[E] Per la comprensione completa di questo pezzo è utile la lettura della mia Epitome (V. 0.2.1). In particolare i capitoli: 1, 3, 5, 6 e 7.
Pubblico oggi la seconda parte del pezzo Schiavitù romana (1/2).
Nella precedente puntata ho ripetuto quanto spiegato nel saggio “Lo schiavo”di Yvon Thébert (*1), integrandolo con alcune mie personali riflessioni e teorie. Oggi cercherò di completare la mia panoramica per poi evidenziare l'interessante parallelo storico di cui avevo accennato.
I e II secolo d.C.
Una mia riflessione: l'impero romano raggiunge la sua massima estensione territoriale con Traiano all'inizio del II secolo d.C. ma anche le conquiste del I secolo d.C. non hanno più l'impatto di quelle del secolo precedente. L'estensione dei domani di Roma non aumenta più del 200-300% e oltre ma si tratta di conquiste relativamente piccole rispetto al corpo dell'impero.
Mi pare sia facilmente ipotizzabile (*2) che anche il numero di nuovi schiavi, per loro natura ancora estranei alla società romana e ai suoi protomiti, fosse relativamente piccolo rispetto a quelli già inseriti nel mondo romano.
Perché è chiaro che lo schiavo potenzialmente più ribello è quello che ha conosciuto un'esistenza diversa: chi invece è nato schiavo avrà per natura ([E] 1) pochi problemi ad accettare per unici e immutabili i protomiti ([E] 2) che gli vengono insegnati: solo nel corso di molti anni, e solo coloro con personalità riflessive e autonome, riusciranno a vedere oltre certi protomiti e a immaginarsi nuove possibilità.
Il credere nei protomiti del mondo romano, nel riconoscere il proprio ruolo in tale società, implicano che il gruppo degli schiavi ([E] 3.2) diventa complessivamente sempre più stabile.
Inoltre il processo iniziato nel secolo precedente prende sempre più vigore: sono sempre di più gli schiavi con posizioni importanti e che magari sono riusciti a costruirsi un loro patrimonio.
Addirittura molte persone decidono di divenire volontariamente schiavi per sfruttare alcune possibilità come ottenere mansioni/lavori a essi riservati. Per non parlare dei liberti (gli schiavi liberati) che grazie alla loro esperienza lavorativa riescono a divenire ricchissimi.
E allora i romani si accorgono che “un ricco non può essere veramente schiavo” e le leggi si adeguano a riflettere e legittimare il nuovo assetto della società.
Curiosamente sorge un nuovo problema: distinguere gli schiavi dai liberi: nella società multietnica romana non è più possibile distinguere a colpo d'occhio, vuoi per l'aspetto o per la lingua, uno schiavo da un libero. Inoltre, come detto, anche culturalmente molti schiavi non hanno niente da invidiare ai liberi. Il risultato è che alcuni schiavi fuggitivi riescono senza troppi problemi a fingersi uomini liberi (dopotutto non c'erano foto segnaletiche o carte d'identità!) e c'è chi riuscì pure a fingersi pretore: anzi Ulpiano si chiedeva “se le decisioni prese da un magistrato, che in realtà era uno schiavo fuggitivo, potessero ritenersi valide o no”!
III e IV secolo d.C.
Nel III secolo la differenza fra schiavi e cittadini romani liberi è divenuta poco più che formale: la vera discriminante sociale è la ricchezza, e la legge si affretta ad adeguarsi.
Nel IV secolo, ad esempio, le pene per un certo crimine sono corporali per schiavi e “comuni” cittadini liberi ma si riducono ad ammende pecuniarie per i cittadini facoltosi.
Il saggio spiega però che l'economia propriamente schiavistica, ovvero in cui la schiavitù ha un ruolo predominante, termina già nel II secolo d.C. Non è la fine della schiavitù ma dell'economia schiavistica la cui parabola si compie nell'arco di quattro secoli dal II a.C al II d.C.
Ma cosa determina esattamente la sua fine? L'autore del saggio (da bravo storico serio ed equilibrato) non si sbilancia esplicitamente: a me appare chiaro che nella società romana è nei fatti svanita la differenza reale fra schiavi e cittadini liberi. Nelle epoche passate erano solo gli schiavi a venire sfruttati ma nel II secolo ormai anche i cittadini “liberi” hanno dovuto adeguarsi a condizioni di lavoro e quindi di vita inferiori a quelle delle epoche passate.
