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domenica 5 maggio 2019

Intermezzo africano

Stanotte, durante i soliti momenti di insonnia, ho deciso di scrivere questo pezzo.
Quando la scorsa settimana scrissi Africa (1/2) pensavo che con un secondo pezzo avrei potuto concludere tranquillamente il mio commento al libro della Bifarini (I coloni dell’austerity). In realtà mi sono poi imbattuto in un concetto che mi pare di grandissima importanza e che merita di essere evidenziato con un pezzo a sé stante.

Nel capitolo 6, “Un modello economico fallace” l’autrice cita un articolo di un economista tedesco, Gunder Frank, di cui riporto il passaggio fondamentale:
«Si ritiene generalmente che lo sviluppo economico avvenga come una successione di fasi del capitalismo e che i Paesi oggi sottosviluppati siano ancora in una fase, … …, della storia che i Paesi ormai sviluppati hanno attraversato molto tempo fa.» (*1)

Il precedente passaggio mi ha colpito perché era esattamente ciò che pensavo fin da quando, alle elementari, la maestra ci aveva spiegato cosa fossero i paesi sottosviluppati chiamati, per incoraggiamento, in “via di sviluppo”. Da allora io mi immaginavo una sorta di percorso storico ideale in cui i paesi più arretrati rivivevano le fasi dello sviluppo già attraversate da quelli ormai avanzati.
In realtà il frammento dell’articolo di Gunder Frank, e poi la Bifarini con numerosi esempi concreti, affermano e dimostrano che non è assolutamente così!
I paesi attualmente “avanzati”, quando non erano ancora tali, appartenevano a un mondo in cui non vi erano già altri paesi più avanzati, con economie forti e industrializzate, con cui dovessero confrontarsi. È proprio il neoliberismo che imperversa in Africa a mantenere le economie dei suoi paesi in uno stato tale da essere massimamente funzionale alle economie dei paesi più ricchi: ovvero esportatori di materie prime e importatori di prodotti finiti. Sfortunatamente in questo stato di cose il paese non riesce a svilupparsi e resta in uno stato di perenne povertà in cui le sue risorse vengono drenate via senza che la maggior parte delle popolazioni locali ne tragga alcun vantaggio.
Questo tipo di commercio fra paese avanzato e paese arretrato amplia la forbice della diseguaglianza della ricchezza invece di ridurla.

E allora, ad esempio i paese del sud-est asiatico? Come mai le loro economie riescono a crescere?
Hanno seguito l’esempio del Giappone: hanno protetto le industrie locali, migliorato le infrastrutture e puntato sull’educazione (*2) in maniera da poter poi sfruttare a proprio vantaggio le esternalità di conoscenza che si ha interagendo con i paesi più avanzati.
Paradossalmente tutto questo si può fare NON seguendo i suggerimenti del FMI e della BM (*3)!

Ma ciò che mi ha realmente entusiasmato di questa nuova consapevolezza è che questa è perfettamente compatibile con la mia teoria: ero io che non me ne ero ancora reso conto!

In [E] 5.11 introduco la “Legge dell’Evoluzione” spiegando, in massima sintesi, che in un sistema ([E] 7.3) vi deve essere un preciso equilibrio fra uniformità e diversità dei suoi poteri. Quando questo rapporto è corretto allora vi è evoluzione e crescita e, spesso, si può innescare un meccanismo di emulazione che ho chiamato “Effetto di omogenizzazione” ([E] 5.12).
In particolare spiegavo che nella struttura piramidale di una società occidentale la legge dell’evoluzione non è applicabile perché la diversità di forza fra i suoi parapoteri ([E] 4.2) e democratastenia ([E] 4.4) è troppo elevata: i parapoteri bloccano con la loro influenza sulla politica tutte quelle innovazioni, magari utili alla democratastenia nel suo insieme, ma che penalizzerebbero la loro forza (nel mondo moderno il loro profitto).
Ebbene la stessa situazione si replica passando dal livello di dettaglio di una singola nazione all’attuale realtà globale!
I paesi più ricchi e avanzati, USA in testa, equivalgono ai parapoteri mentre i paesi africani sono i corrispondenti poteri più deboli, la democratastenia globale (*4). Poiché le innovazioni (in questo caso politiche economiche) che renderebbero più ricche le popolazioni africane andrebbero a svantaggio dei paesi più avanzati che ora ne sfruttano le risorse, ecco che questi parapoteri esteri intervengono per bloccarle.

