Ieri ho ripreso la bicicletta per la prima volta dopo l’operazione: il dentista non mi aveva detto niente al riguardo (e io mi ero dimenticato di chiedere) ma temevo che il violento contraccolpo di una buca presa troppo rapidamente potesse dare noia ai punti. Così sono stato più prudente del solito e sono andato a esplorare un parco nelle vicinanze. Molto carino e, soprattutto, con poche persone forse anche perché piuttosto fuori mano.
Ne ho approfittato per andare avanti con Hobsbawm nel primo lunghissimo sottocapitolo sul nazionalismo di cui ho già scritto in Il nazionalismo.
È un po’ difficile riprendere il filo dal pezzo precedente perché in “L’età degli imperi” è un unico discorso continuo che io ho arbitrariamente tagliato fino a dove ero arrivato a leggere.
Diciamo che inizialmente Hobsbawm cerca di dare una descrizione di cosa sia/fosse il nazionalismo: un concetto nuovo, che magari riprendeva vecchie teorie, ma che poi sovrapponeva il tutto insieme e lo riempiva di ormoni per la crescita!
Nella pagine lette ieri l’analisi si sposta invece sulle reazioni che il nazionalismo provocò.
Però prima voglio inserire una curiosità: ricordate che nel pezzo precedente spiegavo che anche i vari regnanti, in genere tedeschi, per stare al passo col nazionalismo dei propri paesi dovettero “travestirsi” da gente del posto.
Ma negli USA dove non c’era aristocrazia di sangue? Ebbene il culto della bandiera negli USA nasce nel 1890: non c’è il re ma c’è la bandiera che va riverita e venerata come un sovrano. Chiaramente è un simbolo ben diverso ma il meccanismo unificante è lo stesso (e forse anche più efficace: il singolo monarca, come essere umano, può risvegliare antipatie o critiche mentre la bandiera è un simbolo più puro).
Tornando ai nuovi concetti letti oggi il punto fondamentale è che se il nazionalismo univa insieme la maggioranza delle persone vi era comunque una minoranza che ne veniva allontanata.
Un primo grande insieme di queste minoranze erano le colonie europee: le élite locali, che magari avevano studiato in Europa assimilavano i protomiti del nazionalismo ma, contemporaneamente, si rendevano conto che non avrebbero potuto farne parte di tale nazione in una posizione da pari a pari con i cittadini inglesi, francesi o tedeschi. La conseguenza naturale fu che iniziarono a pensare in termini nazionalistici per il proprio paese di origine: oltretutto lo studio in occidente gli aveva fornito anche il linguaggio e le idee (protomiti) per esprimere le proprie rivendicazioni.
Ovviamente stiamo parlando di processi plurigenerazionali ma intanto il seme era stato piantato.
L’altra grande reazione la si ha negli immigrati: anche qui il meccanismo è simile ma con una differenza sostanziale. L’immigrazione all’epoca era essenzialmente europea: da Europa in Europa o da Europa in America e la maggiore omogeneità etnica permetteva anche la completa assimilazione (*1) per chi lo desiderava. Questo anche perché il cinquantennio che precede la prima guerra mondiale era fortemente xenofobo: vi era una notevole pressione/discriminazione verso gli immigrati.
Ma anche qui l’immigrato entra in contatto con il concetto di nazionalismo e, se non si fa assimilare, decide di applicarlo al proprio gruppo di appartenenza.
Un esempio illuminante: «[…] gli Stati in cui giungevano imponevano loro qualche definizione nuova, catalogando come “italiani”, all’arrivo in USA, individui che fino allora si erano considerati siciliani o napoletani, lucchesi o salernitani.» (*2)
Oppure: «L’accordo destinato a creare uno Stato unitario per cèchi e slovacchi (la Cecoslovacchia) fu firmato dal futuro presidente Masaryk a Pittsburgh, perché la base di massa del nazionalismo slovacco organizzato si trovava in Pennsylvania e non in Slovacchia.» (*3)
Per Hobsbawm un altro fattore che contribuì alla diffusione del nazionalismo fu un altro ideale (protomito/epomito): il “neotradizionalismo”.
È un’ideologia che nasce per reazione (un po’ come il socialismo) al capitalismo, alla modernizzazione e alla diffusione dell’industria e che andò sempre più ad accompagnarsi al nazionalismo.
Da notare che, soprattutto nelle piccole regioni che se indipendenti si sarebbero trasformati in piccoli Stati (per esempio Galles o Fiandra), la grande borghesia industriale non era nazionalista ma, anzi, apprezzava i mercati più vasti e l’immigrazione che forniva manodopera a basso costo.
Oggi non abbiamo forse più una borghesia industriale ma gli obiettivi delle multinazionali sono sempre gli stessi.
Interessante poi le dinamiche indotte dalla tutela delle lingue minoritarie magari prima nelle scuole elementari e successivamente nelle superiori: da una parte favorivano i bilingue nelle occupazioni di media importanza dove la conoscenza di due lingue era un vantaggio ma, contemporaneamente, erano penalizzati nei posti di comando dove contava solo la lingua maggiore.
Nel complesso la protezione della lingua minoritaria portava a identificazione locale e a rappresentanza politica. Per esempio: «I 4,8 milioni di allievi delle scuole primarie e secondarie dell’Austria asburgica del 1912 contenevano ovviamente molti più nazionalisti potenziali e reali dei 2,2 milioni del 1874, per non parlare dei circa centomila insegnanti supplementari che adesso li istruivano nelle varie lingue rivali.» (*4).
Conclusione: e ancora non ho terminato di leggere questo primo sottocapitolo sul nazionalismo! Beh, in verità mi mancano poche pagine a terminarlo e, da questo punto di vista, avrei forse fatto meglio ad aspettare per scriverci sopra un unico pezzo conclusivo. Contemporaneamente però preferisco non accumulare troppo materiale insieme...
Nota (*1): all’epoca considerata una parola senza sfumature negative.
Nota (*2): “L’età degli imperi” di Hobsbawm, (E.) Laterza, 2005, tradotto da Franco Salvatorelli, pag. 178.
Nota (*3): ibidem, pag. 179.
Nota (*4): ibidem, pag. 181-182.
alla prima stazione
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