Ad esempio nel II secolo d.C. per evitare che i contadini (evidentemente liberi altrimenti il problema non si porrebbe) abbandonino le campagne viene istituita la legge del colonato che, in pratica, lega i contadini alle terre che coltivano. Da un punto di vista filosofico questi contadini vi sembrano ancora liberi? A me ricordano molto i servi della gleba delle epoche successive...
Mi pare chiaro che la forza dei protomiti che reggono insieme il mondo romano deve essersi grandemente indebolita. Da una parte i protomiti “ufficiali” del tempo esaltano ancora la grandezza della civiltà romana ma ormai la giustizia l'ha completamente abbandonata. Il patto sociale che dovrebbe legare insieme i cittadini dell'impero è ormai troppo iniquo e la popolazione non ha più interesse a difenderlo né crede veramente in esso.
Non è un caso (v. la seconda parte di Promettente (1/2)) che molti cittadini romani abbandonino l'impero per rifugiarsi dai goti o altri barbari ribelli perché «preferiscono vivere liberi sotto apparenza di prigionia che prigionieri sotto apparenza di libertà».
Personalmente ritengo che non debba essere troppo lontano dal vero il ritenere che la fine dell'impero romano fu dovuta alla miope ingordigia dei parapoteri del tempo che si crearono un mondo a loro uso e consumo ma che alla fine crollò sotto il peso della sua stessa ingiustizia.
E la mia “famosa” analogia?
Proviamo a ripercorrere brevemente gli elementi essenziali descritti in questo pezzo.
1. un evento critico, la seconda guerra punica, crea uno scompenso nella società romana che rompe l'equilibrio fra poteri deboli (la maggioranza della popolazione) e parapoteri (l'aristocrazia senatoria).
2. i poteri deboli si indeboliscono sempre di più: in parte grazie alla "concorrenza" della schiavitù, prima si impoveriscono economicamente e poi viene erosa anche la loro libertà.
3. i parapoteri divengono ancora più forti: anche grazie a leggi ad hoc (vedi ad esempio il colonato), si spartiscono gran parte delle ricchezze provenienti dall'imperialismo romano e, più lentamente, erodono anche quella dei cittadini che se non nel nome, ma nei fatti, diventano schiavi.
4. l'impero romano crolla per la sua iniquità: sconfitto l'esercito il popolo comune non prende le armi per difendere protomiti ai quali non crede più.
E confrontiamoli con i seguenti:
1. un evento critico, la globalizzazione, crea uno scompenso nella società occidentale che rompe l'equilibrio fra poteri deboli (la maggioranza della popolazione) e parapoteri economici (multinazionali, grandi banche).
2. i poteri deboli si indeboliscono sempre di più: in parte grazie alla "concorrenza" degli immigrati, prima si impoveriscono economicamente e poi viene erosa anche la loro libertà.
3. i parapoteri economici divengono ancora più forti: grazie alla loro influenza preponderante sui governi “democratici”, anche con leggi ad hoc (vedi i trattati commerciali internazionali che sottraggono sovranità alle diverse popolazioni coinvolte), si spartiscono gran parte delle ricchezze provenienti dall'imperialismo commerciale e, più lentamente, erodono anche quella dei cittadini dei paesi democratici occidentali che se non nel nome, ma nei fatti, diventano schiavi.
4. ancora la “civiltà occidentale” non è crollata sotto il peso della propria iniquità (che alla fine porterà al crollo dei protomiti che la tengono insieme) ma l'evoluzione del mondo moderno è enormemente più rapida che in passato: secondo me non si tratterà di secoli ma di poche generazioni, diciamo 50 anni al massimo.
Cosa avremo poi? Probabilmente un nuovo medioevo: dove la scienza e la cultura non si ottenebreranno ma però, invece di liberare l'uomo, lo opprimeranno sempre più; contemporaneamente le differenze di diritti e libertà in base al censo (ovviamente avremo pochissimi uomini ricchissimi in un mondo di poveri) sarà sancita dalle leggi.
Conclusione: spero di sbagliarmi ma almeno, se invece avrò ragione, non sarò più qui per potermene “vantarmene”...
Nota (*1): che fa parte della raccolta «L'uomo romano» a cura di Andrea Giardina, Editori Laterza, 1993.
Nota (*2): non sono uno storico e quindi posso permettermi teorie basate solo sulla mia intuizione!
alla prima stazione
1 ora fa
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