Attenzione! Questo pezzo mi è sfuggito di mano!
Volevo semplicemente descrivere un’intuizione su me stesso ma, prima ho raccontato una lunga premessa, poi ho avuto altre intuizioni e poi mi sono perso in un aneddoto forse neppure troppo attinente all’argomento del giorno…
Insomma alla fine ho partorito un pezzo lungo e, temo, noioso. Lettore avvisato, mezzo salvato.
Ieri ho avuto un’intuizione sulla mia psicologia. Avevo chiesto a mio padre di mettere per iscritto la sua opinione sul racconto faceto La vita e le opere del lupo di Gubbio scritto qualche settimana fa.
Personalmente lo trovo un pezzo un po’ sottotono, principalmente scritto ormai quando non avevo più l’ispirazione giusta, ma che comunque volli finire perché ormai iniziato.
Di solito infatti questi pezzi nascono la notte, durante un periodo d’insonnia, con le idee che si susseguono e accavallano l’una sull’altra; al mattino scrivo quello che mi ricordo e altre idee mi vengono sul momento. Per “La vita e le opere del lupo di Gubbio” avevo scritto qualcosa al mattino ma poi altri impegni mi avevano distratto dall’opera: a sera o il giorno dopo (non ricordo) decisi di completarla ma ormai non ricordavo più le idee notturne e, avendo perso il giusto umore, mi mancavano le idee che di solito mi vengono da sole senza sforzo…
Il risultato finale mi sembrava decente ma, in alcuni passaggi, un po’ faticoso e non del tutto efficace.
Comunque avevo chiesto il parere di un’amica che, con mio stupore, si era spesa in elogi a mio avviso eccessivi.
Per questo motivo avevo trovato divertente l’idea di mandarle il giudizio sullo stesso pezzo di mio padre che (vedi poi) supponevo negativo.
Il commento, molto stringato, di mio padre è questo:
«Non mi è piaciuto per diversi motivi:
1°) Scherzare su S.Francesco mi sembra blasfemo.
2°) Nel raccontino hai mescolato, e mi sembra a forza, storie diverse di lupi.
3°) Non ho capito cosa volevi dire con questo raccontino. Ricordati il detto popolare "Scherza con i fanti e lascia stare i santi".»
Dal vivo aveva poi rincarato la dose aggiungendo che il racconto era “stupido, senza senso, incomprensibile, etc...” il tutto pronunciato con un tono irrisorio (sottintendendo qualcosa del tipo: “è ovvio, no? Perché me lo chiedi?”) e vagamente scocciato.
Magari questo specifico giudizio può anche essere più o meno corretto e condivisibile ma il punto è un altro: questo suo parere è il modello perfetto dei suoi commenti a ogni (bo, diciamo il 95%?) mia iniziativa fin da quando ero bambino (*1).
L’ABC della psicologia ci insegna che l’approvazione paterna è molto importante per bambini e ragazzi: come ho quindi reagito a questo muro di costante negatività?
Sostanzialmente con l’indifferenza: ho preso atto di non venir capito né apprezzato e me ne sono fatto una ragione.
Ma questo comportamento ha un’interessante conseguenza, e l’intuizione sta tutta qui: se delle opinioni negative di mio padre mi importa poco allora di quelle degli altri (illustri sconosciuti e non) non mi importa niente.
Questa credo sia la chiave psicologica per comprendere perché, ad esempio, non mi deprimo se l’Epitome (nella stesura della quale ho investito molto tempo, impegno e fatica) è stata letta da, letteralmente, un pugno di persone: io credo che l’opera abbia un suo valore e ciò mi basta.
Infatti, da un punto di vista psicologico, sapendo già che a mio padre non piace, la disapprovazione (o in questo caso il disinteresse) altrui non mi tocca né mi ferisce.
Ecco! Un’altra intuizione!
Sapendo a priori che mio padre non approverà (*2) o che, nel caso migliore, cercherà il pelo nell’uovo, magari concentrandosi su pochi difetti e ignorando i lati positivi, allora mi aspetto che lo stesso facciano gli altri. Questo in effetti mi porta a una sorta di pessimismo e minerebbe la mia fiducia in me stesso se, come detto, oramai non ci fossi abituato…
Ripensandoci è però un peccato considerare le opportunità sprecate nella mia infanzia quando poche parole di incoraggiamento avrebbero potuto darmi la motivazione e l’energia per raggiungere chissà quali obiettivi alla portata del mio potenziale.
