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sabato 17 settembre 2016

KGB e coraggio

Ormai qualche anno fa scrissi i pezzi Risultato sondaggio (2010) e, successivamente, Coraggio e paura (2011).
Nel primo di questi pezzi svelavo i risultati di un sondaggio che avevo fatto ad amici e conoscenti su alcuni tratti della mia personalità e, fra questi, il coraggio. Il risultato fu piuttosto strano perché non ricevetti dei giudizi omogenei ma, anzi, furono molto contrastanti: un gruppo valutò il mio coraggio 4/10 e un altro 7/10. Una divergenza di opinioni strana e netta...
Nel secondo pezzo, dal titolo un po' fuorviante, parlai invece del coraggio dei miei genitori e dei miei nonni: sul finale conclusi poi con «E io allora, dati tali antenati, sono coraggioso o pauroso? Lo saprete in una prossima puntata!»
Ecco, a distanza di cinque anni, la “puntata” promessa è finalmente arrivata!

Ma per prima cosa è interessante chiederci cosa sia il coraggio.
Aristotele (sto leggendo adesso i capitoli in cui ne scrive) definisce il coraggio come il giusto mezzo fra la temerarietà e la vigliaccheria. Ma è una definizione relativa ad altre dimensioni indefinite (perché dipende da temerarietà e vigliaccheria) e quindi, seppure intuitivamente corretta, rimane un po' vaga nella sua essenza. In realtà la definizione di Aristotele è più articolata e implica l'azione volontaria, ovvero la scelta di essere coraggioso. I soldati costretti a combattere dai loro comandanti non sono coraggiosi perché non sono essi a scegliere di rischiare la propria vita in battaglia.
La mia definizione di coraggio è diversa, a occhio direi kantiana: per me il coraggio è fare il proprio dovere, ovvero la “cosa giusta”, indipendentemente dalle conseguenze personali. In altre parole è la volontà, la predisposizione a conformarsi a un imperativo categorico che, ricordiamolo, è un imperativo morale personale. Si fa qualcosa, indipendentemente dai rischi e dalle conseguenze, perché si sente, si percepisce, che sia giusto farlo.
Da notare che anche questa definizione implica la volontà e la scelta di fare o non fare qualcosa.

Quindi, alla luce di queste definizioni, io sono coraggioso oppure no? In realtà non lo so!
Nella vita moderna le opportunità di mettere alla prova il proprio coraggio compiendo scelte che mettono a repentaglio la nostra integrità fisica sono molto rare. È quindi difficile avere una casistica abbastanza ampia da cui trarre delle conclusioni basate su episodi concreti. Al riguardo ricordo tre episodi in cui sono stato “coraggioso” e uno in cui sono stato “nì”: magari ci ritorno poi.
Gli episodi dove non c'è un rischio fisico ma solo delle conseguenze negative, magari ipotetiche e non immediate, sono invece più frequenti. Onestamente non mi viene in mente niente: suppongo di aver sempre obbedito alla mia coscienza in questi casi. Ah! Non ho mai copiato in classe (e nemmeno all'università!) anche quando avevamo “l'autorizzazione” ufficiosa del professore (ad esempio per i compiti di latino in quinta una volta sicuri che tale materia non sarebbe stata affrontata alla maturità). Però faccio fatica a considerare queste piccolezze come episodi di coraggio: mi sembrano più indicazioni di senso della giustizia. Bo, forse per parlare di coraggio non si può prescindere da un rischio concreto che, anche se non strettamente fisico, deve essere comunque almeno potenzialmente in grado di influenzare significativamente il proprio futuro. Ad esempio alcune scelta di vita potrebbero essere considerate come atti di coraggio (o vigliaccheria).

