Stanotte ho dormito particolarmente bene, ho fatto una caterva di sogni che però non ricordo, e mi sono alzato alle 7:10 particolarmente riposato. Il fastidioso uccello che canta “Billcoyote” non mi ha svegliato alle 5:00… Ma però adesso lo sento: quasi quasi vedo di registrarlo: magari qualcuno mi saprà dire che bestiaccia è!
Siccome mi sento lucido e in forze ne approfitto per vedere che appunti ho preso: ieri infatti sono andato avanti nelle mie letture ma, avendo dimenticato gli occhiali a casa, ho potuto leggere solo i libri con i caratteri più grandi!
Ora sto leggendo uno strano capitolo de "Il secolo breve": “strano” perché Hobsbawm deve aver usato materiale che aveva già pronto da tempo. Normalmente i suoi capitoli sono cortissimi ma questo è tre o quattro volte più lungo del solito.
È il capitolo sul “socialismo reale” e come venne introdotto nell’URSS.
Il passaggio che mi ha colpito è però piuttosto incidentale e di carattere psicologico. Non è importante per la comprensione in sé ma l'aggiungo per completezza: l’URSS negli anni ‘20-‘30 si trova economicamente isolata dal resto del mondo e decide quindi di puntare sull’industria pesante. Ecco il passaggio di Hobsbawm: «D’altro canto, come tutte le imprese militari che hanno un’autentica legittimità morale e popolare, anche l’industrializzazione massiccia dei primi piani quinquennali (1929-1941) venne sostenuta dalle masse proprio in virtù del “sangue, della fatica, delle lacrime, e del sudore” che impose loro. Come ben sapeva Churchill, il sacrificio ha in se stesso la capacità di motivare gli uomini.» (*1)
Ho evidenziato in neretto l’ultima frase fondamentale. Come interpretarla?
Così su due piedi non mi viene in mente nessuna spiegazione psicosociale diretta, però il fenomeno mi è familiare e anch’io avevo notato qualcosa del genere.
Io lo spiego così: se facciamo un sacrificio dobbiamo spiegarlo e giustificarlo a noi stessi: più il sacrificio è grande e maggiore è la giustificazione che dobbiamo darci per evitare la dissonanza cognitiva.
Contemporaneamente però, una volta che il sacrificio è fatto, per conservare la propria autostima, le sue ragioni continuano a essere difese dal singolo. Egli non vuole ammettere, principalmente a se stesso ma di conseguenza anche agli altri, di aver fatto un sacrificio inutile. Da notare che in questa maniera è possibile convincere la popolazione a subire sempre di più se i sacrifici imposti sono introdotti in un lento crescendo.
L’analogia con la reazione della maggioranza della popolazione alle misure draconiane imposte durante la pandemia è evidente. Chi si è piegato alle imposizioni, non importa quanto inutili, arbitrarie e talvolta dannose, le ha giustificate a se stesso dicendosi che “erano per il bene di tutti”, “per proteggere i più deboli” e simili. Anche quando la scienza dimostra che la maggior parte di queste giustificazioni erano speciose egli continuerà a credere di aver agito bene per sé e per gli altri (anche perché i media continuano a ripeterglielo!).
In pratica la frase evidenziata è un utile scorciatoia per ricordarsi di un fenomeno psicologico basato sui due fattori chiave che ho descritto: dissonanza cognitivo e protezione della propria autostima.
L’altro libro con i caratteri belli grandi è “Le conseguenze economiche della pace” di Keynes. Mi mancava qualche pagina per concludere la descrizione del presidente Wilson.
In letteralmente tre pagine (non controllo neppure quelle lette nei giorni scorsi!) ci sono già diversi spunti interessanti!
