Mattinata di lunedì 10 gennaio, ancora senza Internet ma da oggi, in teoria, potrebbe essere aggiustato in ogni momento.
Scriverò di nuovo su Rawls ma prima devo fare una deviazione che passa dalla mia Epitome.
Finalmente, da qualche giorno, mi sono seriamente messo a rilavorare su di essa.
Ho creato un nuovo capitolo (15°) al quale ho aggiunto due nuovi sottocapitoli e ve ne ho spostato uno dal 21° (ora 22°). Però prima di aggiungere il nuovo 15.4 ho stabilito che dovrò scrivere un altro sottocapitolo (probabilmente sarà il nuovo 14.4) a cui farò riferimento.
In questo nuovo sottocapitolo pensavo di inserire un rapido accenno all’utilitarismo e, caso vuole, che il 5° sottocapitolo di Rawls sia proprio su di esso (è intitolato “L’utilitarismo classico”).
Quindi, per poter procedere con l’Epitome, ho deciso di leggere a tappe forzate “Una teoria della giustizia” per vedere cosa scrive dell’utilitarismo Rawls prima di farlo a mia volta per poi, magari, correre a correggere le mie eventuali baggianate.
Per questo stamani (di solito leggo a sera) mi sono letto il terzo sottocapitolo, “L’idea principale della teoria della giustizia”, del tomo di Rawls.
Sciupatrama: l’idea principale di Rawls è che la giustizia debba corrispondere a varie forme di equità. Ma oggi non voglio scrivere di questo quanto piuttosto sottolineare che mi sono trovato per la prima volta in disaccordo col filosofo americano (o magari è inglese? (*1)) con ben due obiezioni. Inizialmente mi sembrava qualcosa di poco conto, una finezza cioè, ma più che ci penso e più che mi pare significativa.
Come accennato, alla base del tutto, Rawls pone un patto sociale stabilito e accettato da un gruppo di persone uguali (equità): è, per esempio, solo dai principi guida stabiliti da questo accordo che dovrà nascere la costituzione su cui, a sua volta, saranno stabilite le leggi.
Ovviamente, spiega Rawls, si tratta di un artificio teorico: mai nella storia dell’uomo, un gruppo di persone ugualmente libere e indipendenti si è accordato fra loro per stabilire un patto che permettesse loro di vivere e cooperare insieme con reciproco vantaggio. Però, secondo Rawls, questa ipotesi permette di ipotizzare un patto sociale che sia il più equo possibile.
Queste ipotetiche persone vengono poi caratterizzati con vari attributi: sono razionali, cercano il proprio vantaggio ma non vogliono danneggiare gli altri (sono giuste), sono indifferenti (senza pregiudizi) alle posizioni altrui e simili.
E qui arriva la mia prima obiezione: le persone non possono essere esattamente uguali fra loro e, contemporaneamente, avere opinioni diverse: anche supponendo gli uomini biologicamente identici anche solo le diverse esperienze di vita plasmano poi nature difformi.
Per questo il mio primo aggiustamento a questo assunto della teoria di Rawls (forse un ricordo semi-inconscio di qualcosa detto dal professor Sandel e riemerso adesso) è che non ci si dovrebbe immaginare delle persone che si riuniscono insieme per stabilire un patto sociale che vada bene a tutti sapendo poi, che il giorno dopo, ognuno sarebbe tornato a fare il proprio mestiere. In tal caso infatti l’unico ricco del gruppo sarebbe ingiustamente penalizzato dato che la stragrande maggioranza sarebbe conscia di non essere nella sua situazione.
Il mio “aggiustamento” è quello di immaginare l’assemblea del patto sociale formata da entità astratte, che possiamo immaginarci come fantasmi con esperienza di una vita passata, che sanno che poi si incarneranno casualmente in membri della società di cui hanno stabilito i principi guida. In questo modo si garantirebbe una maggiore imparzialità nello stabilire cosa debba essere giusto per tutto (equità).
Chiaramente la mia ipotesi è totalmente irrealistica ma comunque anche quella di Rawls lo era, sebbene fosse apparentemente più plausibile! Però immaginarsi in questa ipotesi rende più semplice pensare all’ipotesi di “indifferenza” come lo definisce Rawls.
