E così, finalmente, ieri sera ho fatto la cena, anzi l'aperitivo, con gli ex compagni di classe delle elementari!
Dopo due cene con gli ex compagni del liceo pensavo di essere preparato ma in realtà c'è molto differenza fra i bambini delle elementari e i ragazzi delle superiori: nei ragazzi puoi già intravedere l'adulto ma nei bambini, al più, ne puoi intuire solo alcune caratteristiche.
Questo per dire che è stata più un'esperienza puramente emotiva che di confronto intellettuale fra le nostre reciproche aspettative: l'incontro si è basato molto sul riconoscersi, sul sorprendersi e nell'abituarsi alle nuove facce sovrapponendole alle vecchie. Io poi i miei due amici delle elementari, con i quali avevo maggiori ricordi da spartire ed esperienze condivise, li avevo già incontrati in questi anni mentre, della maggioranza degli altri bambini, ricordavo solo una manciata di episodi a testa...
E poi, lo sapete (v.
KGB le origine: l'asociale) sono piuttosto asociale, e l'ambiente non era di quelli che più mi mettono a mio agio: era un po' troppo rumoroso per i miei orecchi, eravamo un po' stretti e, soprattutto, non c'erano nascondigli nei quali celarmi.... fortunatamente il cibo era parecchio buono!
Comunque, nonostante l'aurea gelida che portavo con me, la serata è stata piacevole: il mio amico chitarrista si è dimostrato un vero animale sociale completamente a suo agio come se avesse visto tutti appena il giorno prima! Il suo scherzare intelligente ha subito sciolto la tensione tranquillizzando tutti (a parte gli asociali, cioè io). Poi, pian pianino, una pattuglia composta dalle bambine/donne più affabili ha iniziato a formare vari gruppetti di conversazione e l'atmosfera si è fatta sinceramente allegra. Ah, perché poi c'era una bambina/donna che non faceva che ridere e, come nelle
situation comedy americane, le sue risate di sottofondo hanno provocato consenso ed emulazione: io le ho perfino visto battere una zuccata contro uno scaffale (piuttosto forte perché nonostante la confusione ho sentito il rumore da diversi metri di distanza) e lei ha continuato a ridere ancora più forte di prima: quella che si dice una donna dalla dura cervice!
Io però ho evitato i capannelli e ho scambiato qualche parola con chi era solo: una bambina dagli occhi sognanti e ipnotici è divenuta una donna dagli occhi sognanti e ipnotici, oltretutto dotata di una voce suadente, che mi ha messo subito a mio agio...
E poi c'era un bimbo/uomo, forse la sorpresa che mi ha colpito più favorevolmente, che era il rampollo di una famiglia di medici e già da piccolino sembrava un piccolo dottore che da grande, ovviamente, è divenuto... un fotografo! Anche se in realtà ha mantenuto comunque l'aria di un dottore... secondo me si potrebbe spacciare facilmente per pediatra!
Parte solo per chitarristi:
Invece il momento più spiacevole è stato quando ho provato a fare una domanda all'amico chitarrista: lui si è arrabbiato e, urlandomi “No ca##o!! Io non parlo mai di chitarra!! Ca##o”, ha fracassato un tavolino e mandato in frantumi diversi bicchieri...
Allora, per sciogliere la tensione, gli ho spiegato che per suonare bene la chitarra non bisogna indossare golf di lana (v. il corto
Chitarra e maglia di lana) perché essa altrimenti scivola via dalle braccia come se fosse un bimbo isterico: non sono sicuro che conoscesse questo trucchetto ma ha rivoltato la frittata dicendomi che, come chitarrista
metal, dovrei suonare in piedi e non seduto. Poi mi ha spiegato che il suo avvicinarsi alla chitarra non è passato dall'onesto viale dell'
heavy metal ma dall'equivoco vicolo del
blues prima e
jazz poi (o viceversa!) che, oltretutto, sono generi tipicamente neri mentre il
metal è quasi esclusivamente bianco. Io però gli ho risposto che non è vero e che, anzi, il
black metal mi piace molto: e qui è rimasto un po' interdetto... una volta tanto ho avuto io l'ultima battuta (← “battuta” capito? Ah! Ah!) su di lui!
Fine parte solo per chitarristi...
Ci sarebbero tante altre persone di cui parlare perché i ricordi, soprattutto se dolci, sono come le ciliege e quando si inizia a rammentarli è difficile smettere: però non voglio scrivere un pezzo troppo lungo e quindi mi ricollego al tema del titolo: le preoccupazioni paterne.
Fra i maschietti c'era un bimbo/uomo divenuto poi ingegnere: però non l'ingegnere-chitarrista, il tipico lettore del mio viario, ma un ingegnere di quelli seri e squadrati, che anche per parlare sembrano basarsi su accurati progetti disegnati nella mente...
Da piccoli non ci siamo frequentati molto e io lo ricordo alto e con i capelli alla paggetto, un alunno modello, diligente e attento: non mi sono quindi stupito quando l'ho sentito parlare dell'impegno e della dedizione che mette sul lavoro...
Durante la serata di ieri l'ho incrociato tre volte: la prima molto di sfuggita l'ho ascoltato per pochi secondi. Raccontava un piccolo aneddoto con protagonista il figlio che si dimostrava molto intelligente e precoce: io però avevo fame e mi sono diretto al tavolo degli stuzzichini perdendo quindi il resto della storia.