Tornando ai quattro episodi dove c'era una certa dose di “rischio” fisico devo forse aggiungere qualche dettaglio. In tutti quei casi (avvenuti nell'adolescenza) sono intervenuto a difesa di amici, conoscenti e sconosciuti e non della mia persona. Il motivo è curioso e molto significativo: riguarda la mia difficoltà a rapportarmi agli altri e a interpretare i messaggi non verbali! Un paio di volte a scuola mi è capitato che un bulletto, non della mia classe, mi abbia preso di mira magari per prendermi in giro o provocarmi: in quei casi non sapevo come reagire, non sapevo rispondere a tono a parole ma anche una reazione fisica mi sembrava eccessiva. Rimanevo così perplesso, guardando strano il provocatore... In tutti questi casi però il bullo deve aver percepito che non avevo paura: mi piace pensare che si rendessero conto che con me era meglio non tirare troppo la corda... Fatto sta che poi, nonostante le mie stranezze, mi lasciavano tutti in pace!
Invece, quando la persona presa di mira non ero direttamente io, mi era molto più facile valutare la situazione e decidere se intervenire o meno.
Ecco il fatto è che non ho mai “deciso” niente: l'ipotesi di non intervenire mi era semplicemente inconcepibile. Non è che pensassi “posso fare X o Y, che scelgo?”: semplicemente non avevo altre opzioni. E questo, sia per la definizione di Aristotele, ma anche per la mia, non è propriamente coraggio perché non c'è propriamente scelta.

Nel primo caso un ragazzino, spalleggiato da un suo amico che ridacchiava, stava torcendo il braccio di un mio amico. Credo che fossero della mia età (penso sui 13 anni) anche se leggermente più robusti perché io ero piccolo di statura (e il mio amico era di un anno più giovane di me e altrettanto magrolino). Ricordo che gli afferrai il braccio stringendoglielo forte e, accostando il mio muso alla sua faccia, gli ringhiai “Abbozzala!” (toscanismo?). Lui, probabilmente preso alla sprovvista, guardandomi con un sorriso incerto mi disse “Come?” (non erano toscani) e io gli ripetei “Abbozzala”. Al secondo avvertimento capì cosa intendevo... Sia lui che il suo amico non ci dettero più problemi.
Il secondo episodio avvenne un anno o due dopo. Eravamo sempre in UK (mi ero dimenticato di specificarlo) in fila alla mensa aspettando che aprisse. Il primo della fila era un ragazzotto italiano, immagino di un anno più grande di me, o comunque di una testa più alto; il secondo un ragazzino tedesco, biondo e occhialuto, immagino della mia età; poi c'ero io e dietro altra gente.
Il ragazzotto italiano faceva parte di un trio di bulletti che già da tempo avevo identificato come “da evitare” per non avere problemi ma, in questa occasione, era da solo. Iniziò a dare fastidio al ragazzino tedesco ma quando gli mise le mani addosso intervenni immediatamente. Non ricordo cosa gli dissi ma l'afferrai per la collottola e lo tirai verso di me: anche questa volta gli misi il mio muso sotto la faccia. Ci fissammo per alcuni secondi e ricordo chiaramente la sua pupilla che si dilatava per lo spavento! Poi intervenne il cuoco, un omone inglese, che ci disse di smetterla: io lo guardai male ancora per un istante e poi lo lasciai andare.
Nei giorni successivi ero un po' preoccupato che i tre bulletti tentassero una rappresaglia ma, non senza stupore, mi accorsi che adesso era il trio che evitava me!
Il terzo episodio fu meno eclatante. Sempre in Inghilterra, questa volta avevo 18 anni ed ero sempre piccolino e segaligno, per non dire scheletrico. Ricordo che eravamo in cima a una salita quando all'incrocio in fondo alla strada, a una cinquantina di metri, si udirono degli schiamazzi. Un ragazzo del nostro gruppo col quale precedentemente avevo scambiato solo un paio di parole era circondato da una dozzina di studenti (credo italiani ma non ne sono sicuro) che lo schernivano o, comunque, lo importunavano. Ricordo che una delle ragazze che erano con me in cima alla salita disse “Qui si mette male!” riferendosi a quello che stava accadendo in fondo alla discesa. Ricordo che sbuffai perché non avevo voglia di intervenire ma, come spiegato, sentivo di non avere la libertà di non farlo. E così mi diressi correndo al piccolo trotto verso il gruppo in fondo alla discesa. Fu una scelta strategica: se fossi sceso a rotta di collo sarei apparso troppo minaccioso rischiando di far scoppiare uno scontro impari; invece correndo “lentamente” rendevo chiara la mia volontà di inserirmi nella disputa ma mantenevo aperta l'opzione diplomatica: come dice Nimzowitsch “La minaccia è più forte della sua attuazione”.
Fortunatamente la situazione era molto meno grave del previsto: mi frapposi fra il ragazzo e il gruppo e, rivolgendomi, al primo gli dissi “Vieni, dai, c'è da andare a lezione...” (in realtà non ricordo!) e lo scortai su in cima alla collina da dove ero giunto.
Per i miei amici/lettori che l'hanno poi conosciuto fu così che il “Topo” decise di divenire mio amico!
E l'episodio “nì”? Avvenne la stessa estate del primo episodio: io e il mio amico magrolino eravamo stati assegnati in camera con un ragazzo di 16 anni (o comunque che fisicamente era già sviluppato e sembrava più un uomo che un bambino come noi). Ricordo che prese di mira il mio amico e, minacciandolo, lo costrinse a rifargli il letto. Io non intervenni solo perché non lo toccò ma credo che avrei dovuto comunque fare qualcosa: certo che la situazione sarebbe stata difficile. Sicuramente il ragazzo era molto più forte di me ma, se il mio amico non mi avesse lasciato solo, forse avremmo avuto qualche possibilità. Di certo però sarebbe finita male o per me o per lui. Quindi probabilmente è andata bene così... eppure ancora mi dispiace di non essere intervenuto...

