[E] Per la comprensione completa di questo pezzo è utile la lettura della mia Epitome (V. 0.06). In particolare i capitoli: 2, 5, 6 e 7.
Ieri ho scelto a caso un libro da una pila in un angolo della mia camera (v. il corto Scrivania per avere un'idea del mio disordine) e ne sono stato positivamente sorpreso: titolo e copertina infatti non mi ispiravano molto: L'uomo romano di Andrea Giardina, Ed. Laterza, 1993. Ma invece...
Al momento ho letto solo la premessa ma ho già apprezzato lo stile elegante dell'autore, la ricchezza delle citazioni (tutte con le relative fonti) e le molte note comodamente presenti a piè di pagina. Insomma un libro ricco di informazioni e già per questo molto interessante. Ma anche l'argomento mi attira: temevo che spiegasse come vestissero, cosa mangiassero, quali fossero le diverse attività (e simili) dell'uomo romano, insomma che fosse un libro descrittivo degli aspetti più materiali della vita quotidiana dei nostri progenitori; in realtà, da come è impostata la premessa, mi sembra che l'obiettivo sia più ambizioso, ovvero un'analisi quasi filosofica di quale sia l'essenza della romanità e del significato “reale” della cittadinanza.
Inutile dire che già nella premessa vi ho trovato numerosi spunti interessanti oltre a possibili collegamenti con la mia epitome. Nel prosieguo di questo pezzo voglio elencare tutti questi elementi per dare un'idea della ricchezza di questo saggio.
Devo anche premettere che nonostante ammiri lo stile dell'autore e ne apprezzi la chiarezza e precisione dell'esposizione non sono sempre d'accordo con le sue conclusioni, anzi!
Il primo spunto interessante è proprio un esempio di questa differenza di vedute. La premessa inizia riportando un'affermazione di Vegezio, un intellettuale del IV secolo d.C., secondo il quale l'esercito romano avrebbe dovuto essere riformato tornando alla leva dei cittadini: Vegezio argomenta questa sua proposta rifacendosi a un'ideale di “romano” piuttosto stereotipato nella cultura del tempo: il romano è meno forte del germano, meno colto del greco, meno astuto degli africani, meno forte dello spagnolo; infatti la vera forza del romano sta nell'esercizio delle armi, nella sua disciplina e organizzazione.
L'autore liquida Vegezio definendolo “un individuo non particolarmente colto né intelligente” e la sua idea di legione romana un “reperto d'archivio, un fossile”; secondo l'autore questa posizione di Vegezio riflette un'idea appartenente alla cultura medio-bassa del tempo.
Come ho forse già accennato altrove sono particolarmente interessato alle ragioni della caduta dell'impero romano d'occidente e, ovviamente non influenzato dalla cultura medio-bassa del tempo, ero giunto a conclusioni simili a quelle di Vegezio. Ovviamente nella mia riflessione non mi basavo sullo stereotipo del romano come l'autore latino: il mio ragionamento era molto più articolato (non c'è spazio qui per discuterne) ma nell'essenza si basa sulla dinamica dei gruppi/poteri della società e sulla legge della rappresentatività (Cap. 5.6 dell'epitome) applicata all'esercito dell'impero.
Sono onestamente curioso di scoprire (sperando lo faccia!) come mai un esercito composto da una leva di cittadini sarebbe stato un “fossile”.
Altro elemento interessante: l'idea che i morti causati dalle persecuzioni dell'impero contro i cristiani fossero molto minori di quelli provocati da conflitti fra i cristiani stessi è del Gibbon. Io l'avevo scoperto grazie ad Harari e pensavo che fosse una teoria molto più recente!
Secondo un recente studio i romani solevano tagliare le teste dei nemici. Interessante è però notare che ciò che ritenevano realmente crudele non era (ovviamente!) il mozzare le teste ma “gioire scompostamente” davanti al capo di un nemico a lungo temuto oppure fare commenti di cattivo gusto su particolari fisionomici!
