Oggi ho deciso di non andare avanti nel racconto di Strabuccinator: negli ultimi giorni ho scritto parecchio e non voglio bruciarmi. In realtà potessi dedicarmici con continuità l’avrei già finito: è che tutte le seppur brevi interruzioni a cui non mi posso sottrarre azzerano la mia concentrazione e, soprattutto, la creatività. Lo conoscete quel momento, detto il “flusso”, in cui tutto viene facile e naturale? Sia le parole che le idee si formano e in un attimo sono scritte…
Ecco il problema è che non faccio in tempo a entrarci che subito ne devo uscire e poi per ritrovarlo, quando mi riesce, ci vuole parecchio tempo.
Nonostante questo sono arrivato a pagina 110 mantenendo un livello, a me pare, buono.
Soprattutto stilisticamente mi pare di essere migliorato molto: ma anche in questo caso io non sono il miglior giudice di me stesso…
L’idea odierna è invece quella di scrivere un pezzo sul “Secolo breve”: è un libro che scorre benissimo ed è pieno di spunti,
Infatti al momento non so ancora di cosa scrivere di preciso: ora lo prendo in mano e lo scorro un po’, ma idealmente, se non trovo di meglio, mi piacerebbe approfondire quel paio di pagine alla fine dell’introduzione (il libro è stato scritto nel 1994) in cui l’autore intravede già i prodromi della grande crisi morale e politica che stiamo attraversando adesso.
Ormai la crisi è ovvia: solo chi vive nel mondo fantastico dipinto dai media può illudersi che vada tutto bene. Ma all’epoca gli USA erano al massimo della loro forza: la Cina stava appena iniziando a industrializzarsi e la Russia, l’ex URSS, era allo sbando guidata dal raramente sobrio Eltsin.
Se gli USA avessero voluto costruire un mondo migliore avrebbero potuto farlo: davanti alla scelta fra l’avidità e la giustizia però, sotto la guida di Bush prima e Clinton poi, fu deciso di usare il proprio potere per il bene (economico) di pochi e non di tutti.
Da quel momento l’immoralità della politica è divenuta sempre più forte e ha guidato, e sta continuando a farlo, l'intero occidente verso il disastro.
Ma come ha fatto Hobsbwam a rendersene già conto allora?
Posso anticipare che nell’introduzione non lo spiega e quindi, al massimo, potremo ammirare qualche paragrafo che suonerà “profetico” perché non sapremo la logica con cui è arrivato alle sue conclusioni.
Ovviamente sono fiducioso che nel prosieguo approfondirà tutto ciò di cui ha accennato nell’introduzione.
Volendo un altro elemento fortemente interessante è la sua percezione del cambiamento culturale della società europea dal secondo dopoguerra all’epoca in cui scriveva, i primi anni ‘90.
Che il cambiamento ci sia stato è ovvio e se ne sono accorti abbastanza facilmente tutti coloro (che avevano un minimo di sensibilità sociale) che hanno vissuto quei decenni: mi vengono in mente due autori che ho letto “recentemente” come Flaiano e Pasolini.
La cosa interessante (e frustrante) è che Hobsbwam dà per scontato che il lettore sappia quali fossero i valori della società occidentale (non statunitense) fino alla seconda guerra mondiale e, principalmente, si limita ad accennare ai cambiamenti ovvero un aumento dell’individualismo. Per contrasto io ho supposto che i valori, un po’ persi, siano stati quelli della famiglia e della comunità locale (ricordando un po' di Harari e di Tocqueville).
Ho provato a chiedere a mio padre che ha vissuto quegli anni ma, sfortunatamente, ha l’intelligenza e la memoria ma non la sensibilità per notare questo tipo di dettagli…
Nel complesso, da quello che ho capito, la visione di Hobsbwam è pienamente compatibile con quella che io ho chiamato la prima globalizzazione e con la “deriva morale” che è un altro mio concetto che descrive l’evoluzione etica degli ultimi decenni ed è inserita nella cornice teorica di quello che ho chiamato il “ciclo CCMR”: chi è curioso può leggere rispettivamente i capitoli 12.2, 14.3 e 6.5 della mia Epitome.
