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domenica 26 novembre 2017

Coriolano

[E] Per la comprensione completa di questo pezzo è utile la lettura della mia Epitome (V. 0.4.0 "Leida").

“Coriolano”: un nome che conoscevo dalla musica classica ma che non sapevo associare all'omonimo personaggio.
Ci ha pensato Plutarco a colmare questa mia ennesima lacuna: il parallelo romano al greco Alcibiade è infatti Gaio Marzio a cui fu poi attribuito l'epiteto Coriolano per il suo decisivo contributo alla conquista della città di Coriole.

Il personaggio di Coriolano è piuttosto interessante perché ha sia grandi virtù che difetti: nel complesso però mi è rimasto piuttosto antipatico. Gaio Marzio è soprattutto un soldato dall'incredibile forza e coraggio che combatte sempre in prima linea. È però anche un nobile, molto superbo, che non vorrebbe concedere niente alla plebe e, anzi, alle rivendicazioni di essa sempre si oppone con forza. In realtà oggi però non voglio scrivere/riassumere la vita di Coriolano ma preferisco invece soffermarmi su un episodio, che mi pare interessantissimo, in cui egli ha solo un ruolo marginale.

Quando ancora Coriolano è giovanissimo e deve ancora conquistarsi gli onori sul campo di battaglia, a Roma c'è una crisi economica che ha molte analogie con la situazione di Sparta ai tempi di Licurgo e quella di Atene con Solone. I cittadini meno facoltosi sono fortemente indebitati con quelli più ricchi tanto che rischiano di perdere tutti i loro beni e di finire in schiavitù.
A Sparta Licurgo risolse il problema ridistribuendo in parti uguali tutte le terre e, di fatto, annullando la ricchezza; ad Atene Solone cercò un compromesso: non cancellò i debiti ma fece in modo che i poveri non finissero sul lastrico.

A Roma non c'è né Solone né Licurgo ma il senato, composto da cittadini nobili e ricchi. In quel periodo la città è in guerra con i volsci ma il popolo si rifiuta di prendere le armi fin quando non sarà risolta la questione dei debiti. Il senato promette quindi di moderare i prestiti ma terminata vittoriosamente la guerra si rimangia la promessa.
Così, alla guerra successiva, il popolo abbandona Roma e si rifugia sull'Aventino (494 a.C.) fino a quando Menenio Agrippa, col celebre apologo dello stomaco che deve essere nutrito dalle membra ma che a sua volta le sostiene, riesce a fare da paciere. Il popolo ottiene infatti due potenti magistrati: i tribuni della plebe, con ampi poteri di veto sulle decisioni del senato.

Ed è proprio questa contrattazione che trovo particolarmente interessante: da una parte c'è il parapotere ([E] 4.2) del senato, espressione della nobiltà, dall'altra c'è la democratastenia ([E] 4.4), ovvero il popolo. La legge del confronto ([E] 5.7) e il corollario dell'assente-perdente ([E] 5.8) ci dicono che normalmente non c'è un dialogo diretto fra parapoteri e democratastenia: al contrario, in genere, i primi si accordano fra loro a danno del popolo.
È però facile notare la peculiarità della situazione romana nel V secolo a.C: la democratastenia ha il potere militare o, almeno, costituisce la maggioranza degli effettivi dell'esercito. In uno stato di guerra più o meno permanente la forza militare diviene fondamentale e questo dà alla democratastenia una fortissima moneta di scambio nelle sue contrattazioni con il senato. Il popolo ottiene quindi i tribuni della plebe e questi garantiranno poi, per tutta la Repubblica, che il popolo non venga schiacciato dai parapoteri del tempo: questo credo che sia alla base del successo della repubblica romana su cui poi l'impero camperà a lungo di rendita.

È anche interessante notare quando il potere dei tribuni della plebe si ridusse (*1): il momento di svolta è a cavallo fra la seconda e terza guerra punica quando l'esercito romano smise di essere di leva e divenne formato da professionisti: in altre parole quando la democratastenia perse il proprio potere militare. Ovviamente il declino non fu immediato e ci volle ancora circa un secolo affinché la carica divenisse solo un titolo privo di reale potere: ma la relazione fra causa ed effetto mi pare evidente.
Questo esempio storico dovrebbe chiarire perché in [E] 12.6, nella nota 340, io abbia specificato la necessità che l'esercito sia di leva e non formato da professionisti. Mi copio e incollo:
«Questa è l'estrema garanzia democratica: se per qualche motivo tutti i meccanismi democratici dovessero collassare è bene che la forza bruta non sia in mano a un gruppo ristretto che, per la legge della rappresentatività, potrebbe avere scopi propri diversi da quelli dell'interesse collettivo (come succede nelle rivoluzioni con la varie forze di polizia: regolarmente sempre schierate dalla parte del potere e mai da quella del popolo). È quindi necessario che ci sia la totale identificazione fra potere militare e popolazione civile: questa identificazione è possibile solo grazie alla leva obbligatoria cosicché la forza militare sia costituita da un gruppo massimamente aperto.
Gli alti ufficiali o i soldati di eventuali reparti specializzati (per questo motivo necessariamente non di leva) potrebbero invece essere obbligati a lavorare, per un tempo prestabilito ogni anno, in un ambito civile in maniera da non perdere il contatto con la popolazione che dovrebbero difendere.
»

Conclusione: Coriolano per i suoi meriti in battaglia aspirò poi alla carica di console ma nonostante i suoi meriti non seppe né volle accattivarsi il favore del popolo che gli preferì altri candidati. Successivamente esiliato da Roma si rifugiò presso i volsci dei quali divenne il primo generale arrivando ad assediare Roma. Alle ambascerie del senato prima e dei sacerdoti poi, rispose con altero disprezzo ma quando la mamma, con moglie e figli, lo andò a supplicare di interrompere l'assedio lui la ascoltò: poco dopo i volsci presero l'occasione per assassinarlo visto che, nonostante le vittorie sul campo, non era riuscito a ottenere niente dai romani...

Nota (*1): v. Tribune of the Plebs su Wikipedia.org

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