Eccomi! Ho letto il sottocapitolo 5 di Rawls sull’utilitarismo classico e mi sembra di aver afferrato tutto: per memorizzare meglio i concetti imparati (oltreché, naturalmente, per il piacere dei miei lettori) vedrò di riassumere in questo pezzo quanto appreso. Cercherò anche di tenere ben separate le affermazioni di Rawls dalle mie eventuali considerazioni che, quindi, evidenzierò con la solita sigla [KGB].
Prima di tutto una premessa: una teoria etica dipende fondamentalmente da come definisce il bene e il giusto. La morale per il singolo individuo può essere ricavata dai precedenti principi.
Per l’utilitarismo una società è giusta quando le sue istituzioni sono massimamente utili alla sua popolazione, ovvero sommando insieme l’utilità che danno alle singole persone.
[KGB] questa definizione è più aggiornata di quella “classica” di Bentham, qualcosa del tipo: “la massima utilità per il maggior numero di persone”.
La società viene considerata come fosse un’unica persone che cerca di ottenere per sé il maggior benessere dato dalla differenza aritmetica fra utili e perdite.
Caratteristica interessante di questa teoria è che fra bene e giusto sono totalmente scollegati fra loro: nel senso che l’utilitarismo cerca solo di massimizzare il bene (utilità) e subordina il giusto alla realizzazione di tale obiettivo. Il giusto cessa di essere un principio indipendente e viene considerato nell’ottica teleologica (ovvero della realizzazione dei fini) di raggiungere il massimo bene (utilità) per tutti. Il bene quindi nell’utilitarismo non dipende dal giusto ma anzi lo determina.
Il fascino delle teorie teleologiche è che sembrano intuitivamente incorporare l’idea di razionalità: la razionalità va a sovrapporsi all’idea di massimizzare qualcosa.
Inoltre, in questa massimizzazione, non ci si preoccupa dei singoli individui: quello che conta è unicamente la somma complessiva. Questo accade perché come i beni (nel senso delle ricchezze!) debbano essere distribuiti dipende propriamente dal principio del giusto.
Le dottrine teleologiche si differenziano fra loro in base a ciò che identificano essere il fine da raggiungere (e quindi il bene): se il fine è l’eccellenza l’umana (Aristotele e Nietzsche) si ha il “perfezionismo”; se è il piacere si ha l’edonismo; se è la felicità si ha l’eudaimonismo etc.
[KGB] questa precisazione di Rawls, per quanto interessantissima, mi mette un po’ in imbarazzo. Nella mia teoria dell’epitome io pongo il fine della società non esattamente nella felicità ma nella possibilità delle felicità: non mi ero reso conto che da questo punto di vista la mia teoria e l’utilitarismo sono “cugini” in quanto diverse teorie teleologiche. Vabbè, l’utilitarismo corrisponderebbe al cugino rozzo e ignorante del mio raffinatissimo eudaimonismo: in una famiglia ci può stare...!
L’utilitarismo è quindi una teoria teleologica che ha il fine di massimizzare la massima soddisfazione di desideri (utilità) dell’intera popolazione.
Ammette Rawls: «È impossibile negare il fascino e la plausibilità immediata di questa concezione.» (*1)
Ma come accennato la debolezza sta nel fatto che nel concetto di massimizzazione si perdono i singoli individui: quello che conta è solo la somma complessiva dell’utilità per l’intera società.
[KGB] qui mi piacerebbe citare un mio pezzo e quello in cui riportavo le considerazioni filosofiche di Zhok sulla logica del verdepasso: tanto per far capire ai miei lettori che quando sembro vaneggiare con “ragionamenti assurdi” in realtà scrivo di queste cose qui. I concetti basi della morale sono questi: sfortunatamente i nostri politici (e del resto la maggioranza della popolazione) non hanno gli strumenti culturali per comprenderli (né comunque vorrebbero farlo).
Per l’utilitarismo quindi «non c’è alcuna ragione di principio per la quale i maggiori vantaggi di alcuni non dovrebbero compensare le minori perdite di altri: o, in termini più rilevanti, perché la violazione della libertà di pochi non potrebbe essere giustificata da un maggiore bene condiviso da molti.» (*2)
Nel passaggio di cosa sia il bene nell’utilitarismo alla sua applicazione nella società si immagina la figura teorica dell’osservatore imparziale che dà un peso ai desideri (massima empatia) dei vari membri della società e decide di conseguenza come agire per massimizzare il tutto: ovviamente con massima imparzialità e razionalità.
In altre parole nell’utilitarismo il legislatore diviene simile a un imprenditore che però, invece di cercare di massimizzare gli utili punta all’utile (!).
[KGB] ed ecco che questa lettura mi aiuterà moltissimo a distinguere in maniera precisa il mio profittismo come degenerazione dell’utilitarismo: il legislatore, ovvero il parapotere politico non è più imparziale ma totalmente schierato con i parapoteri economici; ma soprattutto il fine teleologico del profittismo non è più la massimizzazione dell’utile per la maggioranza della popolazione ma, piuttosto, del profitto per le grandi aziende. Il profittismo ha quindi i limiti intrinsechi dell’utilitarismo senza avere poi la sua parvenza di giustificazione morale.
E qui la descrizione di Rawls si interrompe. Non sono sicuro che la “demolizione” dell’utilitarismo (che è l’obiettivo dichiarato di Rawls) sia nel prossimo sottocapitolo 6 (“Alcuni contrasti connessi”) o se magari si trova nelle successive 500 pagine. Però già questa breve sintesi mi sarà utilissima per la stesura dell’Epitome: vedo già influenze che si propagano qua e là fra i miei capitoli…
Conclusione: sono le 11:30, in mezz’ora mi leggerò il sottocapitolo successivo!
PS: no. Nel sottocapitolo 6 Rawls mostra solo i potenziali contrasti fra la sua teoria della “giustizia equa” e l’utilitarismo ma anche dove questi sono presenti non approfondisce quale sistema sia più “giusto” e perché. Comunque questo sottocapitolo mi ha fatto indirettamente capire meglio i precedenti e, in particolare, che ho sottovalutato l’importanza di un paio di concetti (ma anche Rawls poteva evidenziarli meglio!).
Nota (*1): tratto da Una teoria della giustizia di John Rawls, (E.) Feltrinelli, 2021, trad. Ugo Santini, pag. 45.
Nota (*2): ibidem, pag. 46.
alla prima stazione
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