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martedì 20 dicembre 2022

La servitù volontaria

Pochi giorni fa ho iniziato a leggere un nuovo libro: “Discorso della servitù volontaria” di Étienne De La Boétie.
Si tratta di uno di quei libri che trovo citati in ciò che sto leggendo e che, intuisco, possano essere interessanti. In questo caso non ricordo neppure dove l’ho trovato (forse in Rawls?) ma solo di aver letto il nome dell’autore e dell’opera…

Comunque il problema è che io sono ignorante perché in realtà si tratta di un libro conosciutissimo: un qualcosa fuori dal suo tempo e, per questo, a volte interpretato un po’ liberamente dalle generazioni successive per supportare le teorie del momento.

La mia edizione inizia con una lunga introduzione dove si spiega l’origine dell’opera: ne ho letto il primo capitolo ma poi mi sono reso conto che il secondo dava alcuni aspetti del testo per noti e, così, anche per non lasciarmi influenzare, ho deciso di passare direttamente all’opera vera e propria di De La Boétie.

Finora ho scritto che si tratta di un’opera famosa senza spiegarne il perché: beh, il motivo è dato dalla contemporaneità di due fattori.
1. “Discorso della servitù volontaria” fu scritto a metà del XVI secolo, ovvero intorno al 1550!
2. La questione affrontata è come mai la popolazione, contrariamente al proprio interesse, ubbidisce al volere di un singolo tiranno invece di ribellarsi.

E siamo circa 239 anni prima della rivoluzione francese!

Onestamente la spiegazione di quello che all’autore appare un paradosso mi sembra essere piuttosto semplice.
La Boétie considera l’intera popolazione come fosse un’unica persona con un’unica volontà: in realtà sappiamo che non è così.
I problemi sono infatti due:
1- Da una parte la popolazione dovrebbe pensarla allo stesso modo: essere convinta di subire un’ingiustizia e decidere di attivarsi per risolverla.
2- Dovrebbe esserci la capacità di comunicazione in primo luogo per sapere che tutte le altre persone sono concordi. Non basta la consapevolezza teorica che, per logica, dovrebbe essere così: è necessaria la conferma (*1).

Mancando questi due fattori le persone si trovano in una situazione di informazione parziale. Con la logica possono anche essere consapevoli di venire sfruttate e, quindi, di voler cambiare le cose. Nella pratica si ritrovano però con due scelte: agire (pericolosa anche se potenzialmente estremamente proficua) o subire (sicura ma dal profitto minimo).
Ma per il singolo agire è la soluzione migliore SOLO SE tutte le altre persone decidono di fare altrettanto (se infatti la rivoluzione fallisce i rivoluzionari fanno una brutta fine!), in caso contrario gli conviene subire e accettare la propria esistenza grama.

Nel complesso il meccanismo mi pare analogo al dilemma dei due prigionieri e alla tragedia dei “commons”.
Nel primo caso il conflitto è fra due singoli dove l’interesse personale dell’uno va in conflitto con quello dell’altro.
Nel secondo l’interesse del singolo va in conflitto con quello del resto della comunità.

Il testo (sto verificando su “Psicosociologia” di Myers e Twenge a pag. 392!) afferma che i problemi di fondo sono tre:
1. l’errore fondamentale di attribuzione il quale in pratica consiste nel dare la colpa di una situazione al comportamento di una persona piuttosto che alle circostanze. Se ho ben capito questo porterebbe a scarsa fiducia fra le parti coinvolte.
2. la costante evoluzione delle motivazioni delle parti che ne provoca un comportamento incoerente.
3. molte situazioni reali sono equivalenti a giochi a somma non zero. Nelle situazioni dove il profitto del singolo è in contrasto con quello della comunità nascono i problemi. L’ideale sarebbe avere situazioni dove la scelta vantaggiosa per il singolo sia vantaggiosa anche per la comunità.

Ma personalmente rimango dell’opinione che le cause di fondo siano le due che ho precisato io. In particolare la mancanza di comunicazione è decisiva. Non è un caso che nel dilemma dei prigionieri questi non possano comunicare fra di loro. Nella tragedia dei “commons” la comunicazioni fra tutte le parti è semplicemente impossibile.
I punti 2 e 3 del libro di psicosociologia mi sembrano invece equivalere alla possibile diversità di opinioni del mio punto 1.

Conclusione: la mia sensazione (e ancora non ho finito di leggere il testo di De La Boétie) è che il suo fosse effettivamente un esercizio di dialettica e che non avesse fini politici. Ah! mi sono infatti dimenticato di dire che gli studiosi si accapigliano proprio su questa questione!
Secondo me è un esercizio di dialettica proprio perché l’autore mi pare nascondere volutamente gli aspetti che scioglierebbero il paradosso: ovvero che la popolazione non agisce né pensa come una singola persona. Cioè per me è ovvio che i problemi siano i due che ho descritto ma c’è anche la possibilità che ciò non sia immediatamente evidente a tutti. Eppure credo che qualsiasi persona intelligente, e De La Boeté lo era sicuramente, dovrebbe perlomeno notare il problema e, in qualche modo, affrontarlo. Se l’autore non lo fa è perché non vuole e non lo vuole perché, appunto, il suo obiettivo è puramente un esercizio di retorica.

Nota (*1): mi è tornato in mente un vecchio aneddoto di una trentina di anni fa: un amico di mio zio si divertiva a chiedere provocatoriamente come mai quando al semaforo arriva la luce verde tutti non schiacciano il piede contemporaneamente sull’acceleratore e, invece, aspettano di vedere muovere la macchina davanti alla propria dato che così facendo introducono un ritardo cumulativo che rallenta tutti. All’epoca mi sembrò una sciocchezza: è evidente che la ragione è di sicurezza; non sappiamo se chi ci precede è distratto e non ha visto il verde, se la sua macchina ha avuto un problema e non si muove etc.
Ma si vede chiaramente la somiglianza fra questo “problema” e quello enunciato da De La Boétie: anche qui manca la comunicazione fra tutti i partecipanti e la consapevolezza del pensiero altrui...

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