Il protagonista, dopo aver vagato per un tempo imprecisato all'interno dell'edificio, riesce a raggiungere l'uscita seguendo i lamenti di una donna che pare chiamarlo: la donna gli spiega che all'esterno l'aria è irrespirabile e che l'unica possibilità di salvezza è tornare indietro nel tempo sfruttando i paradossi dell'edificio. Caterina, che sembra conoscere meglio del protagonista le proprietà del labirinto, vuole essere condotta verso il suo "centro"...
Nella scorsa puntata il protagonista e Caterina raggiungono appunto il centro dell'edificio.
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In un attimo fummo di fronte alla grande porta che ora mi sembrava incombere minacciosamente su di noi. “È questa?” mi chiese Caterina guardandomi con i suoi occhi scuri che brillavano per l'eccitazione.
Mi limitai ad annuire deglutendo. Improvvisamente ero molto preoccupato: temevo quello che pensavo sarebbe stato il nostro prossimo passo. “Dobbiamo entrare?” mormorai con un filo di voce.
Ci pensò un attimo, poi con mio stupore, rispose “No. Non c'è bisogno: ciò che per te è l'inizio e la fine per me è solo il punto di partenza...”. Capii che, ancor prima di finire la frase, stava già pensando ad altro. Poi, fra sé e sé, aggiunse “Adesso dovrei essere in grado di trovare la strada...”.
Non disse altro e iniziò a dirigersi spedita verso l'altra estremità del corridoio.
Io le corsi dietro chiedendole cosa avesse in mente ma lei mi ignorò: sembrava totalmente assorta nei suoi pensieri.
Perplesso mi limitai a seguirla: si muoveva con sicurezza, come se sapesse quello che stava facendo. Raramente aveva delle esitazioni. A volte, cosa per me incomprensibile, entrava in una stanza senza altre uscite, poi annuiva soddisfatta, girava su sé stessa, e ritornavamo da dove eravamo entrati: solo che la stanza dove rientravamo era cambiata e presentava nuovi ingressi di cui prima non c'era traccia. Questo nell'edificio era normale: quello che mi stupiva era che lei sembrasse sapere perfettamente quali nuovi varchi sarebbero apparsi e quali spariti...
La magia finì quando mi azzardai ad afferrarla per una spalla per costringerla a fermarsi per darmi le spiegazioni che mi sembravano dovute.
Lei si voltò verso di me con il volto trasfigurato dalla rabbia e mi sibilò soltanto “Lasciami!”: lo disse con uno sguardo così minaccioso che mi gelò il cuore.
Io la lasciai, non per paura che potesse farmi del male, quanto per l'improvvisa delusione: pensavo di conoscerla, pensavo che fossimo amici ma invece capii che io non ero nulla per lei. Mi aveva usato e aveva di malavoglia tollerato le mie domande. Niente di più. Ora che non aveva più bisogno di me non esitava a farmelo capire.
Il vedere la sua vera faccia, quella della sua anima intendo, fu un brutto colpo. Realizzai che avevo sempre frainteso la sua ritrosia a parlare di sé stessa: pensavo fosse semplicemente timidezza ma invece era una maschera che si era abilmente costruita per ingannarmi. Per qualche motivo a me sconosciuto non aveva voluto farmi conoscere delle informazione a lei ben note. Forse qualche segreto di questo mondo irreale? Possibile...
Appena la lasciai andare Caterina tornò a ignorarmi, si voltò e proseguì per la sua strada.
Per un attimo restai indeciso su cosa fare: sentendomi umanamente ferito ero tentato di abbandonarla al suo destino per poter pensare “peggio per lei”. Ma il timore di rimanere di nuovo solo era di gran lunga più grande del dolore per il mio amor proprio ferito: così, benché scuro in volto, mi affrettai a seguirla a pochi passi di distanza.
Come al solito è difficile giudicare per quanto tempo andò avanti questo silenzioso, e per me tristissimo, inseguimento ma mi sembrò relativamente breve: forse un paio di ore.
