Ci sono post che nascono sotto strani auspici. Questo nasce sotto il segno della melanconia.
Ho scansionato diverse vecchie diapositive, roba dei primi anni '70, io non ci sono o, se ci sono, nemmeno mi riconosco.
Allora mi fisso e cerco di ricordare cosa guardavo, cosa pensavo: soprattutto perché ridevo sempre?
Cos'è che non mi era chiaro della vita?
Oppure allora sapevo qualcosa che adesso ho dimenticato?
Forse perché mi bastava essere preso in braccio per non avere preoccupazioni o una bottiglia di plastica per farmi riflettere assorto oppure un sassolino per farmi sorridere?
Sì, forse è così: cerco di trovare risposte complicate quando la verità è semplice. È il non sapere, il non capire che ci fa vivere nell'illusione che il mondo sia bello. È quando ci si rende conto della realtà, di come gira il mondo, che i buoni non vincono sempre che la tristezza prende il sopravvento.
Una delle massime della mamma era “Il mondo è dei furbi”. Me la ripeteva sempre quando ero un bambino. E io odiavo questo modo di dire. Lo trovavo ingiusto...
Dimentico di spiegarne il contesto: raccontavo alla mamma qualcosa che era successo a scuola, qualcosa che aveva detto o fatto un altro bambino o un evento che mi aveva coinvolto in qualche maniera. E allora la mamma mi diceva che quel bambino era stato più furbo di me e che, appunto, Il mondo è dei furbi.
E io capivo benissimo la differenza fra l'essere furbi e il non esserlo. Quando mi trovavo, diciamo, in quelle situazioni critiche sapevo quale fosse la soluzione più facile, la scorciatoia, la furbizia. Eppure, da sciocchino che ero, non ho mai esitato a fare quello che ritenevo giusto anche contro il mio interesse.
E quando sono cresciuto sono rinsavito? Nemmeno per sogno: potrei raccontare innumerevoli episodi alle medie, al liceo o anche all'università ma mi limiterò a un aneddoto avvenuto quando ero un ragazzino sui 35 anni...
All'epoca lavoravo in Olanda e la mia follia non era per nulla migliorata: non solo non mi azzardavo a essere furbo ma addirittura mi imponevo di credere, anche se l'evidenza quotidiana mi aveva insegnato il contrario, che tutti fossero come me. In particolare che i miei capi fossero tali non per un gioco del destino, di un colpo fortunato nella roulette della vita, ma che fossero, almeno per qualche aspetto rilevante, migliori di me e quindi meritevoli del loro status.
Questa mia follia portava almeno due risultati assurdi. Il primo è che dicevo quello che pensavo senza preoccuparmi delle conseguenze: davo per scontato che i miei superiori, in quanto tali, non si sarebbero mai offesi perché io al loro posto non l'avrei fatto. A ripensarci adesso mi viene da sorridere per la mia stolta protervia: ricordo che un giorno fui chiamato dal capo del mio capo (CdmC) che mi aveva chiesto di fargli un programma con Excel per una riunione con i capi dei capi: non era niente di particolarmente complesso ma non erano ammessi malfunzionamenti e il CdmC avrebbe dovuto farlo funzionare senza il mio aiuto. Beh, quando gli feci vedere il prototipo mi disse che la linea di un totale era un po' troppo sottile. E io gli sghignazzai in faccia. Lui (era francese) si offese e mi chiese seccato cosa avessi da ridere: e io gli risposi che, dal mio punto di vista, lo spessore della linea non era importante e che mi aspettavo dei commenti su parti più sostanziali del programma. Lui mi rispose che anche la presentazione era molto importante e io gli dissi che aveva ragione (un minimo di diplomazia) ma che avremmo potuto sistemare tutti questi dettagli a tempo debito...
Per mia fortuna questo CdmC era in effetti una persona piuttosto intelligente anche se non priva di difetti: ho saputo poi che, quando feci richiesta per un lavoro in Spagna, il mio nuovo capo (anch'egli francese) telefonò al CdmC per avere notizie e lui gli parlò benissimo di me.
La seconda conseguenza assurda era che, anche quando mi rendevo conto che il mio capo mi faceva imbarcare in un progetto inutile, non cercavo di fargli cambiare idea (a meno che non mi chiedesse quale fosse la mia opinione: ma anche allora cercavo di dargli dei dati oggettivi, affinché potesse effettuare da solo la scelta migliore, quando invece avrei potuto convincerlo facilmente a fare come volevo io...) perché mi crogiolavo nell'assurda convinzione, smentita più e più volte dai fatti, che proprio perché era il mio capo, oltre che avendo a disposizione più informazioni di me, sapesse quello che stava facendo o, meglio, quello che mi chiedeva di fare...
E invece lo posso affermare ufficialmente dopo circa quarant'anni di perseverante ostinazione: a cercare di fare la cosa giusta non si riceve nessuna medaglia. Non c'è nessun premio. Nessuno ti dice bravo ma anzi si ride alle tue spalle perché sei “strano”. Se si pensa “strano”, cioè diversamente dalla massa, è chiaro che poi si agisce in maniera diversa e si finisce per fare delle scelte che paiono incomprensibili. E questo sia per le piccole cose, come gli abiti scompagnati, che le grandi, come importanti scelte di vita.
Non c'entra niente ma tanto ormai sto divagando: ho la sensazione che le donne la fiutino facilmente la stranezza e che non ne siano particolarmente attratte, anzi! Credo che la guardino con molto più sospetto degli uomini e che il loro primo istinto sia starsene alla larga...
Sì, deve essere così: le donne, più degli uomini, ricercano la normalità o, meglio, ciò che è comunemente apprezzato. In altre parole anche le stranezze possono andare bene ma solo se sono quelle di un personaggio famoso e pubblicamente osannato.
Concludo. È difficile tirare fuori la conclusione oggi. Ma...
Direi che dovrei evitare di mettermi a scrivere sotto il segno della melanconia perché, dopo un'ora di ricordi vari affastellati su tristi riflessioni, il mio umore non è assolutamente migliorato...
L'esempio di Benjamin Franklin
38 minuti fa
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