I primi due episodi, e soprattutto il secondo, possono apparire strani: com'è possibile che un ragazzino piccolo e magro come me fosse riuscito a intimidirne altri anche molto più alti robusti?
Io credo che le ragioni siano molteplici:
1. Il detto che i bulli siano in fondo in fondo dei vigliacchi deve essere vero.
2. L'effetto sorpresa: in genere il mio intervento è improvviso e inaspettato.
3. Vengo preso sul serio: l'incertezza che non mi permette di relazionarmi verbalmente con gli altri sparisce. Nei due casi succitati avevo le idee chiare su cosa fare e il mio ultimatum non era un inganno: credo che ciò fosse stato percepito.
4. Uno dei pochi vantaggi di essere brutto! Quando mi arrabbio devo veramente fare paura...
5. Non ho paura, credo che sia una “controindicazione” della mia asocialità, e anche questo viene probabilmente percepito.
6. Sono consapevole dei miei vantaggi: sono molto più forte di quel che sembra, ho un'alta soglia del dolore e, come potrei dire, uhm... ho un lato nascosto che non teme lo scontro fisico (*1). Di nuovo, tutti questi fattori, credo che vengano almeno in parte percepiti.
7. Rileggendo quanto scritto ho notato un altro elemento: durante le prime fase, quella delle minacce verbali per intendersi, non intervenivo e rimanevo zitto a osservare. Probabilmente in questi casi il comportamento normale sarebbe quello di intromettersi cercando di dissuadere verbalmente/diplomaticamente: ma, come spiegato, questa fase non riesco proprio a gestirla e così l'ignoro aspettando solo di capire se e quando è lecito lo scontro fisico. Questa mia apparente indifferenza deve aver poi contribuito all'effetto “sorpresa”...

Conclusione: sono coraggioso? Ma... Non so: forse sì, ma in maniera anomala...

Nota (*1): una domanda del sondaggio (v. Risultato sondaggio) era infatti “Propensione alla violenza”. La mia teoria era che gli amici di infanzia (intendo delle elementari), quando minori sono le inibizioni, fossero stati più in grado di altri di accorgersi di questo aspetto...

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