Lo scorso fine settimana, dopo mesi e mesi, mi sono deciso ad andare a trovare gli zii che abitano al mare. Avrei dovuto farlo da tempo ma, anche se non dico bau bau, sono un cane.
È che mio zio è malato di Alzheimer (o comunque qualcosa di simile) e, ormai da un paio di anni, la malattia è evidente: e io quando c'è una malattia grave di questo tipo (o, con altri parenti, vari tumori) mi nebulizzo.
Lo so che la mia visita farebbe comunque piacere, in questo caso specifico se non allo zio almeno alla zia, ma non sopporto la sensazione di impotenza che provo.
Non so, magari un po' è anche colpa dei mie genitori che non mi fecero vedere i nonni quando erano ammalati affinché mantenessi “un bel ricordo” di loro. Ma certo molto è colpa del mio carattere.
Insomma mi è più facile dare buoni suggerimenti di vita ai miei lettori che seguirli per me stesso. Sembra un concetto di De André, solo detto meno poeticamente...
Che poi quando sono lì, nonostante il dolore per la malattia delle persone care, mi trovo bene, sono felice di esserci e, magari, di riuscire a portare qualche sorriso. Però è la sensazione che ho prima quella che mi blocca...
Anche stavolta è andata così: ho passato diverse ore con lo zio, compresa un'escursione a piedi nei paraggi quando lui si era messo in testa di dover consegnare “qualcosa” a “qualcuno” per “qualche motivo”. È triste pensare che lo zio aveva due lauree (prese negli anni '50, quando queste non erano così comuni) e che adesso invece non riesce a fare un discorso coerente di cinque parole: anche nelle proprie allucinazioni si confondeva e ne mischiava insieme due o più. Come se fosse in un sogno e stesse cercando di ricordare qualcosa venendo però continuamente distratto e rapito da altri pensieri, parole e memorie di sogni passati.
Eppure ho goduto comunque della compagnia dello zio: svanita la sua cultura (anche se qualche citazione in latino o francese ogni tanto la “sparava” lo stesso) è rimasta la sua natura più profonda che è quella di una persona buona. E questa bontà comunque la si percepisce ancora anche se non saprei neppure dire come: forse non più dalle sue parole ma la si può scorgere nei suoi sguardi e nei suoi gesti.
Spero di non essere troppo melenso ma quello che scrivo è la verità o, comunque, sono le sensazioni che ho provato. Forse ha ragione Aristotele quando insiste sull'importanza delle buone abitudini che formano il carattere di una persona il quale, a differenze delle nozioni che si studiano sui libri, sopravvive anche a una cattiva vecchiaia: ecco, questa positività del suo carattere, è ancora percepibile.
Ad esempio nel suo delirio mi spiegava che doveva portare dei “documenti” a un ufficio, perché ormai aveva preso un appuntamento; si preoccupava poi di dire alla badante che, se passavano “loro” di dirgli che... Insomma gli elementi fondamentali che emergevano in questa specie di allucinazione erano il suo rispetto per le regole, il voler fare qualcosa perché deve essere fatta e il cercare di preoccuparsi per gli altri.
Ho la sensazione che altri malati, con personalità diverse dalla sua, possano avere deliri molto più cupi e basati su temi più gretti.
Non sono sicuro che mi abbia riconosciuto o che, comunque, ne fosse sempre consapevole: un paio di volte, pur senza dirmi niente, mi è parso che mi squadrasse come se cercasse di ricordare chi fossi e cosa facessi lì. Ma in generale era però evidente che doveva percepire che ero una persona che gli voleva bene e a cui lui voleva bene. L'ascoltavo con pazienza e lui sorrideva raccontandomi delle storie che, come tutte quelle più belle, raramente avevano un inizio e una fine...
Conclusione: dovete poi sapere che io odio essere chiamato in pubblico col mio nome però, le due o tre volte che l'ha fatto lo zio, mi sono sentito gonfiare d'orgoglio e di felicità!
Modificato 22/5/17: ho deciso di aggiungere una "vecchia" foto dello zio. Ho scelto la seguente perché mi pare appropriatamente malinconica...
alla prima stazione
1 ora fa
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