Nel cuore della notte ho avuto l’ispirazione per una poesia/racconto. Mezzo addormentato continuavo a ripetermi l’incipit “Nel mezzo della mia prima vecchiezza...” poi il resto che pensavo affondava fra i sogni inquieti e lo dimenticavo per ripartire poi da capo qualche minuto dopo. Probabilmente però, in questa maniera, ho sovraccaricato il mio inconscio di idee ed emozioni e, quando stamani presto ho provato a metterle nero su bianco, sono riemerse facilmente.
Inizialmente volevo farci una poesia ma ormai ho capito di essere negato. Non ho né la sensibilità né la pazienza per scegliere con certosina attenzione le giuste parole per disegnare un delicato calice di cristallo e non la rozza brocca di coccio incrinata che mi è più congeniale.
Così ho deciso di farne un miniracconto in prima persona, dallo stile epico, forse eccessivo, fumettistico direi, ma che a me piace molto (vedi anche la mia tragedia costruita analogamente AedE: Atto I, Scena I e successivi).
Non so se è il caso di spiegarne il senso, probabilmente non dovrei… fatemi mettere allora un avvertimento:
ATTENZIONE SCIUPATRAMA!!
L’idea è quella di scrivere una metafora su più livelli: un pellegrino vaga per anni alla ricerca di una meta senza però sapere neppure quale sia. Improvvisamente, quando ormai non la cercava più, capisce dove è: si tratta di un tempio bellissimo in cui si è imbattuto per caso. Ma ormai la sua strada lo ha portato altrove, anche se il tempio appare a portata di mano, è in realtà lontanissimo. Il Pellegrino avrebbe dovuto percorrere una strada completamente diversa per poterlo raggiungere e ormai è tardi per tornare sui propri passi: è il tempo stesso che l’impedisce. Al pellegrino non rimane altro che osservare da lontano chi, probabilmente per banale caso e non per scelta consapevole, si ritrova ora là dove lui vorrebbe essere: egli desidererebbe talmente essere con loro che li confonde con i propri amici anche se in verità non li conosce.
Il pellegrino è poi emotivamente lacerato perché sa che il suo destino lo porterà lontano da quella che immagina essere la sua meta: sa che il distacco è inevitabile eppure fatica ad allontanarsene.
Ovviamente il pellegrino rappresenta un qualsiasi uomo che, ormai giunto a un’età più che matura, dubita delle scelte della propria vita: il tempio può infatti rappresentare qualsiasi cosa: una famiglia, una donna, un lavoro migliore, un rimpianto. Qualunque cosa sia si tratta ormai di un’opportunità perduta e irraggiungibile: la scelta è fra il dimenticarla il prima possibile o nello struggersi in un desiderio inestinguibile.
FINE SCIUPATRAMA
Conclusione: a me pare (come quasi sempre del resto!) di aver fatto un buon lavoro ma lascio il giudizio ai miei lettori. Di seguito il miniracconto…
La disperazione del pellegrino
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Nel mezzo della mia prima vecchiezza, mentre ciondolavo stanco seguendo rassegnato l’orlo del baratro della vita, vidi sull’altra sponda, a poco distanza da me, sorgere improvviso dalla nebbia come il sole al mattino un improbabile e raro tempio: bellissimo, slanciato, di marmo pentelico, con orgogliosi minareti e gioiosi rosoni di giada che emanavano una luce così abbagliante da togliere il fiato.
Subito, al primo sguardo, un brivido mi sconvolse, ebbi la sensazione intima di aver infine trovato il mio luogo, la mia destinazione tanto attesa, il dove che avrebbe potuto dare un senso al mio peregrinare. Un desiderio fortissimo di raggiungerlo ed entrarvi a visitarlo si impadronì di me.
Disperato mi accorsi però che dovunque andassi, qualunque sentiero prendessi, me ne sarei allontanato mentre mai avrei voluto separarmene. Con frenesia mi guardai intorno, invano cercai un passaggio che mi permettesse di raggiungere la meta agognata: il vuoto dello strapiombo me lo impediva, per quanto vicino potessi esservi, per quanto mi sembrasse di poter allungare una mano per sfiorare la serica politezza delle sue candide mura, non vi sono ponti capaci di oltrepassare l’abisso profondo scavato dallo scorrere del tempo.
Così salutai i buoni e allegri abitanti del villaggio sull’altro lato, i fortunati inconsapevoli della propria fortuna, i beati che in ogni momento, come se fosse cosa da nulla e non un miracolo, potevano ristorarsi anche solo accostandosi alla sua sacra ombra. Brave persone mi parvero, gentili e industriose, che risposero benevolmente ai miei goffi cenni: perché dunque, anche potendo, maledirli con la mia presenza sfortunata? Che bene avrei potuto recare loro? Perché appesantirli col fardello delle mie miserie polverose? Esse non gli appartenevano dato che ero stato io a sceglierle e ad accumularle con dolore e mestizia.
Le nostre strade mai avrebbero potuto incrociarsi, per quanto mi piacessero, per quanto li sentissi a me affini, mai avrei potuto stringergli la mano e, con vero cameratismo, condividere un pasto insieme; mai avrei potuto conoscerli veramente. Perennemente estranei a cui, dopo uno sguardo, ero già affezionato: amici forse di un’altra vita che non avevo mai vissuto e che eppure mi sembrava di ricordare.
Avrei dovuto immediatamente proseguire per la mia strada, lo sapevo bene, allontanarmi per sempre senza mai volgermi indietro, sperare che una rapace senilità piombasse rapida e con gli artigli affilati mi strappasse dal cuore il mio più sereno, felice, ardente e doloroso ricordo. Lo so, avrei dovuto essere un eroe e accettare il destino, del resto inevitabile. Rassegnato, stringendo gli occhi per rattenere le lacrime disperate, proseguire la via che passo dopo passo, anno dopo anno, avevo ormai percorso e che mi aveva portato lì, nell’inutile nulla dove ero adesso. Ma fui debole e, per quanto potetti e fino a quando lo ritenni lecito per non vergognarmi troppo della mia vigliaccheria, mi attardai il più possibile a mirare vanamente, da lontano, il miraggio di una bellezza eterna, là dove nascono e muoiono i miei sogni…
AVE CESARE
10 ore fa
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