[E] Per la comprensione completa di questo pezzo è utile la lettura della mia Epitome (V. 0.3.0). In particolare i capitoli: 1 e 7.
Ho ripreso in mano L'uomo romano a cura di Andrea Giardina, Ed. Economica Laterza, 1993: mi sono reso conto di essermi quasi dimenticato gli ultimi due saggi che avevo letto (in effetti molti mesi fa) e così ho deciso di mettere nero su bianco le mie considerazioni su di essi.
Come forse ricorderete (v. Schiavitù romana (1/2) e (2/2), Il soldato romano, Promettente (1/2) e (2/2)) il libro è composto da una raccolta di saggi di qualità molto variabile ma comunque alta.
L'ultimo saggio che avevo menzionato era quello sui mercanti dello stesso Andrea Giardina (v. la sezione di “storia” in Molte varie). In realtà nel mio giudizio ero stato molto severo definendola “deludente”: riguardando i miei appunti vi ho invece trovato spunti piuttosto interessanti e comunque le varie citazioni sono sempre piacevolissime; certo, non viene mostrata l'evoluzione della figura del mercante nel corso dei secoli e rimane quindi la sensazione di una monografia un po' generica che avrebbe potuto anche intitolarsi “Il mercante nell'antichità classica”...
Il “succo” della figura del mercante è che questo era visto con sospetto dal resto della popolazione: era considerata una persona furba, insidiosa, priva di scrupoli, pronta a spergiurare e approfittatrice.
La morale dell'epoca non comprendeva la funzione di intermediario del commerciante e mal tollerava che questi guadagnasse aumentando il prezzo di ciò che comprava visto che non vi “aggiungeva” niente di suo.
I mercanti erano poi considerati abilissimi con le parole e pronti a sfruttare le proprie informazioni in più rispetto al cliente (non solo la conoscenza della propria merce ma anche, ad esempio, dell'andamento del mercato) per avvantaggiarsene senza scrupoli. Di nuovo questo modo di fare andava contro la morale dell'epoca secondo cui, in teoria, il mercante avrebbe dovuto avvisare i suoi potenziali clienti che, ad esempio, un'altra nave con la sua stessa merce sarebbe arrivata in porto nei giorni successivi. In altre parole il mercante avrebbe dovuto informare il proprio cliente di tutto ciò che sapeva, anche a proprio danno, ma questo ovviamente non avveniva (*1).
Poiché la “parola” del mercante era temuta ne viene invece apprezzato il “silenzio”: Giardina cita quindi un passaggio di Erodoto che racconta come i cartaginesi erano soliti commerciare con gli abitanti dell'Africa oltre le colonne d'Ercole. I mercanti cartaginesi disponevano le proprie merci in bell'ordine sulla spiaggia e poi risalivano sulle proprie navi; gli abitanti del luogo sceglievano le merci che desideravano lasciando una certa quantità d'oro e poi si allontanavano; a quel punto ritornavano sulla spiaggia i cartaginesi che decidevano se l'oro era sufficiente per le merci indicate oppure, in caso contrario, la procedura si ripeteva.
Colpisce la reciproca fiducia fra le due parti: i cartaginesi lasciano le proprie merci in balia della popolazione locale e questa fa altrettanto col proprio oro. Ma in effetti in questa maniera il mercante non poteva influenzare il suo cliente con le proprie parole!
L'unica virtù che viene riconosciuta al grande commerciante, quello che trasporta cioè le proprie merci per mare, è il coraggio di affrontare le onde. In questo caso sia il rischio personale che il ruolo civico (fornire merce non altrimenti presenti in città) giustificano il guadagno del mercante sulla merce venduta.
Infine viene espresso molto chiaramente un concetto che mi sta molto a cuore e che ho inserito anche nella mia epitome (*2): «...parlare delle figure sociali in Roma... …significa in massima parte discorrere del modo in cui queste figure erano viste dai ceti che hanno prodotto le fonti che utilizziamo.» (*3). In altre parole i testi antichi a nostra disposizione danno una descrizione del mercante dal punto di vista delle classi dominanti dell'epoca. I mercanti non ci hanno lasciato opere in cui spiegano come vedevano il proprio ruolo sociale ma da diverse iscrizioni funerarie si intuisce, non sorprendentemente, che essi avevano una visione di se stessi molto migliore di quella “ufficiale”.
