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sabato 26 maggio 2012

Ledificio (10/10)

Finalmente, non sapendo cosa scrivere, mi sono ricordato che avevo da pubblicare l'ultima parte del racconto!
Il riassunto non ho voglia di farlo: dico solo che il protagonista è stato guidato, da una voce che lo chiama per nome, in una stanza dove la foschia grigia non è uniforme...
Meglio se leggete le altre puntate: parte 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8 e 9...

-= 10 =-

Solo per completezza riassumerò i seguenti avvenimenti visto che sono già ben noti al destinatario di queste note.
Nei primi minuti, quando letteralmente mi schiacciai sulla fessura luminosa, a causa dell'eccitazione e della speranza non parlai molto chiaramente. Avevo il terrore che il proprietario della voce non mi sentisse e se ne andasse: per questo parlavo e gridavo senza nemmeno ascoltare ciò che lui, perché di un uomo si trattava, mi diceva.
Lentamente le rassicurazioni della sua voce razionale e tranquilla riuscirono a calmarmi e iniziammo realmente a dialogare.
Il mio interlocutore si chiamava Eugenio Ionescu ed era uno scienziato: aveva sentito parlare dell'edificio e degli strani fenomeni che si diceva vi accadessero. Solo per curiosità, negli ultimi fine settimana, era venuto a indagare personalmente. Lui mi chiese conferma del mio nome e come fossi finito dov'ero: gli dissi il mio nome ma gli spiegai che non sapevo né dove mi trovavo né come ci fossi arrivato...
Il professor Ionescu sembrò rimanere interdetto dalla mia risposta. Quanto fosse freddo ed equilibrato lo si può capire da come reagì: prima mi chiese chi fossero il presidente e il primo ministro in carica quando mi ero perso nell'edificio; poi mi chiese quali canali televisivi fossi solito guardare e cosa sapevo dirgli di un certo fatto di cronaca nera che aveva imperversato per mesi alla TV. Risposi piuttosto perplesso non capendo il perché di queste domande. Solo in seguito mi resi conto che voleva accertarsi della mia identità...
Gli chiesi di farmi uscire, di allargare in qualche maniera la fessura o di buttare giù la parete: lui mi rispose che dalla sua parte non c'era nessuna crepa ma solo una leggerissima nebbiolina grigia in un angolo della stanza. Mi disse di non essere sicuro di dove io mi trovassi ma che, sicuramente, non era un semplice muro a separarci.
Mi assicurò però che avrebbe fatto tutto il possibile per aiutarmi ma che aveva bisogno di ogni dettaglio potessi fornirgli per quanto potesse sembrarmi irrilevante: qualsiasi evento particolare accadutomi nella mia vecchia vita, specialmente nei giorni che precedettero l'ingresso nell'edificio. Non solo: insistette molto sulla storia medica mia e della mia famiglia, su quali malattie avevo avuto e, soprattutto, se facessi uso di psicofarmaci.
Improvvisamente, dopo forse un paio di ore di colloquio, Eugenio, ormai lo chiamavo per nome, mi interruppe e mi disse che doveva assentarsi un momento per prendere una nuova “sfera di memoria” per la macchina che usava per registrare la nostra conversazione e un infinità di altri segnali.
Io avevo una brutta sensazione ma non ero troppo preoccupato: c'era qualcosa nel modo di agire di Eugenio che riusciva molto tranquillizzante. Dava la sensazione di avere sempre tutto sotto controllo e di sapere esattamente cosa fare.
Quando si allontanò la fessura luminosa sparì e fui di nuovo avviluppato dalla gelida nebbia.
Aspettai con il cuore in gola per almeno quindici minuti poi, improvvisamente come era scomparsa, la fenditura riapparve.
Subito protestai amichevolmente col professore dicendogli che mi aveva fatto prendere un brutto spavento stando via così a lungo. Eugenio mi chiese per quanto tempo mi era sembrato di aspettare e, quando gli risposi, mi disse che lui si era assentato per circa 80 secondi.