L'autore mi ha poi stupito con una precisazione che mi è sembrata ovvia e non necessaria ma che, probabilmente, al lettore comune potrebbe sfuggire: è impossibile trovare stereotipi romani validi per tutta la durata dell'impero: si parla infatti di oltre mille anni di storia!
Su questo argomento in generale rimando al 6° capitolo della mia epitome.
Comunque anch'io ho più volte scritto sul cambiamento della mentalità romana: basandomi su una teoria di mio zio e su varie letture avevo ipotizzato due momenti ben precisi della storia romana in cui questo cambiamento è improvviso e netto: dopo la seconda guerra punica con la sconfitta di Cartagine e un paio di secoli dopo fra la guerra civile che veda Ottaviano contro Marco Antonio (e il pericolo “egiziano”) e la sconfitta di Varo nella foresta di Teutoburgo. Sono curioso di vedere se nel resto del libro troverò accenni a questi particolari momenti...
L'autore poi prosegue spiegando che fra i vari abitanti dell'impero le differenze variano non solo nel tempo ma anche nello spazio: in particolare la differenza è abissale fra gli abitanti delle città e quelle delle campagne. Al riguardo rimando al vecchio pezzo La contraddizione del pagano cittadino.
Interessantissimo è poi un episodio che già conoscevo ma senza i dettagli forniti dall'autore. Si tratta della testimonianza di Prisco un ambasciatore romano che va a parlamentare con Attila (449 d.C.). Prisco, al campo di Attila, si imbatte infatti in un cittadino romano (un ex mercante greco) che era riuscito a integrarsi perfettamente con gli unni e con i quali, gli spiega, si trova meglio che nell'impero. Attualissime le motivazioni apportate dal greco: «Presso i romani le leggi non si applicano a tutti; se il trasgressore è uno dei ricchi, egli non paga il fio; se è povero, viene punito, tranne che muoia prima del giudizio, tra le lungaggini e le grandi spese del processo.». Al riguardo vedere la seconda parte di La fine del corso...
E il mercante incontrato da Prisco non è il solo a pensarla così: Marsiglia Salviano, un autore a lui coevo, scrive che molti cittadini romani preferiscono abbandonare l'impero per rifugiarsi dai goti o altri barbari ribelli perché «preferiscono vivere liberi sotto apparenza di prigionia che prigionieri sotto apparenza di libertà».
Io vi vedo un esempio dell'inizio del crollo dei protomiti che tengono insieme la società (capitolo 7° dell'epitome) e che, nell'attualità odierna, possiamo vedere fra i motivi per cui tanti giovani decidono di lasciare l'Italia: non solo per mere ragioni economiche ma per mancanza di fiducia nel paese (ovvero nei suoi protomiti; v. capitolo 2° dell'epitome).
Marsiglia Salviano rincara la dose e spiega che i rappresentanti dell'erario si sono trasformati in dei tiranni e arriva addirittura all'identificazione fra i rappresentanti delle legge con dei banditi. Io mi trovo sulla stessa lunghezza d'onda di Marsiglia Salviano: avevo in mente proprio questo concetto per scrivere un pezzo su una nuova vergognosa e odiosa gabella che mi ha imposto quest'anno la regione Toscana...
Bella e appropriata la citazione di Sant'Agostino riportata dall'autore: «Una volta allontanata la giustizia, che cosa sono i regni se non grandi bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?»
L'autore, ma del resto scrive prima del 1993, concorda con un altro studioso che vede una “tristezza senza fine” in questo preferire il “buon selvaggio” al peso di “una civiltà superiore”.
Ovviamente io non sono d'accordo: ormai non si tratta più semplicemente di una “civiltà superiore” (due secoli prima l'entusiasmo e la gioia di farne parte data dall'editto di Caracalla è palese e diffuso) ma della degenerazione di una “civiltà superiore”!
La premessa continua ancora per svariate pagine ma visto che ho già scritto abbastanza lascio qui tutto in sospeso con l'idea di tornarci nei prossimi giorni...
Conclusione: non so se questo libro manterrà tutte le mie aspettative ma di sicuro per il momento mi piace molto e lo leggo volentieri!
alla prima stazione
1 ora fa
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