Non so quando pubblicherò questo pezzo, probabilmente fra tre o quattro giorni perché ho già altra roba pronta, però devo scriverlo subito prima di dimenticarmene i particolari. Sì, ho letto qualche altra pagina di “On becoming a person” di Rogers e terminato il quarto capitolo!
Il primo sottocapitolo è intitolato “I risultati della terapia”: il meccanismo per cui funziona l’aveva già spiegato (v. Medicina non per tutti) nelle pagine precedenti. In pratica il paziente si sente accettato dallo psicoterapeuta, questo gli fa acquistare fiducia in se stesso e sbocciare come un fiore!
Vabbè, ho semplificato un po’ troppo ma non mi andava di ripetere cosa ho già scritto: comunque il succo super concentrato è questo…
Aggiungo solo che la mia principale osservazione era stata che questo sistema fosse adatto a certe persone, probabilmente la maggioranza, ma non a tutte.
Il sottocapitolo odierno inizia con due statistiche interessanti: quanti pazienti hanno una buona opinione di se stessi e quanti dopo un mese (ma potrebbe essere di più, non ricordo) di trattamento.
Inizialmente l’80% dei pazienti aveva un’opinione negativa di sé che (ho verificato) nell’ultimo “quinto” della terapia cala al 33%. In altre parole il numero di persone con un’opinione positiva di sé si triplica passando dal 20% al 66% (*1).
Nel sottocapitolo successivo cerca di descrivere come il terapista e il paziente vivono la loro nuova relazione dal proprio punto di vista soggettivo: molto interessante e anche divertente. Penso che la sua descrizione dei processi mentali che avvengono sia molto credibile!
Il punto di vista dello psicoterapeuta è come me l’immaginavo da quanto aveva scritto nei capitoli precedenti: nella fantasia dove sono io il terapista posso immedesimarmi facilmente nei vari passaggi psicologici che indica.
Invece in quella molto più complessa e articolata del paziente non mi ci ritrovo: per la precisione nella fase iniziale di “sospetto” verso il terapeuta e di parlare di episodi scarsamente significativi per sondarne le reazioni sì, ma nel 90% del resto no!
Ora non avendo mai fatto una terapia di questo genere non posso essere certo di quali sarebbero le mie reazioni: secondo me non quelle descritte ma c’è sempre la possibilità che io mi sbagli.
Un primo grosso ostacolo sarebbe la mia diffidenza: il mio soprannome non è KGB per nulla! Sono sospettoso e diffidente come una spia.
Talvolta mi capita di pensare all’esercizio in cui, per aumentare la fiducia fra i membri di una squadra, la “vittima” si lascia cadere all’indietro e viene “salvata” da una persona alle sue spalle che ne blocca la caduta. Io non lo farei mai. Ecco, forse con i miei genitori (chiaramente nel pieno delle forze), ma malvolentieri: sarebbe comunque molto stressante. Pensando a questo esercizio mi vengono in mente le parole “follia (fidarsi)” e “pericolo” che lampeggiano in rosso con le sirene di allarme accese.
Tornando a Rogers, cioè alla sua descrizione di come evolva il punto di vista del paziente verso il terapeuta, già nel secondo passaggio non mi ci ritrovo più. Scrive Rogers (descrivendo il pensiero interiore del paziente): «Ma ora che ho condiviso con lui alcuni miei lati negativi inizierà a disprezzarmi. Ne sono sicuro, eppure è strano, non mi pare di vedere indizi del suo disprezzo. Devo pensare che quello che gli ho detto di me non sia così male? Forse è possibile che anch’io non debba vergognarmi di questa parte di me?» (*2)
Io invece mi immagino di raccontargli i miei segreti al terapeuta che inizia così ad ammirarmi sempre di più! Le mie difficili scelte morali, il destino tragico… lo immagino che, umilmente, mi chiede consigli di vita (vabbè, sto ridacchiando mentre scrivo queste parole!)… è che non avrei così tante parti “oscure” di me da rilevare e anche quelle “meno chiare” hanno degli aspetti onorevoli e redimenti.
Il punto è che, come sto ripetendo negli ultimi due-tre pezzi su Rogers, il suo approccio è destinato a fallire su alcune tipologie di caratteri incluso il mio: io non ho assolutamente una visione negativa di me, anzi! Semmai il mio problema è che sono convinto che le altre persone mi vedano negativamente e che, anche chi mi valuta positivamente, comunque mi sottovaluti…
Da questa consapevolezza deriva poi una socialità anomala: la mia sostanziale indifferenza (ma anche rispetto, ecco direi “distanza e oggettività”) nei confronti degli altri e il preferire la mia compagnia. In genere mi trovo benissimo così: i problemi iniziano solo quando vorrei piacere a un’altra persona (leggi “donna”) ma sono impedito dalla consapevolezza di non essere capito/apprezzato/valutato correttamente.
Ma questo problema come può essere risolto dalla terapia di Rogers? Capisco il processo del paziente “ideale” di Rogers che, sentendosi apprezzato dal terapeuta, inizia a capirsi e ad accettarsi, poi a presentare questo nuovo aspetto di sé al mondo, ovvero a cambiare se stesso. Ma io sono già contento di me: cosa mi dovrebbe spingere a cambiare?
Al contrario l’approccio corretto con me (CREDO) sarebbe quello di dimostrarmi che sbaglio ad apprezzarmi così come sono e che quindi dovrei cambiare: ma la vedo dura a convincermi con la logica di un comportamento/modo di essere che ho stabilito con la logica!
Se torniamo ai numeri iniziali di Rogers io sarei nel 20% di pazienti che già si piacciano: sarebbe interessante sapere in che percentuale la terapia è stata efficace su questa minoranza di persone.
Vabbè, poi ci sono numerosi altri passaggi psicologici ma, come detto, non riesco a immaginarmi in nessuna di queste fasi successive…
Poi magari, nel seguito del libro, ci sarà un capitolo sui casi “anomali”: forse io sarò là...
Conclusione: pezzo un po’ insulso questo. Ho scritto più di me che della teoria di Rogers!
Nota (*1): curiosamente Rogers riporta queste cifre in maniera “strana”. Scrive che inizialmente gli scontenti di sé sono in rapporto 4 a 1 con i felici mentre per la successiva statistica scrive che i felici di sé sono il doppio degli infelici: una maniera assolutamente non logica (perché disomogenea) per confrontare questi risultati fra loro!
Nota (*2): tratto da “On becoming a person” di Carl Rogers, (E.) Robinson, 2004, pag. 67.
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