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giovedì 8 marzo 2012

Ledificio (3/10)

Terza puntata del racconto Ledificio (vedi Parte 1 e 2).
Nelle puntate precedenti: tre giovani, fra cui il protagonista, entrano in un antico edificio abbandonato; in preda ai fumi dell'alcool vagano con la mente ottenebrata al suo interno finchè, raggiunto il secondo piano, arrivano a una maestosa quanto misteriosa porta...
I tre varcano la soglia ma a quel punto accade un fenomeno che il protagonista ha difficoltà sia a narrare che a ricordare. Dopo inspiegabili avversità riesce infine a uscire dalla misteriosa stanza ma perde i sensi.

-=3=-

Non ho idea di quanto a lungo rimasi incosciente: forse pochi secondi o forse qualche ora.
Quando mi riebbi non fui immediatamente lucido. Non pensai ai miei amici, ma cercai solo di uscire dall'edificio.
Che fossi ancora sotto choc è dimostrato dal fatto che non feci caso alla misteriosa luce grigia o allo strano mobilio che adesso si vedeva chiaramente: credo di aver pensato distrattamente che stesse albeggiando; non considerai però che non c'erano finestre o altre aperture da cui l'incerta luce del mattino potesse filtrare!
Ero ancora confuso ma almeno non ero più sbronzo e riuscivo a camminare senza incertezze. In quei primi minuti non mi preoccupai troppo della direzione in cui stavo andando: davo per scontato che, anche nel peggiore dei casi, adesso che non c'era più un'oscurità quasi totale, al massimo in una decina di minuti avrei trovato l'uscita.
Fu dopo circa mezz'ora, più con noia che timore, che dovetti ammettere, non solo di non aver saputo trovare l'uscita, ma neppure le scale per il piano inferiore. Ero seccato con me stesso: pensai che, per voler uscire rapidamente, mi ero mosso senza riflettere e, probabilmente, avevo finito per girare di stanza in stanza in una sorta di cerchio .

Fu allora, fermandomi e cercando di riflettere su dove andare, che ricordai di non essere solo!
I miei ricordi però erano molto confusi: mi ricordavo del lungo corridoio al piano terra, delle scale buie, poi qualche particolare del primo piano ma, del secondo, ricordavo solo di aver faticato a inseguire Massimiliano. Non ricordavo nulla della stanza dietro le grandi porte...
Adesso mi è chiaro che la mia stessa memoria cercava di cancellare quegli orribili momenti. Quando si subisce un grosso trauma, per poter andare avanti senza impazzire, la nostra mente dimentica ciò che non può tollerare. Se mi sforzavo di ricordare quando e come mi fossi separato dai miei compagni venivo colto da una sensazione di angoscia che mi rivoltava lo stomaco e un'ansia terribile, che ha stento nascondeva una paura ancor più grande, mi annebbiava la mente.

In effetti provai a gridare i loro nomi ma dopo pochi tentativi desistetti: mi ero reso conto del silenzio innaturale che avvolgeva ogni stanza: niente, non un cigolio, nessun fruscio o un gocciolare lontano. Anche a stare immobili, tendendo gli orecchi, non era possibile percepire nessuno dei suoni che, normalmente, sarebbero penetrati dall'esterno.
Era un silenzio muto e sordo: anche la mia voce sembrava venir inghiottita dall'aria grigia. Nessun riverbero e, men che meno, nessun eco.
Non volevo ammettere con me stesso di iniziare ad aver paura: liquidai il problema dicendomi che i miei amici erano già usciti e, una volta fuori, avremmo chiarito ogni mistero.
Smisi di gridare e decisi di affrontare il problema di trovare l'uscita con la logica. Dall'esterno l'edificio non mi era sembrato così grande da potersi trasformare in un labirinto per il visitatore incauto ma, evidentemente, non era così...

