7. Toccata e fuga
Ho paura e tremo. Sono ancora in piedi, con la donna bionda riversa accanto a me. Non so se sia viva o morta: non ho il coraggio di controllare. Sono paralizzato. Barbara se ne accorge e viene da me. Con la mano delicata mi cinge il collo con forza e mi fa piegare la testa su di lei. «Guardami!» mi dice, e mentre la vedo sento i miei timori nascondersi dietro il suo viso. Ho paura però di distogliere lo sguardo dai suoi occhi: tremo all'idea di rivedere i corpi insanguinati nella stanza. Barbara mi scruta con occhi languidi e si strofina su di me. Mi afferra una mano rigida e con essa si accarezza gli angoli più intimi del suo corpo. «Non mi vuoi? Non mi desideri più?» mi chiede con voce languida e tentatrice. Vedo solo lei: c'è solo lei! Le dita della mia mano si rianimano: ora sono io che la guido sul suo corpo e la palpo, la stringo forte attraverso il vestito e ne apprezzo la morbida consistenza: a ogni tocco lei sussulta e le sue labbra umide si lasciano sfuggire dei sospiri strozzati. Una febbre montante si irradia dai miei lombi e mi spinge a volere ancora di più: lei è così calda, così inebriante che mi sembra di scoppiare. Non è questo il momento ma non me ne importa. È Barbara che mi riporta all'ordine «Bevi, ti darà coraggio...» mi dice. Guardo sorpreso il bicchierino di whisky che mi è spuntato in mano. «Presto!» la sua voce è un nettare e io non resisto alla sua dolcezza. Lo ingoio tutto in un sorso. Non sono abituato agli alcoolici: il liquido mi scende giù bruciandomi la gola e nello stomaco sento ribollire l'inferno: apro la bocca e sputo fiamme... Il mondo assume una sfumatura rossastra che pervade e prevale su ogni colore. «Non c'è più tempo dobbiamo andare!» sussurra al mio orecchio desideroso.
Barbara mi fa strada tenendomi per la mano. Vedo una porta aperta: quando ci passiamo davanti vengo investito da un gelido soffio d'aria blu. Mi fermo e guardo oltre la soglia: dà sulla cameretta di un bambino. È tutta in ordine, perfettamente immacolata. Strano: sento una grande tristezza, capisco che nessuna risata di fanciullo scalda quelle pareti. Mi sento tirare per il braccio ma non mi muovo. Barbara si gira verso di me e dice «è morto due mesi fa...». Riesco solo a dire «Come...?» mentre la tristezza mi gela il cuore. «È giusto così» dice Barbara dolcemente «ma ora vieni dobbiamo andare...». Annuisco con gli occhi pieni di lacrime.
Finalmente siamo fuori ma non sulla strada principale: siamo nel giardino sul retro. «Qualche vicino deve aver dato l'allarme: ci stanno cercando...» mi ammonisce Barbara. E io so che si riferisce ai diavoli usciti dall'inferno per punire il mio crimine: ne odo già i distanti latrati acuti che si avvicinano rapidamente. L'alcool mi ha dato la forza di muovermi ma ha anche offuscato i miei sensi: solo grazie a un preciso sforzo di volontà seguo Barbara. Oltretutto i folletti e gli gnomi che tornano a sbucare dai loro nascondigli non mi aiutano. So che non mi possono fare del male ma mi distraggono con le loro piroette e i loro sberleffi. Barbara conosce benissimo la zona. Ogni singolo giardino. Sa dove scavalcare le staccionate più facilmente e non perde mai, nemmeno per un attimo, l'orientamento. Mi ha detto che vuole passare dall'ospedale per farmi mettere dei punti alla testa. Le dico che non è nulla ma lei mi guarda preoccupata e io subito non posso che cederle.
Corriamo al riparo di una siepe d'alloro che costeggia una stradina laterale. Improvvisamente Barbara mi fa cenno di fermarmi e di rimanere immobile: poco dopo anch'io sento giungere un demone aldilà della siepe, lungo la strada. Non lo posso vedere direttamente ma osservo le lunghe ombre generate dalle sue fiamme azzurre. Anzi devono essere in due: uno ha una voce che pare lo squittio di un topolino e di tanto in tanto lancia strani fischiettii; l'altro invece parla ma sembra ringhiare: pur senza vederlo ne immagino le fauci feroci irte di zanne e colanti bava velenosa. Una gattina bianca a toppe nere fa capolino da dietro un cespuglio: mi guarda inclinando la testa graziosa e inizia a miagolare a perdifiato «Yes, I cat! Yes I cat! Yes I cat!...». Sorpreso, la studio attentamente: ma i suoi occhi sono specchi dorati che riflettono ogni mio tentativo di leggerne le intenzioni. Rimango col dubbio se mi stia prendendo in giro o se conosca poco l'inglese. Anche i demoni alle nostre spalle l'hanno sentita: non si avvicinano oltre e, dopo poco, si allontanano rapidi lanciando il loro lugubre ululato. Vorrei dare una carezza di ringraziamento alla gattina ma questa è già scappata a inseguire un brutto e minuscolo gnomo peloso.
Sono stanchissimo e senza fiato: la testa inizia a farmi male. Se chiudo gli occhi la terra ruota così rapidamente da darmi la nausea. Guardo Barbara: è sempre un passo avanti a me e non sembra minimamente affaticata. Mi sento debole e inutile: forse dovrei dirle di scappare via da sola e di lasciarmi al mio destino? Proprio in quel momento arriviamo a un muro alto un paio di metri: lei si gira verso di me e mi chiede aiuto «Per favore aiutami a scavalcarlo!». Io mi sento di nuovo grande e forte. Gioisco dell'opportunità di salvare Barbara dal pericolo: anche se in questo caso è solo un muretto un po' troppo alto. La prendo per i fianchi e la sollevo senza difficoltà fino in cima. Mi stupisco a pensare quanto sia forte eppure leggera. La mia mente divaga: mentre scavalco a mia volta il muro, mi chiedo cosa sia contemporaneamente forte e leggero. «La vendetta...» risponde subito Barbara. Devo aver pensato a voce alta. «...è leggera per oltrepassare ogni ostacolo e arrivare lontano, forte per resistere al tempo e per colpire duramente». E io allora penso che Barbara è vendetta: lei mi sente e mi sorride.
Siamo ormai all'ospedale: dai bagliori azzurri capisco che i demoni sono all'ingresso principale. Guardo preoccupato Barbara. E ora? Lei sorride e scrollando le spalle mi dice «Non è un problema: conosco un'entrata sul retro...»
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