Incredibilmente interessante e ricco di spunti è invece la monografia successiva: “Il povero” di C. R. Whittaker.
Dei poveri nell'antica Roma non sappiamo praticamente niente: già stimarne il numero è un'impresa difficilissima nella quale l'autore si cimenta per diverse pagine. A questo problema si sovrappone quello della definizione di “povero” che per il mondo romano era molto variabile e che non indicava solamente chi pativa la fame ma, a seconda del contesto, anche chi doveva lavorare per vivere (come ad esempio un artigiano) oppure chi non aveva abbastanza denaro per appartenere all'ordine equestre.
A differenza di altri gruppi sociali, come ad esempio i mercanti o i liberti arricchiti, il povero non ci ha lasciato neppure iscrizioni tombali che ci diano informazioni di prima mano della sua visione del mondo.
Sembrerebbe difficile che con questa penuria di dati l'autore sia riuscito a giungere a conclusioni interessanti ma invece è proprio così: dovendo ragionare a un livello di interazioni sociali molto generico l'autore si è trovato di fronte alle questioni base del rapporto fra gruppi che io stesso affronto nella mia epitome: come viene mantenuta la stabilità sociale nonostante le enormi differenze di ricchezza ([E] 7). Si capisce subito che l'autore affronta il problema armato di una preparazione teorica (*4) che a me manca ma le sue conclusioni sono estremamente affini alle mie e, senza falsa modestia, mi pare anzi che la mia teoria spieghi molto meglio alcune discrepanze.
La conclusione della sua lunga analisi introduttiva è che nell'antica Roma il numero di poverissimi doveva essere preponderante. Diventa quindi precipuo stabilire come fosse possibile mantenere l'ordine sociale visto che siamo in presenza di una società con pochi ricchi e moltissimi poveri ([E] 4.5).
Brevissimo inciso tecnico: a questo punto potrei cercare di riassumere le tesi di Whittaker usando la sua terminologia e, successivamente, tradurle nella “mia” (come ad esempio ho fatto in La parabola di Hegsted). Evito però questa doppia fatica perché da una parte sono pigro e dall'altra preferisco semplificare la lettura per chi mi ha seguito fin qui: ovviamente il “prezzo” nascosto di questa scelta è che traducendo le idee di Whittaker nella mia terminologia inevitabilmente ne distorco un po' il senso trasformandolo in un “adepto”, inconsapevole, di KGB!
Prima di tutto l'autore fa presente una dissonanza cognitiva ([E] 1.3) nei ricchi, che possiamo vedere come i parapoteri dell'epoca. Ovvero come giustificavano i ricchi a se stessi l'ingiustizia della propria vita privilegiata rispetto alle sofferenze della maggioranza di poveri?
In questo caso la dissonanza sta nella consapevolezza della sostanziale uguaglianza fra gli uomini contrapposta al diverso tenore di vita.
La soluzione è quella tradizionale: la creazione di protomiti che “giustifichino” questa contraddizione. Secondo l'autore i ricchi risolvevano la dissonanza pensando che i poveri fossero mentalmente inferiori (più stupidi) o che fossero tali per loro colpa (scarso lavoro e pigrizia).
È interessante notare che queste idee erano per i ricchi romani dei “protomiti” mentre, dal nostro punto di vista moderno, sono dei “miti” (*5) perché noi vediamo chiaramente la loro funzione fuorviante: quella di far credere ai ricchi di meritare la propria ricchezza.
L'autore fa poi notare che sia greci che romani rappresentavano, nei testi che ci sono pervenuti, i poveri in maniera analoga: «Non ci sorprende dunque che Greci e Romani rappresentassero in modo quasi identico la tipologia strutturale e congiunturale della povertà. Sono questi i pregiudizi [protomiti] più diffusi nelle nostre fonti, scritte dai ricchi per i ricchi.» (*6)
Ritorna quindi il concetto che gli intellettuali, che qui tendono a identificarsi con la classe dominante, perpetuano i protomiti, la visione del mondo (epomiti), dei parapoteri del tempo.
