Sto continuando nella lettura dell'Etica nicomachea senza però esserne particolarmente entusiasta.
Come percepii immediatamente (v. il corto Errore metodologico) non mi piace la metodologia filosofica usata da Aristotele e per questo seguo con scarso interesse i risultati che raggiunge. Il motivo è che vedo la filosofia dello Stagirita come un edificio estremamente complesso e apparentemente solidissimo ma, sfortunatamente, con fondamenta molto precarie.
Provo a spiegare un po' meglio l'origine del mio scetticismo. I passi seguiti da Aristotele sono i seguenti:
1. Dalla realtà si passa a delle definizioni linguistiche ben precise (in greco antico: in italiano c'è un ulteriore livello di incertezza).
2. Da queste definizioni, tramite rigorosissimi passaggi logici, si giunge a nuove argomentazioni che, a loro volta, possono essere usate come premesse per nuove conclusioni.
Il primo passo è inevitabile: non escludo che all'interno della mente alcune intuizioni possano essere extraverbali ma quando si vuole comunicare con altre persone è inevitabile dover ridurre ogni concetto in parole. Il problema è che la realtà è molto più complessa di quanto le parole riescano a esprimere: la conseguenza è che in questa riduzione si introduce un errore di approssimazione. Qualcosa presente nel concetto originale viene perso nella sua descrizione verbale.
Si può in parte ovviare a questo problema fornendo più spiegazioni della stessa teoria (come l'insegnante che sottolinea i concetti più importanti della lezione ripetendoli più volte in forme diverse) in maniera da mostrarla da più punti di vista, magari evidenziando ciò che in una prima definizione poteva essere sfuggito.
Aristotele però dà un'unica definizione, chiara e precisa: egli è molto abile a trovare definizioni che minimizzano l'incertezza di cui sopra ma questa non può essere eliminata del tutto.
È nel secondo passaggio che l'errore di Aristotele si fa manifesto.
La logica è uno strumento potentissimo sul quale la matematica basa le proprie dimostrazioni: l'intera civiltà moderna ha le sue fondamenta nelle solide certezze date dalla logica.
Ma la logica la possiamo usare come uno strumento completamente affidabile solo se gli oggetti che manipola sono altrettanto certi. Al punto precedente abbiamo però visto che questo non è il caso: le definizioni linguistiche hanno sempre una quantità di indeterminazione nella realtà che descrivono e pertanto la logica stringente di Aristotele, che ignora questo errore di fondo, non è affidabile nei suoi risultati.
Un esempio: la logica booleana prevede che “1 AND 1 = 1” e “1 AND 0 = 0” (o “0 AND 1 = 0”). Tutti i calcolatori la usano e anche l'estremista più retrogrado dovrà ammettere che funziona! Ma se invece di 1 e 0 si avesse 0.95 e .02? A cosa dovrebbe essere uguale “0.95 AND .02”? oppure “.98 AND .97”? Per come è definita la logica booleana valori diversi da 0 e 1 non possono essere valutati però, nella nostra analogia/esempio, Aristotele fingerebbe che 0.95 sia 1 e che .02 sia 0 e risolverebbe il problema: in genere il valori che calcola, ovvero le proposizioni che deduce, sono corrette (nella pratica ha infatti senso approssimare 0.95 a 1!) ma in casi estremi potrebbero non esserlo...
Per questo motivo fatico ad appassionarmi alle costruzioni filosofiche di Aristotele: il suo modo di procedere è di una logicità impressionante ma, considerando che le premesse, ovvero le definizioni di partenza, non sono altrettanto affidabili trovo che i suoi sforzi per raggiungere certezze assolute siano noiosi e futili...
Ma questa metodologia filosofica non è l'unico difetto che ho riscontrato nell'Etica nicomachea: ce n'è un altro di una banalità così evidente che mi lascia perplesso.
Come spiegato Aristotele procede nei suoi ragionamenti con rigore ferreo: per certi versi le sue spiegazioni ricordano delle dimostrazioni matematiche. Spesso si leggono affermazioni del tipo “Poiché abbiamo visto che A non può essere e che B non è applicabile allora, non rimanendo che C, deve essere C”. Ogni passaggio delle sue argomentazioni è accuratamente giustificato.
Eppure ci sono delle eccezioni (ad occhio e croce avrò incontrato 3 o 4 esempi di questo tipo): Aristotele talvolta non si preoccupa di dimostrare alcune affermazioni perché, scrive, “è noto a tutti che XXX” e quindi, sembra suggerire, è inutile perderci tempo.
Ma considerare ciò che appare ovvio come vero è un grave errore: sicuramente non lo si può fare in una dimostrazione di matematica, tipo “l'equazione A è vera perché lo si vide a occhio”!
Ovviamente anche in questo caso Aristotele effettua questa semplificazione in casi in cui è difficile dargli torto: eppure l'errore metodologico rimane. Io stesso in Epoca e Corollario a epoca ho evidenziato il pericolo di considerare vero ciò che tutti ritengono tale: talvolta infatti queste certezze assolute non sono tali e cambiano nel tempo...
Proprio oggi mi sono imbattuto in uno di questi casi: Aristotele non giustifica un'affermazione perché rientra nella categoria delle cose che “sanno tutti”. Eppure tale affermazione, almeno per il modo di sentire moderno, è forse non sbagliata ma comunque opinabile!
Nel III libro, capitolo 9, parlando delle paure che il coraggio è chiamato ad affrontare, scrive: «E la più spaventosa è la morte. Infatti è un termine e, ad avviso comune, per chi è morto non vi è più niente né di buono né di cattivo.» (*1)
Aristotele non ritorna più sull'affermazione che per chi è morto non vi è differenza fra ciò che è buono e ciò che è cattivo perché, appunto, è noto per “avviso comune”. Eppure a me tale osservazione non pare così ovvia: intuisco il pensiero di Aristotele ma non mi pare una frase da liquidare senza altre spiegazioni.
Intendiamoci: in una normale spiegazione può succedere di dare qualcosa per scontato per non perdere tempo per ciò che pare ovvio. Anch'io chissà quante volte l'avrò fatto nei miei pezzi!
Il punto però è che Aristotele costruisce la sua filosofia in maniera quasi matematica, parte da alcune definizioni, come fossero degli assiomi, e da lì dimostra proposizione dopo proposizione: ecco in questo contesto mi pare che a dir poco stoni il prendere per buona/vera una affermazione solo perché “tutti” la considerano tale...
Conclusione: per un attimo ho temuto che queste mie critiche potessero offendere Aristotele ma poi mi sono ricordato che, come tutti sanno, per chi è morto non vi è più niente né di buono né di cattivo e mi sono tranquillizzato...
Nota (*1): da Etica Nicomachea di Aristotele, Ed. BUR, introduzione, traduzione e commento di Marcello Zanatta.
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