Decisi quindi di prendere sempre la prima porta o apertura (spesso non c'erano porte fra stanze e corridoi) a destra: ricordavo infatti che era la maniera più semplice per trovare l'uscita di un labirinto. Sicuro di me, seguendo la regola che mi ero dato, ripresi a muovermi di stanza in stanza. Ricordo a chi legge queste pagine che non ero lucido anche se, in quel momento, ne avevo l'illusione.
Dopo forse dieci minuti la mia sicurezza iniziò a scemare ma non volli ammettere la sconfitta e andai avanti. Dopo mezz'ora ero nel panico: come mai non trovavo l'uscita?
In effetti avevo trovato un paio di porte sbarrate ma decisi che non poteva essere questo il problema: se erano chiuse non potevo averle attraversate nemmeno entrando e, quindi, non conducevano alle scale.
Evidentemente avevo girato a vuoto? Forse era proprio così: capii che il tenere sempre la destra non garantisce niente se non lo si fa dall'ingresso del labirinto. Probabilmente avevo seguito il lato sbagliato e non mi ero reso conto di essere passato più volte per le stesse stanze. Mi sembrava strano ma, per farmi coraggio, feci appello alla logica e ignorai quanto mi diceva la memoria: doveva essere così. Questa, mi dissi, era l'unica spiegazione possibile.

Iniziai così a marcare ogni porta o ingresso che attraversavo: ci mettevo nel mezzo una sedia o qualsiasi altro oggetto che trovassi a portata di mano. Ce ne erano in straordinaria abbondanza di forma, varietà e materiali anche se tutto sembrava malconcio e abbandonato. Non ci pensai molto, preoccupato com'ero di trovare l'uscita, ma un fugace pensiero a come mai c'era ancora tutto questo mobilio attraversò il mio cervello.
Anche quest'idea non servì: quando, nel bel mezzo di una porta, ritrovai un vecchio candeliere pensai di aver risolto il mistero e cambiai lato (iniziai a tenere la sinistra) sempre continuando a identificare come meglio potevo ogni varco che attraversavo.
Ma anche questo fu inutile: improvvisamente mi ritrovai fra i piedi un vecchio cavalluccio di legno dipinto. Lo ricordavo bene perché mi aveva colpito e mi ero chiesto che cosa ci facesse in tutto questo sfacelo. Quello che però mi fece disperare fu che ricordavo chiaramente di averlo lasciato a indicare una porta alla mia destra e non alla mia sinistra! Era impossibile! Com'era potuto accadere che dal nuovo percorso fossi finito al vecchio?
Non voglio annoiare il lettore enumerando i diversi tentativi che feci ma ancora ero ben lungi dal demordere: diventai più scrupoloso, poi trovai un grosso chiodo e con questo iniziai a lasciare dei graffi su ogni porta o sulle pareti se la porta non c'era. Fu inutile. Poi provai a lasciare informazioni più complesse ma, semplicemente, le stanze dell'edificio sembravano sfuggire a ogni logica: a volte mi capitava di ritrovare i miei simboli dove non avrei dovuto o con informazioni contraddittorie o a non trovarli dove avrebbero dovuto essere...
Alla fine, dopo quelle che mi parvero ore, provai a tornare sui miei passi: mi accorsi che, dopo poche porte, non c'erano più né gli oggetti né i segni che avevo lasciato! Qualcuno li spostava a mia insaputa? Ma come faceva a cancellare i graffi? Mi rigirai di nuovo e mi accorsi che la cassa, un attimo prima alle mie spalle, adesso non c'era più: non era nemmeno nei paraggi. Era sparita...

Fu allora che mi accorsi di un fenomeno assurdo: ogni volta che mi giravo su me stesso, quello che vedevo davanti a me, non era come lo ricordavo. A volte il cambiamento era minimo: una panca leggermente spostata o una macchia di umido sulla parete di forma diversa; a volte invece c'erano nuovi oggetti e altri sparivano...
Non so quante volte mi girai e rigirai su me stesso: via via che mi rendevo conto della follia, del constatare l'impossibile che si avvera davanti ai miei occhi, la mia ragione iniziò a ritirarsi, a farsi sempre più piccina mentre, inizialmente senza accorgermene poi senza riuscire a frenarmi, iniziai a urlare col tutto il fiato che avevo.
Qualcosa in me si spezzò e iniziai a correre a casaccio, sempre urlando, incapace non dico di pensare ma perfino di rendermi conto di chi ero e ciò che facevo...

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