidiani; magari si sarebbe sentito importante e soddisfatto a sistemarsi con una zombessa e avere con lei tanti zombini.
Forse la felicità non esisteva: forse era solo un’illusione che si raggiungeva più facilmente con gli occhi offuscati e privi di umana intelligenza.
Ovviamente erano ragionamenti senza senso: ma vivendo per anni da solo, senza potersi confrontare con altre persone capaci di capirlo, iniziò a convincersi che non vi fosse altra soluzione.
Decise quindi di infettarsi e diventare egli stesso uno zombi: prima provò con la saliva, poi col sangue, via via in quantità maggiori, ma niente…. Ogni sera si addormentava con una leggera febbriciattola, augurandosi di svegliarsi nel torpido sonno che caratterizzava la non vita degli zombi, ma invece ogni mattina si svegliava esattamente lucido come la sera precedente. Intorno a sé vedeva la follia di una stupidità malata su cui lui non aveva alcun potere.
Un giorno infine, dopo anni di disperata solitudine, il Sopravvissuto trovò sollievo.
Probabilmente pensate che egli finì per suicidarsi: per abbandonare volontariamente una vita che gli dava solo sofferenza: ma non fu così...
Il Sopravvissuto infatti scoprì le droghe e l’alcool: non erano la felicità ma almeno l’imitavano abbastanza bene facendogli dimenticare, sebbene temporaneamente, il grande vuoto che l’opprimeva.
Una domenica, completamente sbronzo, decise di andare allo Stadio a vedere la partita della sua squadra del cuore: i giocatori passeggiavano lenti per il campo, alcuni con le magliette messe al contrario, altri in tute da ginnastica, spesso con due o tre palloni in gioco contemporaneamente. Ma a questo il spettacolo il sopravvissuto era abituato: quello che gli fece perdere le staffe fu l’arbitro che, proprio al novantesimo, fischiò (senza inghiottire il fischietto) giustamente un rigore ma lo fece battere alla squadra che difendeva. Gli ospiti pareggiarono così la partita e il Sopravvissuto, che aveva scommesso sulla vittoria della propria squadra, si arrabbiò così tanto che iniziò a inveire contro l’arbitro: fin qui niente di male, lo facevano tutti i tifosi zombi con i loro ululati belluini, egli però imprecò con proprietà di linguaggio, con offese ben costruite grammaticalmente, con una sintassi e un brio scatologico che non passò inosservato agli zombi che lo circondavano e che si esprimevano solo con grida disarticolate e senza costrutto. Fosse stato lucido il Sopravvissuto se ne sarebbe accorto e probabilmente avrebbe rimediato tornando a fingere di essere uno zombi; invece quel giorno rimase oblioso ai segnali di pericolo: agli sguardi famelici e alla bava che iniziò a colare copiosa da bocche digrignanti.
O, ci piace pensare, magari anche le droghe non davano più nessun reale sollievo al Sopravvissuto che quindi aveva deciso di morire: non per errore e sciocca distrazione ma per profonda volizione sebbene inconscia…
Quale che fosse la ragione del cieco furibondo turpiloquio del Sopravvissuto egli non smise di smoccolare nemmeno quando il primo zombie lo morse a un braccio e, pochi secondi dopo, sparì sotto una massa di zombi eccitati dal sangue che ne dilacerarono le carni facendolo a brandelli.
Così morì l’ultimo umano in un mondo di zombi e nessuno se ne accorse: la terra continuò a girare e gli zombi continuarono a vivere le loro inutili parodie di vita.
martedì 10 novembre 2020
Razionalizzazionalmente
Razionalizzazione e razionalità non sono la stessa cosa.
La razionalizzazione è una razionalità imperfetta: assomiglia alla razionalità ma nelle sue premesse ci sono degli errori di fondo che si propagano nei successivi passaggi logici, indipendentemente da quanto questi siano corretti.
La premessa fallace della razionalizzazione può assumere diversi aspetti: per esempio potrebbe essere una statistica o una ricerca scientifica.
La statistica potrebbe affermare che ogni persona mangia un pollo la settimana mentre, nella realtà, metà della popolazione ne mangia due e l’altra metà zero. Assumere che tutti mangino almeno un pollo è quindi errato.