Sfortunatamente ho continuato a ragionarci e sono arrivato così alla mia seconda obiezione ben più significativa della precedente.
Il patto sociale che viene stabilito dall’assemblea dipende dalle persone/entità che la compongono: se la maggioranza di queste è costituita da contadini (o fantasmi di essi) arriverà a conclusioni diverse da quanto deciso da un assemblea in cui la maggioranza è data da insegnanti (od, ovviamente, fantasmi di essi!).
In realtà Rawls mette anche una sorta di vincolo aggiuntivo alla base del patto sociale: ovvero che eventuali diseguaglianze (di ricchezza o potere) nella società sono giustificate se producono benefici alla società e, soprattutto, alle persone più svantaggiate.
Ma questo non è sufficiente: ciò che è considerato un “beneficio sufficiente” varierà in base alla composizione dell’assemblea.
In altre parole non è possibile immaginarsi un’assemblea, per quanto ipotetica, che sia perfettamente equa (cioè giusta nel senso di Rawls) nello stabilire il patto sociale.
Non solo: mi pare lecito assumere che non è assolutamente sicuro che, nonostante le migliori intenzioni e la maggiore equità possibile dei partecipanti, che l’assemblea arrivi a un patto sociale giusto, cioè che dia poi vita a una società equa. In altre parole l’assemblea, pur volendo ottenere in piena buonafede il migliore dei patti sociali possibili, potrebbe arrivare a un insieme di principi che poi, nella loro applicazione reale, generano ingiustizia invece di eliminarla!
L’unica soluzione che mi viene in mente è quella di una periodica revisione del patto sociale stabilita da un assemblea formata da entità formatesi nella società scaturita dalla versione precedente. In altre parole il patto sociale non può essere un’astrazione assoluta, valida e stabilita una volta per tutte, ma qualcosa invece di relativo e in costante evoluzione.
Volendo questa è la mia “solita” obiezione (mi pare di averla già rivolta a Hobbes) in cui, nella realtà, chi nasce in un qualunque Stato si trova a dover convivere con decisioni e principi presi da altri magari secoli prima. Io non ho votato il referendum sull’approvazione della costituzione italiana né, tantomeno, gli statunitensi di oggi hanno approvato la costituzione del 1793 (*1). Eppure queste realtà multisoggettive ci obbligano e condizionano pesantemente.
Che peso dare a queste mie obiezioni a Rawls stabilitelo voi: personalmente sono ancora incerto.
Già che ci sono aggiungo un ulteriore considerazione di genere però completamente diverso.
Scrive Rawls: «Invece i maggiori benefici ottenuti da pochi non costituiscono un’ingiustizia, a condizione che anche la situazione delle persone meno fortunate migliori in questo modo.» (*2)
Questo principio mi sembra non contraddica la mia idea draconiana per risolvere le diseguaglianze economiche che ho proposto in [E] 17.3: ovvero alla morte di una persona le sue ricchezze oltre a una certa soglia (bassa) spettante ai familiari, andrebbero ridistribuite a tutti i suoi dipendenti ed, eventualmente, assegnate a sorte ad altri membri della società.
Sui principi che mi hanno portato alla formulazione di questo sistema (per esempio sul perché eviterei di includere lo Stato nella gestione e distribuzione di questo denaro) rimando alla lettura della mia Epitome: qui mi limito a sottolineare come la mia proposta non sia in contraddizione con quanto affermato da Rawls. Se infatti alla morte di un super ricco il 99,9% dei suoi miliardi di dollari vengono ridistribuiti alla società allora, direi quasi per definizione, essa ne trae beneficio.
Conclusione: libro immenso questo di Rawls!
Nota (*1): appena avrò Internet verificherò… grazie Fastweb… etc.
Nota (*2): tratto da Una teoria della giustizia di John Rawls, (E.) Feltrinelli, 2021, trad. Ugo Santini, pag. 35-36.
alla prima stazione
1 ora fa
Nessun commento:
Posta un commento