È da gennaio che non scrivo di Rawls: vari problemi e il fatto che è il libro più complesso, e che quindi necessità di maggiore attenzione, ne hanno raffrenato la lettura.
Comunque, nonostante oggi debba riassumere ben tre sottocapitoli, sono ottimista e non credo che mi verrà un pezzo troppo complicato e impegnativo (non mi sentirei io di farcela).
Infatti ricordo che il sottocapitolo 16 era su una questione “procedurale” teorica non troppo interessante e intuitivamente ovvia. Il tutto si riduceva ad affermare che considerare la “posizione sociale rilevante” di ogni gruppo sociale aveva senso.
Io per primo nella mia Epitome tendo a considerare i gruppi quasi come singoli individui pur rimanendo consapevole che non lo sono ([E] 3.7).
Ah! poi c’era la questione di come determinare quale sia il gruppo sociale meno favorito: beh, si fa a occhio. Anche se si sbaglia non sarà di troppo...
Il sottocapitolo 18 invece l’ho appena letto e, a parte un paio di paragrafi che non ho capito, mi è parso piuttosto semplice: ma di questo parlerò in seguito.
Concentriamoci invece sul sottocapitolo 17: “La tendenza all’eguaglianza”
Il sottocapitolo inizia con una precisazione che non trovo molto interessante: in pratica si afferma che il principio di differenza è affine al principio di riparazione. Dove il principio di riparazione afferma che le diseguaglianze immeritate richiedono, appunto, una riparazione. Come esempi si considerano le ineguaglianze di nascita e di doti naturali.
Ora se anche le doti naturali sono considerate diseguaglianze immeritate allora quali sarebbero quelle meritate? Cioè chi vince alla lotteria, alla quale tutti possono partecipare, acquista quindi una diseguaglianza (ricchezza) meritata? Chi invece grazie alla propria intelligenza fa delle scelte giuste (magari anche rischiose) e acquista diseguaglianza (si arricchisce) è immeritata?
Insomma la mia obiezione è la solita: cercare di annullare queste differenze umane porta, forse, a un’equità ma disumanizzante.
Perché io (non Rawls) sono favorevole ad annullare le differenze di nascita ma non quelle dovute alle diverse doti naturali? Dopotutto non si tratta solo di sorte in entrambi i casi?
Certo, in entrambi i casi si tratta di sorte, ma nella differenza di nascita la diseguaglianza è esterna all’uomo (per esempio una famiglia ricca o povera) nel caso della differenza di dote naturali la differenza è invece interna all’uomo: cercare di annullarla implica un intervenire nell’uomo e non al suo esterno: una deformazione quindi della natura umana.
Che poi lo afferma anche Rawls questo concetto: «Non c’è dubbio che i più avvantaggiati abbiano diritto alle loro caratteristiche naturali, come del resto ogni altro; questo diritto è tutelato dal primo principio di giustizia come conseguenza della libertà fondamentale che protegge l’integrità della persona.» (*1)
Non so: forse alla fine è un problema di linguaggio. Io non digerisco il parlare di compensazione in caso di diversità di doti naturali. Ma subito dopo la frase riportata qui sopra Rawls spiega che i più dotati hanno diritto a tutto ciò che possono ottenere con le loro capacità purché rimanendo nell’ambito di “un sistema equo di cooperazione sociale”. E su questo posso anche essere d’accordo ma qui si tratta di qualcosa di ben diverso da una “compensazione”.
Viene poi introdotto il principio di fraternità (l’aiutarsi l’un l’altro come se si fosse una grande famiglia) e anche in questo caso, secondo Rawls, il principio di differenza si sovrappone a esso.
Bo, nel senso generico inteso da Rawls è ovviamente vero: migliorare le condizioni di chi sta peggio, a causa dell’effetto catena, ottiene lo stesso risultato (più o meno) del principio di fraternità.