Le ricerche hanno in genere tanti vincoli e limiti: anche quelle che appaiono più definitive, leggendone bene il testo, si scopre che hanno dei presupposti talvolta piuttosto arbitrari e che, cambiandoli, si potrebbero ottenere risultati completamente diversi.
Un esempio per capirci: alle passate elezioni, per il referendum, mi capitò di leggere su FB un commento di un tizio (mi pare fosse un ingegnere) che con argomentazioni estremamente logiche, e a suo dire oggettive perché basate su dati e ricerche, arrivava a concludere che bisognasse votare “sì” alla riduzione del numero dei parlamentari. Alla base del suo ragionamento vi era una ricerca: “On the Optimal Number of Representatives” di Emmanuelle Auriol e Robert J. Gary-Bobo del marzo del 2008. Ora non ho più il collegamento ma scaricai il PDF: suppongo che con Google sia facile ritrovarlo per chi è interessato.
La ricerca è composta da 59 pagine con parecchia matematica che non riesco a comprendere ed è basata sui dati statistici di un centinaio di paesi.
Io che sono uno scettico ero piuttosto perplesso dal fatto che si potesse trovare con la sola matematica una risposta univoca al problema essenzialmente sociale e politico che è quello di individuare il numero ottimale di rappresentanti parlamentari dei diversi paesi. Così spulciai il testo prendendo per buone le dimostrazioni, che comunque non ero in grado di capire, ma concentrandomi sulle premesse.
Per ogni rappresentante la ricerca calcola la probabilità che faccia gli interessi della popolazione partendo dall’ipotesi, cinica ma sostanzialmente corretta, che egli faccia il proprio: e poi via via altra matematica…
Ma fra i vari presupposti ce n'è uno piuttosto debole, il quarto: “The n representatives are independent random drawings in the probability distribution P .”
In parole povere significa che i rappresentanti sono estratti a caso dalla popolazione e non hanno relazione fra loro.
Questo significa che i rappresentanti non sarebbero aggregati in partiti (quindi niente gioco di squadra) e che chiunque, indipendentemente dalle proprie caratteristiche psicologiche, potrebbe divenire un parlamentare: vi sembra ragionevole? È veramente così nella realtà o non sono i politici in maggioranza dei furbastri egocentrici e magari narcisisti? A mio avviso questo presupposto è troppo arbitrario e vanifica quindi tutto l’esercizio matematico seguente.
Gli stessi autori ammettono che questa semplificazione può suonare “naïf” ma, ovviamente, la difendono e la giustificano visto che, come ho detto, è basilare per la loro dimostrazione.
Quindi qui abbiamo visto due diverse razionalizzazioni: la prima è quella dei ricercatori che per la loro ricerca si sono basati su una premessa fortemente arbitraria (e secondo me errata); la seconda razionalizzazione è quella dell’ingegnere (mi pare) che ha preso per assolutamente corretto e affidabile il risultato di detta ricerca.
Tutti i loro ragionamenti potevano poi essere anche essere logicamente ineccepibili ma le loro conclusioni saranno comunque falsate dai rispettivi “peccati originali”: in questo caso prendere per certo ciò che non lo è.
Alla fine la razionalità pura è probabilmente irraggiungibile (magari escludendo l’ambito matematico e/o fisico) visto che ci saranno sempre delle premesse più o meno arbitrarie.
È quindi fondamentale essere coscienti di questo problema in maniera da essere in grado di individuare eventuali falle sia nei ragionamenti altrui ma anche nei nostri.
Ma a cosa è dovuta questa mia disquisizione che, almeno apparentemente, sembra andare a cercare il pelo nell’uovo?
È che in verità la trovo molto attuale: soprattutto in questi giorni in cui tutti, dal virologo all’imbianchino, sparano le conclusioni più disparate basandosi su statistiche e ricerche sul covid-19.
Lo spunto me l’ha dato Antifragile di Taleb.