Ma gli intellettuali non scrivono solo per autoconvincere (è il limite umano dell'autoinganno [E] 1.1) i ricchi della giustizia della loro ricchezza (vedi la dissonanza da cui siamo partiti) ma anche per convincere i poveri della bontà, o almeno dell'adeguatezza, della loro povertà. In altre parole i protomiti diffusi dagli intellettuali divengono degli equimiti ovvero delle idee che, se condivise, contribuiscono a mantenere l'ordine sociale: se infatti il povero ritiene giusto essere povero e non vede l'ingiustizia della propria condizione allora non si ribellerà a essa.
Ecco che il “condividere” le idee, o meglio gli epomiti ed equimiti del tempo diviene fondamentale: un protomito raggiunge la sua massima forza quando diviene “reale” trasformandosi in una realtà multi soggettiva: questo avviene solo se abbastanza persone credono nella realtà di un protomito.
Diventa quindi una questione importante stabile se e quanti poveri condividessero gli stessi epomiti dei ricchi: se infatti i poveri avessero avuto una propria sub cultura diversa (ovvero epomiti diversi) da quella dominante allora l'equilibrio della società sarebbe stato molto più incerto (*7).
Ecco quindi spiegate tutte le opere moraleggianti sulla bellezza e moralità del duro lavoro: scritti dai ricchi per i ricchi ma i cui riflessi (magari sotto forma di citazioni, ovvero distorsioni) di certo arrivavano anche ai più poveri.
L'autore ribadisce poi quella che era divenuta una mia teoria dopo aver letto la monografia sugli schiavi: ovvero che il lavoro di questi ultimi avesse contribuito a impoverire il “ceto medio” romano. Scrive infatti Whittaker: «I poveri... ...erano stati spossessati non solo a causa dei cattivi raccolti e dei debiti, ma anche dalla diffusione del lavoro degli schiavi... ...acquistati dai proprietari più ricchi per sostituire il lavoro dei poveri e sfruttare le proprie terre. »
A me sembrava infatti il risultato conseguente del lavoro a costo praticamente nullo degli schiavi che contadini e artigiani liberi venissero progressivamente messi fuori dal mercato del lavoro, con i latifondisti che invece si arricchivano comperandone le terre. Vi vedevo una delle basi (l'altra base fu la perdita del potere militare da parte della democratastenia) su cui si fondò il naturale trasferimento di ricchezza dalla democratastenia ai parapoteri ([E] 7.4) che poi, in epoca imperiale, si traduce anche in una sensibile riduzione della libertà con leggi dalle pene diverse in base al censo.
Secondo Whittaker il motivo di fondo (al di là cioè delle contingenze) per cui la massa di poveri non si sollevava contro i pochi ricchi è che una buona parte di questa condivideva le idee (protomiti/epomiti ed equimiti) dei più potenti, probabilmente perché allettati dalla possibilità teorica di entrare a fare parte del loro gruppo. Più sinteticamente: «La volontà di mobilità sociale porta a condividere i valori dei ricchi, fratturando la facciata di una singola cultura della povertà e rafforzando il controllo sociale dei potenti.» (*8)
In altre monografie, come quella sugli schiavi e i liberti, abbiamo infatti visto che perfino gli schiavi liberati, grazie alle competenze maturate, erano in grado di divenire ricchissimi: nel tardo impero la “giustizia” poi prese atto di questa nuova realtà distinguendo non più fra schiavi e liberi ma fra ricchi e poveri.
Esattamente la stessa argomentazione dell'autore l'avevo postulata io per spiegare come mai solo all'epoca della tarda Repubblica/ inizio impero si erano avute rivolte di schiavi: la mia spiegazione (insieme ad altri fattori) era infatti che da una certa epoca in poi la maggioranza degli schiavi condivideva gli equimiti del tempo ed era allettata dall'idea di divenire liberti dimostrando fedeltà e compiacendo il proprio padrone: in questa maniera coloro che si ribellavano perché trattati disumanamente non trovavano l'appoggio degli altri schiavi per un'insurrezione in piena regola e, al massimo, potevano aspirare a divenire briganti al di fuori della società romana.
