Oggi ho preso coraggio e ho iniziato a studiare la prima lettura su Kant del corso di filosofia della morale/giustizia. Si tratta di un breve saggio in inglese intitolato “Fondamenti della metafisica della morale” del 1785: normalmente non ho problemi a leggere testi in inglese ma in questo caso sto facendo molta fatica. In filosofia ogni singola parola può essere importante e per questo devo leggere con estrema attenzione e spesso più volte. In un'ora e mezzo ho letto solo il 16% circa del testo...
Per questo motivo ho deciso di comprarlo in italiano: a differenza di Locke, mi trovo d'accordo sui principi base di Kant anche se, come vedremo, iniziamo già ad avere qualche divergenza. Comunque un testo interessante: non mi dispiacerà leggerlo... se in italiano!
Kant afferma che la buona volontà ha valore in quanto tale: essa è buona in se stessa, non per le azioni che compie o per i fini che raggiunge. E qui mi trovo d'accordo: io dico che si compie il bene per amore del bene (*1). La morale si giustifica e legittima in se stessa: la sua bontà è intrinseca.
Invece Kant (sempre che io abbia capito bene: era un passaggio piuttosto complicato!) cerca di dimostrare il valore della buona volontà con il ragionamento che copio qui di seguito dai miei appunti.
Che il valore della buona volontà risieda esclusivamente in se stesso può sembrare assurdo. Potrebbe quindi darsi che lo scopo della nostra razionalità (piuttosto che perseguire e mettere in atto la buona volontà) sia un altro? Da questo punto di vista la natura dota le creature delle qualità più adatte per sopravvivere e, nell'uomo, per essere felice. Osserviamo però che quando usiamo la ragione nel tentativo di essere felici difficilmente raggiungiamo il nostro scopo: sembra anzi che proprio chi è meno razionale (chi si affida agli istinti) sia più spesso felice. Se ne deve concludere che il fine per cui la natura ci ha dato la razionalità non è quello di perseguire la felicità. Il vero scopo della ragione dovrà essere quindi quello di forgiare una volontà, buona in se stessa: questa è il motivo per cui abbiamo la ragione visto che per questo scopo gli istinti non sarebbero sufficienti: la volontà generata dalla ragione mirerà quindi al bene supremo, fonte dello stesso desiderio di felicità e anzi sua precondizione. In questo sta quindi il merito della ragione: nel perseguire il bene più alto anche se, talvolta, ci allontana dalla felicità materiale. La ragione riconosce quindi che il proprio motivo di essere è quello di definire la buona volontà attraverso il perseguimento della quale otterremo una soddisfazione che va al di là dei reali obiettivi conseguiti. Questa è una verità insita in ogni persona e che quindi va semplicemente chiarita piuttosto che insegnata.
Che dire? Mentre lo leggevo mi sembrava più chiaro!
Kant identifica la ragione con la buona volontà nel senso che ideare e portare a compimento la propria buona volontà è il vero compito naturale della ragione.
Comunque nel suo ragionamento vedo due errori. Il primo è nella premessa: la natura non ci ha creato per essere felici ma per sopravvivere. Ma L'origine della specie (1859) di Darwin è di circa 80 anni successivo...
Il secondo errore è nella logica con cui deriva la sua conclusione: pur ammettendo che la natura non ci abbia munito della ragione per raggiungere la felicità perché concluderne che allora quest'ultima serva a stabilire la propria buona volontà? Già Aristotele analizzò la differenza fra contrario e contraddittorio: dimostrando che la ragione non serve a raggiungere la felicità ne possiamo solo concludere il suo contraddittorio, ovvero che la ragione serve a raggiungere qualcosa di diverso dalla felicità. Niente però ci autorizza a concludere che questo “qualcosa di diverso dalla felicità” debba essere la buona volontà o morale...
Ma, come spiegato, sto facendo molta fatica a leggere Kant in inglese: mi riservo di riguardare tutta questa parte in italiano: forse riuscirò a cogliere qualche particolare che mi sfugge e che renda tutto più comprensibile.
Questa “dimostrazione”di Kant mi ha però ricordato una mia dimostrazione della non esistenza di Dio che formulai ai tempi del liceo (*2).
In breve: se Dio esiste e ci ha creato allora ci ha dato anche la ragione: eppure utilizzando la sola ragione non si può arrivare a credere in Dio e, anzi, per farlo è necessaria la fede. Ma questo è assurdo perché allora ci avrebbe dotato di una facoltà, la ragione, che però non dovremmo usare. Ci avrebbe creato razionali chiedendoci però di non essere tali...
La similitudine con il ragionamento di Kant è evidente: la sola esistenza e funzione della ragione provoca una contraddizione. La differenza è che la mia conclusione tratta da questo assurdo correttamente porta a negare la premessa ovvero che “Dio non esiste e/o non ci ha creato”...
Riflettevo poi che Kant mi piace perché è estremamente logico e preciso nell'esposizione delle sue idee. L'unica difficoltà che ho incontrato è che espone tutte le sue idee in maniera lineare mentre io mi troverei molto meglio se prima facesse una panoramica sintetica di ciò che intende esporre.
Nei miei pezzi più complessi io scrivo sempre in questa maniera: prima faccio un breve sunto, magari con dei punti numerati, e poi scendo nei particolari. Questa maniera di procedere aiuta a collocare e contestualizzare correttamente le informazioni che si trovano.
Ho quindi pensato che quello, pur con le difficoltà che porta al lettore, doveva essere lo “stile” dell'epoca...
Mi è quindi tornato in mente un'idea che avevo avuto da bambino, all'epoca delle elementari. Un giorno decisi che le difficoltà a esprimermi e farmi capire fossero dovute al fatto che le mie riflessioni più profonde non erano verbali e quindi, a tradurle con parole, mi scontravo con l'inadeguatezza espressiva dell'italiano. Iniziai così a pensare nuove parole per definire meglio ciò che mi passava per la mente. Pensai che spesso un effetto è provocato da più cause e arrivai alla conclusione che avrei dovuto inventare un nuovo tipo di “e” per legarle insieme e far capire subito e chiaramente che l'unione di questi termini connessi insieme dal nuovo “e”, e non singolarmente, erano la causa dell'effetto. Poi però non ne feci di niente...
Ma già allora si intravedeva la mia maniera di comunicare: in pratica avrei voluto esplicitare il contenuto parallello di un messaggio (la somma delle cause) con un nuovo termine da inserire nella sua esposizione lineare.
Conclusione: forse la parte di questo pezzo su Kant e la metafisica della morale non è molto interessante (visti anche i miei dubbi sulla reale comprensione del passaggio indicato) ma almeno l'“altro” del titolo, ovvero questi miei due vecchi aneddoti, è rivelatore della mia bizzarra maniera di pensare...
Nota (*1): in realtà credo che questa definizione sia di un filosofo antico o forse di San Tommaso o magari Sant'Agostino. Uno dei pochi ricordi della filosofia studiata al liceo: però ormai la considero mia!
Nota (*2): ricordo che fu durante il tragitto in autobus dal liceo alla palestra...
L'esempio di Benjamin Franklin
9 ore fa
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