Nell’introduzione scrive: «Il fragilista è vittima dell’“illusione sovietico-harvardiana” l’(ascientifica) sopravvalutazione della portata della conoscenza scientifica. A causa di questo, è quel che si definisce un “razionalista ingenuo” […] nel senso che crede che le ragioni dietro alle cose gli siano automaticamente accessibili. Attenzione però a non confondere la razionalizzazione con la razionalità [...]» (*1).
Nella pagina seguente fa degli esempi pratici di “fragilisti” fra cui include i medici che pongono troppo la loro attenzione sul curare a ogni costo dimenticandosi degli altri aspetti che compongono la vita.
Cito: «In sintesi, il fragilista (in medicina, in economia, nella pianificazione sociale) è colui che ci fa impegnare in politiche e azioni, tutte artificiali, di cui i vantaggi sono piccoli e visibili e gli effetti collaterali, invece, potenzialmente devastanti e invisibili.» (*2)
Solo io vi vedo una parafrasi delle indicazioni dei virologi nostrani e delle decisioni del mondo politico che, più o meno, gli va dietro a cappella?
I danni all’economia (per non parlare di quelli psicologici dovuti alla limitazione della libertà e alla privazione degli affetti famigliari, più difficilemente quantificabili ma ugualmente importanti) sono ancora invisibili ma emergeranno più chiaramente con lo sblocco dei licenziamenti: e più povertà significa meno salute e quindi più morti. Non è quindi neppure detto che i morti evitati nel breve termine non si tradurranno in più vittime nel medio lungo periodo…
Conclusione: la realtà è più complessa di quel che sembra e fermarsi all’apparenza, soprattutto all’illusione di una verità scientifica, può condurre a gravi errori di valutazione.
Nota (*1): tratto da Antifragile di Nassim Nicholas Taleb, (E.) IlSaggiatore, 2013, trad. Daniela Antongiovanni, Marina Beretta, Francesca Cosi e Alessandra Repossi, pag. 27.
Nota (*2): ibidem, pag. 28.
La razionalizzazione è una razionalità imperfetta: assomiglia alla razionalità ma nelle sue premesse ci sono degli errori di fondo che si propagano nei successivi passaggi logici, indipendentemente da quanto questi siano corretti.
La premessa fallace della razionalizzazione può assumere diversi aspetti: per esempio potrebbe essere una statistica o una ricerca scientifica.
La statistica potrebbe affermare che ogni persona mangia un pollo la settimana mentre, nella realtà, metà della popolazione ne mangia due e l’altra metà zero. Assumere che tutti mangino almeno un pollo è quindi errato.
Le ricerche hanno in genere tanti vincoli e limiti: anche quelle che appaiono più definitive, leggendone bene il testo, si scopre che hanno dei presupposti talvolta piuttosto arbitrari e che, cambiandoli, si potrebbero ottenere risultati completamente diversi.
Un esempio per capirci: alle passate elezioni, per il referendum, mi capitò di leggere su FB un commento di un tizio (mi pare fosse un ingegnere) che con argomentazioni estremamente logiche, e a suo dire oggettive perché basate su dati e ricerche, arrivava a concludere che bisognasse votare “sì” alla riduzione del numero dei parlamentari. Alla base del suo ragionamento vi era una ricerca: “On the Optimal Number of Representatives” di Emmanuelle Auriol e Robert J. Gary-Bobo del marzo del 2008. Ora non ho più il collegamento ma scaricai il PDF: suppongo che con Google sia facile ritrovarlo per chi è interessato.
La ricerca è composta da 59 pagine con parecchia matematica che non riesco a comprendere ed è basata sui dati statistici di un centinaio di paesi.
Io che sono uno scettico ero piuttosto perplesso dal fatto che si potesse trovare con la sola matematica una risposta univoca al problema essenzialmente sociale e politico che è quello di individuare il numero ottimale di rappresentanti parlamentari dei diversi paesi. Così spulciai il testo prendendo per buone le dimostrazioni, che comunque non ero in grado di capire, ma concentrandomi sulle premesse.
Per ogni rappresentante la ricerca calcola la probabilità che faccia gli interessi della popolazione partendo dall’ipotesi, cinica ma sostanzialmente corretta, che egli faccia il proprio: e poi via via altra matematica…
Ma fra i vari presupposti ce n'è uno piuttosto debole, il quarto: “The n representatives are independent random drawings in the probability distribution P .”
