«[Figlio dell'uomo] Porgi l'orecchio e ascolta le parole di KGB
e applica la tua mente alla SUA istruzione
» Pv. 22,17

Qui si straparla di vari argomenti:
1. Il genere dei pezzi è segnalato da varie immagini, vedi Legenda
2. Per contattarmi e istruzioni per i nuovi lettori (occasionali e non) qui
3. L'ultimo corto è questo
4. Molti articoli di questo blog fanno riferimento a definizioni e concetti che ho enunciato nella mia Epitome gratuitamente scaricabile QUI. Tali riferimenti sono identificati da una “E” fra parentesi quadre e uno o più capitoli. Per esempio: ([E] 5.1 e 5.4)

martedì 21 novembre 2023

Economia del cotone

Non so se ho abbastanza materiale per scriverci un pezzo ma ci provo e vediamo cosa ne viene fuori.

La mia lettura di “Cotton is king” procede lentamente ma anche uniformemente.
Per adesso non vi ho trovato rivelazioni straordinarie (o epigrafi utili) ma nell’ultimo capitolo sta emergendo un qualcosa forse non chiaro neppure all’autore del testo. Ovviamente io ho il vantaggio di valutare con un senno di poi di quasi due secoli…

Nel capitolo in questione viene ripreso il punto di vista dell’Economist, e quindi dei poteri economici della Gran Bretagna, sul commercio del cotone. Questo a sua volta fa emergere le motivazioni di possibili complotti fra stati.

Ma prima cerchiamo di fare il punto della situazione. Siamo nel XIX secolo e il Regno Unito è in piena rivoluzione industriale. L’industria trainante è probabilmente quella tessile e i tessuti di cotone sono il prodotto principale che viene poi venduto in tutto il mondo (*1).
In UK vi sono le industrie ma manca la materia prima: il cotone infatti non può essere coltivato in tutto il mondo ma necessita di un clima tropicale.
Lo si può produrre negli stati degli USA del sud, nelle indie occidentali, nelle zone tropicali dell’Africa, in Egitto, in Brasile e soprattutto in India.
Oltre al vincolo del terreno/clima adatto vi è quello della manodopera necessaria a coltivarlo: un lavoratore può produrre solo una certa quantità di cotone: per averne di più è necessaria più manodopera.

Ovviamente gli industriali inglesi vogliono acquistarlo al minor prezzo possibile. Per i motivi sopraddetti l’India sarebbe il produttore ideale avendo sia terre adatte che manodopera in abbondanza: il problema è il trasporto. All’epoca (1860) il canale di Suez (1859-1869) ancora non è stato neppure iniziato (gli articoli sono dei primi anni '50) e i prodotti provenienti dall’India (e dall’oriente in genere) devono circumnavigare l’Africa. In pratica la produzione indiana diviene conveniente e si espande senza problemi (c’è manodopera e terreno) quando negli USA il raccolto è cattivo e, di conseguenza, il prezzo del cotone grezzo sale. La produzione africana, potenzialmente promettente, è invece piccola (*2).

La produzione statunitense è competitiva grazie allo schiavismo il cui costo corrisponde in pratica a quello del cibo necessario per gli schiavi e che proviene dagli stati dell’ovest e del nord.
La produzione statunitense è quindi legata al numero degli schiavi: proprio per questo alcuni si auspicano la ripresa della tratta degli schiavi (abolita dal 1808).
Gli inglesi, mi pare di intuire, non vorrebbero comprare il cotone statunitense perché, suppongo, si rendono conto che gli USA diventeranno loro avversari almeno economicamente (l’ultima guerra fra USA e UK fu del 1812). Al contrario il Regno Unito avrebbe tutto l’interesse a comprare il cotone dalla propria colonia indiana.

Questo è più o meno lo scenario dell’economia del cotone a cui si aggiungono le riflessioni dell’Economist.
La rivista spiega più o meno esplicitamente che il cotone indiano diverrebbe conveniente se non vi fosse la schiavitù negli USA e, al contrario, non lo sarebbe se, per esempio, riprendesse la tratta degli schiavi. La maniera migliore per evitarlo, continua l’Economist, sarebbe attraverso la promozione della coltivazione del cotone direttamente in Africa. Si spiega che se i capi locali si rendono conto che gli schiavi rendono di più a coltivare il cotone che a essere venduti allora non avrebbero ragione di cederli ai trafficanti.
In altre parole gli inglesi non erano contrari alla schiavitù americana per ragioni morali ma solo perché permetteva agli USA di avere quasi il monopolio sulla produzione del cotone: la dimostrazione è che lo schiavismo in Africa non era considerato un problema. Con ipocrisia molto moderna si parlava di “rispetto per le leggi e tradizioni locali”.

Mi viene quindi da pensare che il Regno Unito, al di là di quelle morali, avesse delle motivazioni economiche molto forti per opporsi allo schiavismo (almeno in alcuni stati).

Sarebbe interessante sapere se e quale ruolo abbiano avuto questi interessi inglesi nell’abolizione della schiavitù negli USA e in Sud America.

Conclusione: ovviamente il mio è solo un sospetto ma le motivazioni economiche sono un movente molto forte. Io credo che gli inglesi (cioè i potenti) abbiano fatto di tutto per convincere gli stati del nord (cioè i potenti) dell’utilità di una guerra col sud. Ancora nel 1860 l’autore del libro non crede all’ipotesi di una guerra con il nord che, dal suo punto di vista, non sarebbe economicamente utile a nessuno.

Nota (*1): per esempio la moneta “ghinea” inglese viene da Guinea perché coniata con l’oro ottenuto da tale nazione in cambio di tessuti di cotone (di bassa qualità).
Nota (*2): (secondo me) in Africa il limite non era né di terra né di manodopera ma di mancanza infrastrutture che permettessero di scalare efficacemente la produzione.

Nessun commento:

Posta un commento