Qualche giorno fa ho finito di leggere il libro “I miti Celtici” di T.W. Rolleston (*1). Come forse ho già accennato ne sono rimasto deluso.
Il problema sono la struttura e l'obiettivo del libro. La struttura prevede, dopo un'introduzione storica sui celti, grossomodo un capitolo su ogni “ciclo” di leggende mentre l'obiettivo è quello di analizzare tutta la letteratura “celtica” in toto. Il risultato è che il libro risulta essere troppo dispersivo: la conseguenza è che anche le leggende più interessanti finiscono per essere riassunte in maniera troppo sintetica riducendosi quindi a una collezione di nomi (strani) e luoghi per niente interessanti.
Il libro sarebbe stato enormemente migliore se l'autore si fosse limitato ad approfondire i cicli più antichi...
La parte storica, sebbene datata e non priva di inesattezze, è interessante e funzionale. In pratica viene spiegato che i celti, sebbene conoscessero l'uso della scrittura, non misero mai su carta la loro religione: i druidi infatti tramandavano le loro conoscenze solo oralmente. L'altro elemento significativo è che i celti, dopo aver dominato grandi estensioni dell'Europa, furono sconfitti e scacciati alla sua estrema periferia: Irlanda e Scozia (*2).
Dopo questa premessa storica l'autore usa una forte argomentazione. Spiega che la cultura non si tramanda solo per mezzo della scrittura ma anche oralmente e che quindi i miti della religione druidica non furono completamente dimenticati ma, anzi, si conservarono in forma più pura là dove i celti mantennero più a lungo la propria indipendenza.
L'autore si riferisce all'Irlanda dove le antiche leggende riemersero in manoscritti vergati e conservati nei numerosi monasteri dell'isola. I racconti più antichi risalgono al X-XI secolo e sono quindi infarciti di elementi cristiani: comunque le caratteristiche della mitologia celtica (come il popolo fatato) sono chiaramente osservabili.
Ecco, se l'autore si fosse limitato a questi cicli più antichi, il libro sarebbe stato sicuramente più interessante invece, sebbene ne prenda un po' le distanze, dedica un intero capitolo al “ciclo Ossianico”.
Per chi non lo sapesse Ossian era un personaggio scaturito dalla fantasia dello scozzese James Macpherson alla fine del XVIII secolo. Macpherson disse di aver trovato e tradotto in inglese degli antichi manoscritti attribuiti al bardo Ossian. Fin da subito si sospettò della veridicità di tale affermazione (anche perché le pergamene originali non furono mai mostrate!) ma solo nella seconda metà del XX secolo gli scettici hanno chiaramente prevalso. Adesso si ritiene che il Macpherson abbia attinto solamente pochi nomi e qualche altro elemento da racconti o canzoni scozzesi e che, in pratica, abbia inventato tutto il resto...
In un altro capitolo l'autore si dilunga nel riassumere le insipide avventure tratte da un manoscritto dall'ugualmente insipido titolo “Libro della mucca bruna”. Gli eroi vagano per il mare di isola in isola: ad ogni isola corrisponde una breve avventura ma nessuna è minimamente interessante...
Non contento l'autore passa a narrare le storie del Galles (tratti dal Mabinogion) che, sebbene contengano ancora degli elementi tipicamente celti, sono però ulteriormente corrotti e sovrapposti con altre leggende come, ad esempio, il mito di re Artù.
Insomma gli ultimi tre capitoli sono di scarsissimo interesse ed, escludendo i due capitoli storici iniziali, restano solo tre capitoli sulle leggende celtiche nella loro forma più pura che però vengono narrate in forma arida e troppo concisa...
Nota (*1): “I miti Celtici” di T.W. Rolleston, Ed. Euroclub, 1996, trad. Elena Campominosi
Nota (*2): e infatti ho scoperto che l'aggettivo “gaelico” si riferisce sia all'Irlanda che alla Scozia: io che l'avevo sempre sentito usare riferito a uno o all'altro di questi territori ero confuso sul suo reale significato. Invece i discendenti celtici nel Galles sono detti cimri.
martedì 28 agosto 2012
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