In un’unica frase Keynes riassume quello che sarà l’essenza del trattato di Versailles: «Lo schietto e intelligibile scopo della politica francese – limitare la popolazione della Germania e indebolire il suo sistema economico – è ammantato, a beneficio del Presidente, nell’angusto linguaggio della libertà e dell’eguaglianza internazionale.» (*2)
Clemenceau puntava al sodo, a imposizioni punitive, e Wilson si accontenta di una loro formulazione ipocrita…
Nelle pagine precedenti Keynes aveva fatto diversi esempi di punti il cui scopo era quello di affossare la Germania ammantate però di “libertà” e “uguaglianza internazionale”…
Quante volte, ancora oggi (con la complicità dei media), ci limitiamo a osservare la forma senza considerare la sostanza?
Keynes, in maniera estemporanea, ma che comunque fa pensare a una certa familiarità, accenna a un “complesso freudiano”. La teoria di Freud è di fine XIX e inizio XX secolo e quindi nel 1919 era decisamente recente: mi ha colpito che un economista fosse così informato sugli sviluppi della psicologia.
Ripensandoci interpreto ora in maniera diversa una frase di Keynes alla fine del precedente capitolo in cui, vado a memoria, diceva qualcosa del tipo: “prima di esaminare gli aspetti economici è importante capire la psicologia dei protagonisti del trattato di Versailles”. Sul momento avevo ritenuto l’idea ovvia ma, forse, non era così: forse era proprio Keynes ad avere un particolare interesse per la psicologia.
Ho chiesto a chatGPT e la mia intuizione pare esatta:
«[KGB] L'economista John Maynard Keynes che interessi aveva verso la psicologia?
[chatGPT] John Maynard Keynes, l'economista britannico noto per le sue teorie economiche e per il suo lavoro nel campo della macroeconomia, era effettivamente interessato anche alla psicologia. Sebbene non fosse un esperto nel campo della psicologia, Keynes riconobbe l'importanza dei fattori psicologici nel comportamento economico e nelle decisioni degli individui.
[...]
Pertanto, sebbene non abbia sviluppato una teoria psicologica complessiva, Keynes riconobbe l'importanza degli elementi psicologici nel determinare le dinamiche economiche e li incorporò nella sua analisi economica.»
Ma per ultimo ho voluto lasciare uno spunto che, con straordinaria serendipità, si riallaccia alla mia annotazione tratta da “Il secolo breve”:
«Lloyd George, desideroso all’ultimo momento di tutta la moderazione cui ardiva spingersi, scoprì con orrore che non poteva in cinque giorni persuadere il Presidente [Wilson] dell’erroneità di ciò che c’erano voluti cinque mesi per dimostrargli essere giusto e retto. Era, insomma, più difficile disingannare quel vecchio presbiteriano di quanto fosse stato ingannarlo; perché il disinganno ledeva in lui la fiducia e il rispetto di sé stesso.» (*3)
Notevole no? L’insegnamento secondo me è generale e vale, a maggior ragione, per le persone dalla mentalità rigida come Wilson: una volta che si sono convinte ad accettare qualcosa, dopo che la hanno giustificata a loro stessi, diviene difficilissimo dimostrargli che sono in errore perché questo lederebbe la loro autostima.
Nel caso dei sacrifici la spiegazione per accettarli ed evitare la dissonanza cognitiva è prevalentemente inconscia; nel caso di Wilson si tratta di accettare un accordo e il processo per evitare la dissonanza dovuta al conflitto con i suoi famosi “punti” è forse più conscio: ma alla fine il risultato è lo stesso: riconoscere il proprio errore e fare marcia indietro diviene molto difficile, quasi impossibile.
Conclusione: e se vogliamo questo pezzo si può ricollegare vagamente al mio commento odierno al pezzo I caciocavalli...
Nota (*1): tratto da “Il secolo breve” di Eric J. Hobsbawm, (E.) BURexploit, 2009, trad. Brunello Lotti, pag. 445.
Nota (*2): tratto da “Le conseguenze economiche della pace” di John Maynard Keynes, (E.) Adelphi, 2007, trad. Franco Salvatorelli, pag. 55.
Nota (*3): ibidem, pag. 56.
alla prima stazione
1 ora fa
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