Circa due anni fa scrissi il pezzo Sulla gratitudine: un tema ricorrente di molti aforismi dei più disparati autori è che chi riceve un aiuto, se non è in grado di contraccambiare, se ne risenta.
È un qualcosa che faccio fatica a comprendere e per questo il tema mi incuriosisce molto.
Nel Leviatano di Hobbes ho trovato una nuova spiegazione del fenomeno:
«L’aver ricevuto da chi riteniamo sia uguale a noi dei benefici più grandi di quelli che speriamo di ricambiare, ci dispone a contraffare l’amore, ma, in realtà, ad un odio segreto e pone un uomo nello stato di un debitore disperato che, mentre evita di vedere il suo creditore, desidera essere là dove non possa vederlo mai più. Infatti i benefici obbligano, e l’obbligazione è una schiavitù; un’obbligazione non ricambiabile, una schiavitù perpetua, e ciò, per degli uguali, è cosa odiosa.» (*1)
Qui i termini della questione sono di nuovo cambiati: ogni autore mette i propri paletti per definire questo effetto psicologico.
Hobbes introduce il tema che il risentimento, anzi l’odio, lo si ha fra uguali (successivamente invece spiega che se chi fa il favore è qualcuno di superiore allora ciò causa amore); il non poter contraccambiare causa un obbligo perpetuo, cioè una schiavitù, ed è questo che provoca l’odio.
Capisco l’argomento di Hobbes ma questo effetto continua a sembrarmi impossibile: eppure se tanti autori lo descrivono evidentemente deve esserci qualcosa di vero.
Due ipotesi nuove:
1. Che l’obbligo perpetuo equivalga a una schiavitù: se è un obbligo che ci si impone spontaneamente non è schiavitù perché spontaneamente ce ne potremo liberare; se invece l’obbligo è imposto dalla società del tempo allora le cose cambiano. Questo secondo scenario mi sembra plausibile nelle società più antiche dove l’onore aveva un valore precipuo mentre nel mondo attuale mi pare che valga molto meno: questo spiegherebbe perché io non abbia notato il fenomeno.
2. Mi chiedo se non siano proprio gli autori di cui ho letto gli aforismi a sentirsi in debito verso qualcuno e a odiarsi per questo. Per divenire famosi è inevitabile che in un momento della loro vita, nonostante le loro indubbie capacità, abbiano ricevuto un aiuto decisivo da parte di qualcuno: delle grandi menti non potranno non riconoscere l’importanza dell’aiuto e, naturalmente orgogliosi del proprio ingegno, potrebbero odiare che una persona meno degna di loro (magari solo più ricca o nobile di nascita) abbia avuto così tanto potere sul loro destino. Di nuovo, anche in questo caso, è fondamentale come la società del tempo consideri l’onore individuale.
Se fosse possibile delimitare temporalmente questo fenomeno (in base agli autori che lo descrivono) allora sarebbe evidente che non si tratta di una reazione psicologica universale e automatica ma che deve essere anche legata ai protomiti della società del tempo (tipo dal XVII secolo al XIX).
In tal caso sarebbe utile capirne per bene il funzionamento per comprendere quanto ci sia di sincerità e quanto di dovere per esempio nelle lunghe dediche ai sovrani o ad altri protettori.
Mi fa sempre sorridere questa dedica di Bach fatta all’imperatore di Prussia Federico II nel 1747 (da la pagina di Wikipedia Offerta musicale: leggete l’aneddoto riportato perché merita!):
«Graziosissimo Sovrano, con la più profonda sottomissione dedico a Vostra Maestà un'Offerta Musicale, la cui parte più nobile proviene dalle Sue auguste mani.
Con reverenziale piacere ricordo ancora la particolare sovrana grazia con la quale, tempo fa, durante una mia visita a Potsdam, Vostra Maestà si degnò di eseguire alla tastiera il tema per una fuga, ordinandomi di svilupparla subito alla Sua augusta presenza. Fu mio deferente dovere obbidire al comando di Vostra Maestà.
Tuttavia mi accorsi che, in mancanza della necessaria preparazione, l'elaborazione non avrebbe potuto essere quella che un tema così eccellente avrebbe richiesto. Pertanto giunsi alla conclusione, e subito me ne assunsi l'impegno, che era necessario elaborare in modo più approfondito quel tema veramente regale per farlo conoscere al mondo.
Questo proposito è stato realizzato secondo le mie capacità e non ho altra intenzione se non quella irreprensibile di celebrare, benché solo in un piccolo punto, la gloria di un monarca la cui grandezza e forza tutti devono ammirare e venerare, tanto nelle scienze della guerra e della pace, quanto, in maniera speciale, in quelle della musica.
Oso aggiungere questa umilissima preghiera: che Vostra Maestà si degni di onorare il presente modesto mio lavoro con una graziosa accoglienza e che conceda ancora per l'avvenire la Sua altissima grazia sovrana.
Lipsia, 7 luglio 1747.
Di Vostra Maestà servitore umilissimo e obbedientissimo,
l'autore.»
Beh, questo caso, nella classificazione di Hobbes non rientrerebbe certo fra scambi di favori fra uguali ma, mentre altri autori non menzionano questo criterio, può anche darsi che il filosofo inglese l’abbia aggiunto solo per giustificarsi di fronte al proprio benefattore. Del resto trovo difficile che una mente geniale si senta realmente inferiore a qualcuno solamente perché più in alto nella scala sociale…
Conclusione: non so, potrebbe essere una reazione psicologica degli artisti/intellettuali al mecenatismo?
Nota (*1): Tratto da Leviatano di Thomas Hobbes, (E.) BUR 2020, trad. Gianni Micheli, pag. 102-103.
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