Arrivammo a una piccola scala: non la solita ampia scalinata che portava al piano inferiore; era una scala di servizio: con gradini alti e stretti e le rampe corte e ripide. Iniziammo a scendere e lo facemmo per molto tempo: quando finalmente trovammo una porta pensavo che saremmo stati almeno cinque piani nel sottosuolo. Invece eravamo al piano terra!
Di nuovo rividi la luce calda e abbagliante del sole e una brezza tiepida sulla mia faccia. C'erano anche dei rumori fortissimi che mi costrinsero a tapparmi le orecchie con le mani. Però, abituato all'eterno silenzio da cui provenivo, nonostante la loro dolorosa intensità li apprezzavo come fossero una sinfonia.
Sul momento non mi fu chiaro se fossimo effettivamente tornati indietro nel tempo come sperava Caterina. Eravamo in un corridoio con le finestre alla nostra destra simile, benché decisamente più stretto, all'altro che ricordavo: intuii che eravamo arrivati sul lato opposto dell'edificio. A una dozzina di passi davanti a noi c'era un'uscita.
I miei sensi erano sopraffatti da tante sensazioni diverse che esitai per qualche secondo senza riuscire a muovermi. Caterina invece schizzò avanti con un urletto di felicità: mentre io, solo a fatica, riuscii a muovermi per seguirla, fin troppo conscio del peso delle mie membra, come se i muscoli non fossero più abituati a sostenermi.
Mentre con passo incerto mi muovevo verso l'uscita, iniziai con orrore a distinguere i suoni che tanto avevano deliziato il mio udito: erano un misto di sibili, fischi, spari, grida impaurite, esplosioni lontane, rombi di motore e una cacofonia di altri rumori assortiti che, per i miei orecchi disallenati, era al momento impossibile scindere e riconoscere nelle singole componenti. Fin dove, o meglio “quando”, mi aveva guidato Caterina?
Quando arrivai all'uscita lei era già fuori che gridava tutta la sua gioia apparentemente ignara di tutto ciò che succedeva intorno a lei. Ma, a parte la felicità di Caterina, tutto quello che vedevo e che soprattutto intuivo dai suoni lontani e le numerose nuvole di fumo nero che si alzavano lungo l'orizzonte e dalla città lontana mi fece pensare che fossimo arrivati in un epoca ben più lontana di quanto auspicassimo: eravamo tornati durante la guerra nel mezzo del fronte che si estendeva a ridosso della città.
Ma non ebbi modo di pensarci troppo perché tutto accade in un attimo e, per quanto ci abbia ripensato più e più volte, non mi è facile descrivere quello che vidi.
Un soldato le urlò intimandole di fermarsi ma lei l'ignorò, intanto esplosioni lontane facevano tremare il terreno sotto i nostri piedi. Improvvisi, vicino fra gli ulivi, si sentirono dei secchi colpi di fucile: il soldato che teneva sotto mira Caterina ebbe un sussulto di paura e sparò. Vidi Caterina cadere senza un gemito, ripiegandosi su se stessa, come una bambola senza ossa. Io ero impietrito, immobile e impotente, nascosto dall'ombra dell'ingresso; un altro soldato arrivò a vedere cosa stesse succedendo e i nostri sguardi si incrociarono. Mi puntò contro il fucile: non ragionai e pensai solo a scappare. Sentii sparare mentre correvo vacillando verso l'estremità del corridoio, verso la porta che dava sulle scale.
Quando la raggiunsi il soldato doveva essere a sua volta entrato nel corridoio; varcai la soglia e sentii le pallottole conficcarsi nella porta alle mie spalle: non osai aspettare e risalii il più rapidamente possibile i gradini. Mi sembrò di sentire dei passi alle mie spalle ma non mi fermai ad aspettare. Lentamente i rumori dietro di me si affievolirono fino a sparire. Per sicurezza continuai a salire per mettere più distanza fra me e il mio inseguitore. Arrivai al quarto pianerottolo e, automaticamente, mi girai per continuare l'ascesa: non trovai però nessun gradino e, sbilanciato, caddi in avanti.
Ero di nuovo nel silenzioso e vuoto limbo grigio con la differenza che adesso ero solo: non riuscii a trattenere le lacrime e nemmeno ci provai.
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