Alla fine poi sono andato per la mia strada ma trascinandomi dietro una grande quantità di zavorra psicologica mentre sicuramente, con un po’ di incoraggiamento, sarei potuto arrivare molto più lontano.
Potrei fare infiniti esempi ma ormai non ha importanza. Vabbè, tanto per dare l’idea racconterò un episodio che ho ancora ben impresso in mente a distanza (sigh!) di quarant’anni!
Avevo 7 od 8 anni, mio padre mi aveva proposto di insegnarmi a giocare a scacchi. Io ricordavo di averlo visto giocare e quei pezzi di legno mi affascinavano, così accettai.
Mi spiegò brevemente come si muovevano i vari pezzi, mi mostrò lo scacco matto e io, attento, tenni subito a mente tutte le sue istruzioni poi, probabilmente giustamente, mi fece giocare la prima partita. Ovviamente, mancando egli completamente del mio spirito teorico e didattico, non mi aveva dato neppure una vaga idea su come procedere e io mi limitai a cercare di uscire con i miei pezzi (che poi è l’essenza della fase di apertura) stando ben attento a non metterli in presa. Nonostante il mio impegno persi in una quindicina di mosse. Ricordo che mio padre, per il suo solito, mi fece quello che gli dovette sembrare un elogio enorme e mi disse: “Hai giocato benino, ho notato che sei stato attento a non mettere i pezzi in presa”.
In realtà, considerando che quella era la mia prima partita e che mi aveva mostrato SOLO come si muovevano i pezzi, ero stato bravissimo e avevo mostrato una notevole attitudine e predisposizione al gioco! Probabilmente non se ne era reso conto neppure lui (*3) ma se avesse mostrato un minimo di entusiasmo adesso sarei uno scacchista incredibilmente più forte di quanto non sia diventato a dedicarmi a tale gioco dopo i 25 anni!
Ah! e poi aggiunse subito “Facciamo un’altra partita?” senza spiegarmi minimamente dove avevo sbagliato cosa che invece, per la mia natura teorica, avrei apprezzato moltissimo e mi avrebbe motivato a continuare a giocare nonostante le sconfitte. Invece ci pensai qualche momento e capii (e avevo ragione!) che per imparare a giocare a scacchi con mio padre avrei dovuto capire tutto da solo e perdere un centinaio di partite prima di riuscire a metterlo un po' in difficoltà. Così, sopraffatto dall'idea di questo sforzo inane, nonostante che il gioco in sé mi piacesse molto, gli risposi di no.
Ricordo che negli anni seguenti, dopo quell’unica partita, insegnai a mia volta a giocare a mia mamma: però con lei non mi divertivo perché muoveva i pezzi a caso!
Mi è appena venuto a mente che, sempre secondo mio padre, io ho poca costanza in quello che faccio: questo ghiribizzo da solo mi pare che sia la dimostrazione che non è così! Mi chiedo però se la sua impressione sia dovuta al mio atteggiamento dopo i suoi “incoraggiamenti”: quante cose avrò lasciato perdere proprio a causa della sua disapprovazione? E quante non ne ho neppure tentate proprio per non incorrere in essa? Probabilmente molte...
Conclusione: un piccolo pezzo per i lettori ma un gran balzo di comprensione per me…
Nota (*1): a onor del vero probabilmente mio padre cercava di essere onesto trattandomi e valutandomi come se avessi avuto una decina di anni in più: intellettualmente era così (ero molto più maturo della mia età) ma però ero pur sempre un bambino...
Nota (*2): questo è il motivo per cui avevo pensato, a colpo sicuro, di farmi mettere per scritto l’opinione di mio padre e stupire così la mia amica più (forse troppo) benigna!
Nota (*3): più volte ho pensato che se avessi avuto dei fratelli allora i miei genitori avrebbero maggiormente notato le mie caratteristiche peculiari.
mercoledì 6 febbraio 2019
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