Se pensiamo infatti agli equimiti come alle catene invisibili che tengono stabile una società, anche se profondamente ingiusta, allora queste saranno abbastanza forti da non spezzarsi se un numero sufficiente di persone crede in esse in maniera da trasformare i relativi protomiti in realtà multisoggettive: questo numero “sufficiente” non equivale alla stragrande maggioranza ma a solo una percentuale variabile di essa in base alla complessione della società.
Altro mezzo per dividere i poveri era quello di dare un minimo di assistenza alla plebe “buona” (ovvero utile perché in grado, ad esempio, di impugnare un'arma) da contrapporre, in caso di necessità, a quella dei veri e propri diseredati. Ecco quindi spiegata l'importanza data al legame del patronato, fra ex padrone e liberti, e alle elargizioni ben mirate.
Per l'autore uno dei motivi della diffusione del cristianesimo fu proprio che questo faceva assistenza sociale indiscriminata (anche a vedove e orfani) e non solo a chi, in caso di necessità, avrebbe potuto essere utile: confrontare con il motivo quinto di Sulla diffusione del cristianesimo.
Come me anche l'autore cita Giuliano e commenta amaramente che, in seguito, il cristianesimo prese un'altra direzione.
Infine l'autore ricorda come tutte le rivolte sociali dell'antichità (fa numerosi esempi) non furono mai completamente spontanee ma sempre manovrate da altri fazioni (parapoteri) per ottenere scopi ben precisi. Le rivolte popolari erano spesso gli strumenti con cui si eliminava un nemico politico o magari si mirava o ottenere riforme che però andavano principalmente a vantaggio di altri gruppi sociali e solo marginalmente del popolo, etc...
Conclusione: e ho tagliato moltissimi spunti interessanti!
Nota (*1): a questo riguardo, la morale antica, mal tollerava la reticenza interessata (dissimulatio) considerandola vera e propria simulazione (simulatio): confrontare con il pezzo Sandel sbaglia.
Nota (*2): sfortunatamente non ricordo esattamente dove ho scritto della relazione fra potere e intellettuali: forse in qualche nota, ma sicuramente lo evidenzierò nel capitolo sull'informazione che ho in mente. Il concetto base l'ho comunque espresso in almeno due pezzi: Da Goofynomics a Baricco e, più recentemente, in Quattro articoli commentati (nel mio commento al quarto articolo).
Nota (*3): L'uomo romano a cura di Andrea Giardina, Ed. Economica Laterza, 1993, pag. 287
Nota (*4): ho anzi la sensazione che Whittaker abbia un'impostazione di tipo “marxista” ad esempio da come insiste sulla divisione dei poveri in “buoni” e “cattivi” effettuata dal potere. Pare che questo sottintenda che i “poveri”, se uniti, avrebbero potuto cambiare la società romana: idea che mi pare un eco del “proletari di tutto il mondo unitevi!”. Voglio fare subito un salto su Wikipedia per vedere se scopro qualcosa al riguardo: niente! Nella mia superficiale ricerca con Google non mi è riuscito scovare una singola riga biografica su C. R. Whittaker (solo qualche altro saggio sull'impero romano)...
Nota (*5): mito nel significato dato nella mia epitome.
Nota (*6): ibidem, pag. 302-303
Nota (*7): Già in Schiavitù romana (2/2) evidenziavo la diversa attitudine degli schiavi catturati e ridotti in schiavitù (quindi con epomiti allogeni) da quelli che invece vi nascono (stessi epomiti del resto della società). Scrivevo «Perché è chiaro che lo schiavo potenzialmente più ribelle è quello che ha conosciuto un'esistenza diversa: chi invece è nato schiavo avrà per natura ([E] 1) pochi problemi ad accettare per unici e immutabili i protomiti ([E] 2) che gli vengono insegnati: solo nel corso di molti anni, e solo coloro con personalità riflessive e autonome, riusciranno a vedere oltre certi protomiti e a immaginarsi nuove possibilità.
Il credere nei protomiti del mondo romano, nel riconoscere il proprio ruolo in tale società, implicano che il gruppo degli schiavi ([E] 3.2) diventa complessivamente sempre più stabile.»
Nota (*8): ididem, pag 321.
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