In parole povere significa che i rappresentanti sono estratti a caso dalla popolazione e non hanno relazione fra loro.
Questo significa che i rappresentanti non sarebbero aggregati in partiti (quindi niente gioco di squadra) e che chiunque, indipendentemente dalle proprie caratteristiche psicologiche, potrebbe divenire un parlamentare: vi sembra ragionevole? È veramente così nella realtà o non sono i politici in maggioranza dei furbastri egocentrici e magari narcisisti? A mio avviso questo presupposto è troppo arbitrario e vanifica quindi tutto l’esercizio matematico seguente.
Gli stessi autori ammettono che questa semplificazione può suonare “naïf” ma, ovviamente, la difendono e la giustificano visto che, come ho detto, è basilare per la loro dimostrazione.
Quindi qui abbiamo visto due diverse razionalizzazioni: la prima è quella dei ricercatori che per la loro ricerca si sono basati su una premessa fortemente arbitraria (e secondo me errata); la seconda razionalizzazione è quella dell’ingegnere (mi pare) che ha preso per assolutamente corretto e affidabile il risultato di detta ricerca.
Tutti i loro ragionamenti potevano poi essere anche essere logicamente ineccepibili ma le loro conclusioni saranno comunque falsate dai rispettivi “peccati originali”: in questo caso prendere per certo ciò che non lo è.
Alla fine la razionalità pura è probabilmente irraggiungibile (magari escludendo l’ambito matematico e/o fisico) visto che ci saranno sempre delle premesse più o meno arbitrarie.
È quindi fondamentale essere coscienti di questo problema in maniera da essere in grado di individuare eventuali falle sia nei ragionamenti altrui ma anche nei nostri.
Ma a cosa è dovuta questa mia disquisizione che, almeno apparentemente, sembra andare a cercare il pelo nell’uovo?
È che in verità la trovo molto attuale: soprattutto in questi giorni in cui tutti, dal virologo all’imbianchino, sparano le conclusioni più disparate basandosi su statistiche e ricerche sul covid-19.
Lo spunto me l’ha dato Antifragile di Taleb.
Nell’introduzione scrive: «Il fragilista è vittima dell’“illusione sovietico-harvardiana” l’(ascientifica) sopravvalutazione della portata della conoscenza scientifica. A causa di questo, è quel che si definisce un “razionalista ingenuo” […] nel senso che crede che le ragioni dietro alle cose gli siano automaticamente accessibili. Attenzione però a non confondere la razionalizzazione con la razionalità [...]» (*1).
Nella pagina seguente fa degli esempi pratici di “fragilisti” fra cui include i medici che pongono troppo la loro attenzione sul curare a ogni costo dimenticandosi degli altri aspetti che compongono la vita.
Cito: «In sintesi, il fragilista (in medicina, in economia, nella pianificazione sociale) è colui che ci fa impegnare in politiche e azioni, tutte artificiali, di cui i vantaggi sono piccoli e visibili e gli effetti collaterali, invece, potenzialmente devastanti e invisibili.» (*2)
Solo io vi vedo una parafrasi delle indicazioni dei virologi nostrani e delle decisioni del mondo politico che, più o meno, gli va dietro a cappella?
I danni all’economia (per non parlare di quelli psicologici dovuti alla limitazione della libertà e alla privazione degli affetti famigliari, più difficilemente quantificabili ma ugualmente importanti) sono ancora invisibili ma emergeranno più chiaramente con lo sblocco dei licenziamenti: e più povertà significa meno salute e quindi più morti. Non è quindi neppure detto che i morti evitati nel breve termine non si tradurranno in più vittime nel medio lungo periodo…
Conclusione: la realtà è più complessa di quel che sembra e fermarsi all’apparenza, soprattutto all’illusione di una verità scientifica, può condurre a gravi errori di valutazione.
Nota (*1): tratto da Antifragile di Nassim Nicholas Taleb, (E.) IlSaggiatore, 2013, trad. Daniela Antongiovanni, Marina Beretta, Francesca Cosi e Alessandra Repossi, pag. 27.
Nota (*2): ibidem, pag. 28.
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