Ma fatemi prendere in mano il librone (675 pagine)…
Prevedibilmente il passaggio sul cambiamento culturale è troppo lungo per copiarlo nella sua interezza: mi limito quindi al paragrafo che mi pare più significativo e che introduce un importante spunto di riflessione…
Hobsbwam ha appena spiegato come la nuova cultura “individualistica” abbia conservato i valori tradizionali utili e soppiantato quelli contrari, poi prosegue: «Tuttavia Max e gli altri profeti della disintegrazione dei vecchi valori e delle vecchie relazioni sociali avevano ragione. Il capitalismo era una forza rivoluzionaria permanente. Secondo la logica, avrebbe finito per disintegrare perfino quelle parti del passato precapitalistico che esso aveva trovato utili, per non dire essenziali, al suo stesso sviluppo. Avrebbe finito per segare almeno uno dei rami sul quale sedeva. Questo si è andato verificando a partire dalla metà di questo secolo [1950-60]. Sotto l’effetto dello straordinario boom economico dell’età dell’oro e in seguito grazie ai mutamenti sociali e culturali che ne sono derivati [...] il ramo ha iniziato a scricchiolare e a rompersi.» (*1)
Poco prima aveva scritto :«...la società borghese ha introdotto un “individualismo radicale nell’economia […] mentre ha sempre temuto un individualismo radicale e sperimentale nella cultura”.» (*2)
Io vi vedo in queste parole una denuncia dell’avidità del capitalismo la cui esasperazione porterà a quello che ho definito il “profittismo” ([E] 14.4) che è una delle varie premesse della decadenza ([E] 15). Il capitalismo incarna la logica del crescere e divorare sempre di più, in un mondo che ha però risorse finite, con la conseguenza che ora che ha raggiunto la massima espansione sta iniziando a mangiare se stesso, ovvero la ricchezza delle stesse società che lo sostengono. Un uroboro che si risolverà non in un nuovo ciclo ma in una dissoluzione totale.
La seconda frase è forse ancora più interessante: evidenzia il paradosso del capitalismo: da una parte esalta l’individualismo, tutte le capacità del singolo che lo rendono in grado di produrre ricchezza; contemporaneamente però teme l’individuo che pensa con la propria testa. Questi individui sono pericolosi perché non si limitano a produrre e a consumare ma guardano oltre e, talvolta, denunciano la follia e futilità di una società che non è quella che sembra. Anche Sartori aveva notato questo contrasto (v. bo… uno dei pezzi “Indietro su Sartori” suppongo!) ma non l’aveva risolto così brillantemente. Se ben ricordo notava il paradosso fra il marxismo che, preoccupandosi della collettività, finisce per proteggere il singolo e il capitalismo che, pur esaltando l’individuo, abbandona il singolo in difficoltà al proprio destino.
Via: adesso sono curioso di verificare se e quanto ricordavo era corretto!
Trovato! In Indietro su Sartori (7b/?) avevo scritto:
«La seconda nota evidenziata reca in realtà l’appunto “dovrei rifletterci un po’...” ma ormai riassumo la questione. Nel sottocapitolo intitolato “Individualismo, collettivismo e valore-lavoro” Sartori arriva a un piccolo paradosso: «[…] il paradosso sussiste: Marx è inconsapevolmente individualista, e il mercato è, senza intenderlo, collettivista.»
Le argomentazioni sono:
1. il mercato sfrutta il lavoratore (pagandolo meno del valore che produce) a beneficio dei consumatori (che pagano meno per i prodotti che acquistano) ed è per questo collettivistico.
2. Marx tutelando i singoli meno abili (puniti invece dal mercato) è individualista.»
Insomma: ricordavo correttamente l’essenza della questione ma non le argomentazioni (sebbene anche le mie non siano sballate). Mi do 5+…
A mia scusante posso aggiungere di NON averci poi riflettuto come avrei dovuto!
Conclusione: ho scritto abbastanza: le due questione che ricordavo come interessanti sono poi strettamente interconnesse e quanto ho citato vale in effetti per entrambe. Avevo trovato da segnalare anche una curiosità sul Giappone ma la rimanderò a un’altra occasione… forse!
Nota (*1): tratto da “Il secolo breve” di Eric J. Hobsbwam, (E.) BURexploit, 2009, trad. Brunello Lotti, pag. 29-30.
Nota (*2): ibidem (dove Hobsbwam cita a sua volta lo storico Daniel Bell), pag. 29.
alla prima stazione
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