Vice versa, ad esempio all’epoca della rivoluzione industriale, l’equilibrio fra uniformità e diversità dei vari stati europei era tale che l’UK non era sufficientemente forte da bloccare lo sviluppo dei concorrenti sul continente che, anzi, si affrettarono a seguirne l’esempio (effetto di omogeneizzazione). All’epoca, ad esempio, l’Italia, per quanto politicamente frammentata, non era una colonia inglese: le industrie locali erano tutelate, protette e quindi libere di crescere e rafforzarsi senza essere spazzate via da una concorrenza troppo forte (*5).

Ma, mi rendo conto adesso, la legge dell’evoluzione può essere applicata anche in altri ambiti sociali: ad esempio alla società cinese. Attualmente in Cina ci sono circa 100 milioni di cinesi ricchi, che hanno fatto fortuna e fondato aziende che sono poi divenute delle multinazionali: ci si potrebbe chiedere se, progressivamente, tutti i cinesi potranno raggiungere tale livello di ricchezza o se, almeno, in futuro nuove multinazionali potranno nascere dal nulla, ovvero per opera di cittadini cinesi appartenenti alla fascia povera della popolazione.
La risposta, data dalla legge dell’evoluzione, è “no”. Negli anni ‘90 la società cinese aveva il giusto equilibrio fra uniformità e diversità nella sua popolazione e questo ha permesso la crescita di aziende poi divenute grandissime: ma ormai questo equilibrio si è rotto: la differenza di forza fra ricchi e poveri è troppo alta. Ogni futura opportunità potrà svilupparsi solo se parte da o se andrà a favore dei più forti: in altre parole i ricchi diverranno più ricchi ma, molto difficilmente, dei poveri riusciranno a divenire ricchi (*6).

Conclusione: davvero un passo avanti notevole che, inevitabilmente, si rifletterà nella prossima versione dell’Epitome!

Nota (*1): tratto da I coloni dell’austerity di Ilaria Bifarini, (E.) Altaforte Edizioni, 2019, pag. 135.
Nota (*2): non sorprendentemente vi è infatti una relazione diretta fra cultura media di un paese e reddito dei suoi abitanti.
Nota (*3): come spiegato in Africa (1/2) lo scopo di queste istituzioni non è quello di risolvere il problema della povertà ma di rendere più ricchi i parapoteri economici globali.
Nota (*4): e la democratastenia dei paesi europei a cosa corrisponde? Direi a dei poteri medi che, come sappiamo, al livello più alto fanno parte della democratastenia globale.
Nota (*5): cosa che invece successe alle industrie del sud, "sopraffatte" da quelle del nord d’Italia, con l’unità del paese…
Nota (*6): ovviamente la realtà è un po’ più complessa: la Cina potrebbe sostenere l’aumento di ricchezza della sua popolazione più povera ad esempio a scapito di terzi come, lo vedremo nel prossimo “Africa (2/2)”, le popolazioni africane. Fondamentale sarebbe poi sapere la composizione e l’origine del parapotere politico cinese: i rappresentanti del partito comunista al potere di quale società sono i rappresentanti: della minoranza ricca o di quella povera?
Questo è fondamentale per poter valutare le condizioni di rappresentatività imperfetta ([E] 5.8) del governo cinese e poter così ipotizzare se cercherà, magari in futuro, di riequilibrare la ricchezza fra tutta la sua popolazione.

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