La seconda volta invece l'ho incontrato mentre era al banco del bar a parlare col mio amico chitarrista (*1). L'ingegnere stava spiegando di cercare di motivare il figlio a scegliersi, o almeno immaginarsi, una strada, una passione per il futuro. L'ingegnere spiegava infatti che nella vita, se non si ama veramente ciò che si fa, difficilmente si riescono a superare le inevitabili difficoltà. Il mio amico dava sfoggio della capacità, tipica dei grandi chitarristi, di suonare a orecchio basandosi sull'accompagnamento: diceva sì solo ciò che realmente pensava ma lo faceva con un contrappunto melodioso, aggiungendo le giuste note e precise battute agli argomenti dell'ingegnere. Parlavano insieme ma il mio amico pareva accompagnarlo con la chitarra!
La terza volta infine l'ho approcciato io: avevo preso in simpatia le vicissitudini del figlio continuamente stimolato e pungolato a preoccuparsi del proprio futuro che, nella logica paterna, già a 11 anni avrebbe dovuto iniziare a progettare. Gli ho quindi detto di andarci cauto, di non suggerirgli le proprie aspettative che, altrimenti, avrebbero potuto condizionarlo fortemente; gli ho quindi suggerito di farlo confrontare sul tema non direttamente ma, magari, coinvolgendo i suoi amici. L'ingegnere mi ha spiegato che, nonostante i suoi sforzi, il figlio rimaneva comunque indeciso e senza vere passioni tranne quella per il calcio: sport però non ben visto dal padre perché considerato contaminato da valori dubbi. Invece di farlo giocare a pallone aveva infatti deciso di mandarlo a scuola di tennis in maniera che imparasse la responsabilità personale. Poi ci siamo scambiati qualche altra osservazione sull'argomento (io ho toccato gli scacchi, l'importanza della socialità e del carattere del bambino) ma gli elementi importanti li ho già riepilogati.
Nella notte ho ripensato (*2) al rapporto padre-figlio e mi sono ricordato di quanto mio padre mi tormentasse per farmi mangiare: una vera ossessione sia per lui che per me...
Sono lento a pensare ma ho una buona memoria e così ho riesaminato tutte le (poche) informazioni in mio possesso sul caso dell'ingegnere e di suo figlio.
E alla fine ho avuto un'intuizione (*3): mi è venuto il dubbio che il figlio magari abbia delle idee su cosa fare da grande ma che non si senta di esprimerle al padre temendo che non le approvi.
C'è infatti un dettaglio che me lo fa pensare: nonostante che il figlio volesse giocare a calcio il padre l'ha indirizzato al tennis. Come scrissi in
Puericultura base la scuola (ma anche la famiglia) insegnano ai bambini tante nozioni di materie diverse tranne però la più importante, ovvero imparare a prendere le proprie decisioni (che secondo me andrebbe trattata come una vera e propria materia scolastica). Il risultato è che i giovani quando escono dalla scuola sono talvolta impreparati ad affrontare le scelte che la vita gli pone di fronte. Chiaramente l'impatto di queste difficoltà varia in base al carattere individuale del giovane ma il problema di fondo c'è per tutti.
Fra le possibili accortezze suggerivo quella di far prendere più scelte significative possibili ai bambini: ad esempio “di contorno devi scegliere una verdura: vuoi le carote o gli spinaci?”. Già questo abituarsi a decidere e a subirne le conseguenze mi pare un'utile palestra che predispone poi a prendere quelle più difficili.
Il padre ingegnere giustamente si preoccupa (forse un po' presto!) che il figlio scelga con cura e attenzione la carriera che vorrà intraprendere da grande: ma quella, sebbene importante, è una scelta come le altre e non si può pretendere che il figlio sia in grado di farla se non è già abituato a decidere per proprio conto i dettagli, molto meno importanti, della propria vita. Per il carattere dell'ingegnere (ovviamente come l'ho intuito io!) ho la sensazione che per tutta l'infanzia abbia lasciato poche scelte al figlio, avendo probabilmente già progettato a tavolino anno per anno cosa fosse meglio per lui. Ho anche la sensazione che il bimbo non abbia fratelli, che sia cioè un figlio unico, e questo (v.
Figlio unico) lo rende ancora più vulnerabile alla tendenza di subire la volontà paterna, magari anche solo presunta e intuita...
Ovviamente si tratta di una teoria puramente ipotetica e ci saranno senza dubbio chissà quanti altri fattori di cui non sono a conoscenza che potrebbero demolirla completamente: però, in mancanza di altri dati, mi pare plausibile e degna di essere considerata...
Conclusione: cosa consiglierei al padre? Direi di dare tregua al figlio per un paio di anni, non insistere sull'argomento fino a quando non sarà almeno in terza media e, nel frattempo, di insegnarli a prendere decisioni personali (e lui ad accettare). Perché prendere decisioni non è semplici né ovvio e, come per ogni altra cosa, bisogna avere l'opportunità d'imparare a farlo.
Nota (*1): che fra parentesi riesce a “sbracarsi” comodamente, completamente a suo agio, in luoghi dove io starei seduto rigido come su un trespolo scivoloso!
Nota (*2): insonne ovviamente, perché quando faccio tardi il sonno mi sballa...
Nota (*3): lo ripeto: un'intuizione, non una certezza. Solo un'ipotesi basata sul (quasi) niente!