Il sottocapitolo 18 (“Principi per individui: il principio di equità”) è semplice perché alla fine illustra solo come ha intenzione di procedere Rawls nelle sue argomentazioni.
Digressione: l’ho già notato in altre parti dell’opera: Rawls non si accontenta di dimostrare la bontà delle sue conclusioni (come farei io) ma vuole dimostrare che il processo che porta a esse è il più corretto possibile (qualcosa di analogo alla “giustizia procedurale pura” vista in Sottocapitoli 13, 14 e 15) perché se riesce a dimostrarlo allora dimostra anche che la sua conclusione non solo è buona (od ottima) ma anche che non sono possibili soluzioni migliori.
Questo modo di procedere mi lascia freddo: mi ricorda un po’ Aristotele: grandi catene di proposizioni consequenziali ma basta che ne salti una e poi non torna tutto il resto. Lo stesso vale per il metodo di Rawls: dimostrare che una procedura è perfetta è a mio avviso praticamente impossibile e, se qualcosa non torna in essa, allora non si ha più la certezza che soluzione trovata sia la migliore possibile, anzi a rigore non si può dire niente al riguardo.
Un paio di curiosità: in uno schema (pag. 118) mostra che le dimensioni dei “sistemi sociali e istituzioni” sono “giustizia” ed “efficienza”. Beh, nella mia Epitome ([E] 17.1) anche io definisco l’essenza di una istituzione democratica esattamente con “efficienza” e “giustizia” (*2).
Nella pagina seguente (pag. 119), per definire l’essenza dell’assetto delle istituzioni eque, Rawls parla di “schema di base”. Di nuovo anch’io nella mia Epitome, per definire l’essenza del mio modello democratico ho un sottocapitolo intitolato “Sintesi: schema di base per una nuova democrazia” ([E] 17.5) (e nelle versioni precedenti era semplicemente chiamato "Schema di base").
Coincidenze forse banali ma che io trovo affascinanti e che mi danno la sensazione di essere in grande sintonia con Rawls nel modo di pensare…
Infine vi è un breve accenno a un tema che ultimamente mi interessa molto: quando si ha il dovere di obbedire alla istituzioni sociali? Secondo alcuni filosofi, Rawls cita per esempio Locke, sempre e comunque.
Rawls però non la pensa così: l’individuo deve obbedire ai comandi di una istituzione quando: «primo l’istituzione è giusta (o equa), e cioè soddisfa i due principi di giustizia; e, secondo, le persone hanno accettato volontariamente i benefici dell’accordo [...]» (*3)
Il secondo punto è ovvio: se volontariamente sfrutto i vantaggi che mi fornisce un’istituzione allora devo anche adeguarmi alle sue regole.
Sul primo punto ritorna poi aggiungendo: «A causa del principio di equità non è possibile rimanere vincolati a istituzioni ingiuste, o quantomeno a istituzioni che oltrepassano i limiti dell’ingiustizia tollerabile (che non abbiamo ancora definito). In particolare, non è possibile avere obblighi nei confronti di forme di governo autocratiche o arbitrarie. » (*3)
Su questo punto ho delle mie idee ma siccome Rawls non si dilunga troppo non provo neppure a fornire qui la mia interpretazione.
Conclusione: un libro difficile a causa della sua struttura “Top-down” che rimanda le definizioni di aspetti concreti della teoria al prosieguo del testo lasciandomi quindi con dubbi che non riesco a chiarirmi immediatamente. Però è anche un libro “importante”: nel senso che ti dà vagonate di materiale su cui riflettere...
Nota (*1): tratto da “Una teoria della giustizia” di John Rawls, (E.) Feltrinelli, 2021, trad. Ugo Santini, pag. 113.
Nota (*2): dalla versione 1.8.0 vi affianco anche la “possibilità di felicità”…
Nota (*3): ibidem, pag 120.
alla prima stazione
1 ora fa
Nessun commento:
Posta un commento