Io rimasi in silenzio, confuso, ma dopo pochi attimi sentii il professore che mormorava fra sé e sé “ma certo... fattore Tau...”. Poi si rivolse nuovamente a me spiegandomi che, quando lui si assentava, il collegamento che aveva stabilito fra di noi si interrompeva e che “le nostre rispettive dimensioni perdevano la sincronicità”. In pratica i nostri “tempi” passavano a velocità diverse: un minuto dal suo “lato” poteva equivalere a dieci minuti sul mio. Non solo: una volta perduta la “sincronicità” la velocità relativa dei tempi era imprevedibile perché dipendeva dalla proiezione sull'asse del tempo di un vettore di direzione e lunghezza che dipendeva da un fattore quantistico imprevedibile. Il professore accennò anche ad altri dettagli matematici ma, onestamente, non ne capii niente.
Io ero di nuovo preoccupatissimo ma il professore, col suo buon senso, riuscì subito a tranquillizzarmi.
“Non c'è motivo di allarmarsi: dobbiamo semplicemente essere preparati a un imprevisto di questo genere...” mi disse.
Il professore rimase in silenzio alcuni secondi per riflettere sul problema e io ebbi la netta sensazione di sentire il ticchettio degli ingranaggi della sua mente razionale. Quando glielo dissi rise e mi rispose: “È possibile: il collegamento che ho instaurato è biofisico e la mia mente è parte essenziale di esso. Forse, concentrandomi sul nostro piccolo problema, ho involontariamente causato delle interferenze che tu hai percepito come un ticchettio...”.
Poi mi chiese quanto fosse grande la spaccatura nel muro: gli risposi che aveva una forma irregolare, come una crepa, e che complessivamente era lunga circa 30 cm e larga mediamente 3-4 cm.
“Così tanto?!” esclamò sorpreso Eugenio “Allora puoi provare a farci passare qualcosa?”.
Mi dissi che ero uno stupido a non averci pensato: cercai nella tasca uno dei tanti gingilli che col tempo avevo accumulato. Si trattava di una foto in bianco e nero scattata all'esterno dell'edificio: tre baffuti signori in abiti ottocenteschi che con cappello, mantello e bastone da passeggio stavano in posa con lo sguardo accigliato. Ciò che però mi era caro e di gran conforto non erano i tre illustri sconosciuti ma lo sfondo con gli alberi, il cielo nuvoloso e la città lontana: la vista di quegli spazi aperti mi ricordava cos'era la libertà.
Senza esitazioni l'infilai nella spaccatura, inizialmente con un po' di fatica, poi mi fu quasi strappata via: contemporaneamente sentii la voce di Eugenio per la prima e unica volta veramente eccitata: “È arrivata! Sfinte Dumnezeule è arrivata! Una foto antica è apparsa dal nulla e adesso la tengo in mano!”.
Me la descrisse e io gli confermai che era esattamente quella che avevo fatto passare nel varco luminoso.
“Ma allora la soluzione è semplice: se per qualche ragione il collegamento dovesse interrompersi tu cerca dei fogli e scrivi su di essi tutti i particolari della tua permanenza nella dimensione grigia che riesci a ricordare. Anzi, prima scrivi una versione sintetica e solo in seguito aggiungi maggiori dettagli... Io cercherò di ripristinare il collegamento il prima possibile e a quel punto tu potrai far passare gli appunti che avrai scritto attraverso l'apertura Tau-dimensionale”.
Mi sembrò un piano ragionevole e gli assicurai che, se necessario, avrei fatto come lui mi chiedeva.
Parlammo ancora per circa un'ora e mezzo quando il professore mi interruppe bruscamente e mi disse che c'era un inconveniente: il computer stava segnalando un'anomalia critica e il macchinario si sarebbe automaticamente spento in dieci secondi. Riuscì a dirmi che stimava in, al massimo, due-tre giorni il tempo necessario per riparare l'attrezzatura e poi mi salutò.
E qui finisce la prima stesura dei miei ricordi: ho scritto ininterrottamente sul mio quadernone per molte ore senza muovermi da questa stanza. Ecco! Già vedo la luce che ritorna...
Eugenio ti prego salvami!

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