Sto continuando a seguire abbastanza assiduamente le puntate di “Fuori Controllo” (Gli incomprensibili) la trasmissione diffusa tramite FB dell’associazione degli “Imperdonabili” (v. Gli imperdonabili).
Ieri ho visto forse la puntata più interessante: era intervistata la professoressa universitaria (di sociolinguistica mi pare) Vera Gheno famosa per la proposta di introdurre la schwa e, in generale, molto attenta all’uso di un linguaggio politicamente corretto.
In realtà poi della schwa non si è parlato molto e il discorso si è più concentrato sul rapporto fra politicamente corretto e lingua. Sfortunatamente non c’è stato alcun accenno ai forestierismi, tema che mi sta molto a cuore, se non indirettamente attraverso l’accenno che l’italiano è vivo e sta benissimo (da cui, presumo, che i forestierismi non sono un problema).
E in genere i linguisti infatti non se ne preoccupano: l’argomento che adoperano è che la “lingua è viva” ed evolve spontaneamente, la maggioranza dei forestierismi vengono poi dimenticati mentre i termini di uso più frequente vengono poi assimilati. La mia obiezione la conoscete: il problema è che oggi la maggioranza degli italiani ha un’infarinatura d’inglese e questo, SECONDO ME, inceppa il meccanismo di italianizzazione delle parole. Vabbè: ma l’importante qui è il concetto di lasciare la lingua libera di evolversi invece di cercare di contrastare attivamente i forestierismi (specialmente anglicismi).
Ho ribadito questo principio per evidenziare poi quella che a me sembra una contraddizione.
La professoressa infatti è favorevole al politicamente corretto perché lo vedo come un mezzo per tutelare le minoranze più deboli che altrimenti rischiano di sentirsi tradite e abbandonate dalla propria lingua (*1). Per questo la società e, credo, la politica è bene che intervenga promuovendo (ma senza imporli) i termini politicamente corretti.
Ecco non capisco perché per i forestierismi sia giusto non intervenire mentre per il politicamente corretto sì: perché da una parte si dice che la lingua evolve da sola e da un’altra che invece va guidata? Questo da un punto di vista puramente linguistico senza considerare morale o politica.
Perché poi il “politicamente corretto” alla fine, come esprime la stessa locuzione, è anche una questione politica e quindi il relativo “corretto” non è uguale per tutti ma cambia in base all’ideologia. Per questo che la forza temporaneamente al governo, e quindi rappresentativa di solo una parte, voglia andare a cercare di forzare la lingua, che invece è un qualcosa di assolutamente comune e condiviso dalla popolazione, mi pare sbagliato e, anzi, arrogante di per sé.
Infine anche ammettendo che la lingua debba essere inclusiva per evitare che minoranze si sentano offese o penalizzate da essa (*1) mi pare che comunque le priorità dovrebbero essere altre.
Mi spiego meglio: personalmente sono favorevole a leggi che concretamente tutelino e proteggano i gruppi sociali più deboli, soprattutto nella loro libertà individuale di essere se stessi, e mi sembra ipocrita fermarsi invece all’apparenza più esteriore dei termini.
La seguente battuta di Lercio.it mi sembra riassumere perfettamente questo mio pensiero: Donna senzatetto chiede aiuto alla Boldrini e lei l’accontenta coniando il termine clocharda.
Mi viene da pensare che se le rivendicazioni di una minoranza sono esclusivamente linguistiche allora vuol dire che i suoi problemi più importanti sono già stati risolti.
Ma torniamo al fenomeno linguistico: da una parte (forestierismi) si è detto che la lingua si evolve da sola; da un’altra (politicamente corretto) che questa vada guidata. Il risultato di queste due asserzioni sarebbe allora che tentare di guidare la lingua sia comunque un esercizio futile perché poi essa, quando si cerca di forzarla, trova altre soluzioni.
Si può verificare questo fenomeno?
Dovrei avere più informazioni per potermi esprimere con maggiore sicurezza ma la mia sensazione è che sia così.
Alcuni termini introdotti perché sentiti politicamente corretti sembrano invecchiare precocemente: la lingua, evidentemente in maniera spontanea, finisce per attribuire loro un retrogusto di significato negativo e, quando questo avviene ed è percepito, allora il politicamente corretto riparte da capo e impone un nuovo termine.
Pensavo a come sono chiamati gli immigrati africani: negli anni ‘80, agli albori del fenomeno, si trovava spesso la definizione, credo inizialmente solo ironica, di “vu’ cumprà”; poi il termine ha preso una sfumatura sempre più negativa e allora si è passati al sicuramente più neutro “extra comunitari”, ma di nuovo dopo qualche anno non è andato più bene; ecco quindi il semplice “immigrato” che non distingue fra UE e fuori UE; ma anche questo non è stato sufficiente: adesso si usa quasi esclusivamente il participio “migrante” che ha forse un suono poetico e suggerisce un’apparente temporaneità del fenomeno.
Alla fine ho la sensazione che le parole che esprimono un qualcosa di percepito come negativo dalla popolazione, a torto o ha ragione, siano come il pesce: quando invecchia (nel caso delle parole si tratta di anni e non di giorni) inizia a puzzare.
Da un altro punto di vista questa è una conferma del mio precedente punto di vista: se a un problema si cambia solo il nome invece di risolverlo allora si ottiene solo un beneficio ipocrita e temporaneo. Il politicamente corretto non risolve niente ma nasconde i problemi reali senza affrontarli: nasconde un pesce sotto il divano invece di riporlo nel freezer e, quando puzza, lo sostituisce con un altro.
Ovviamente non ho fatto in tempo a chiarirmi le idee abbastanza velocemente da porre alla professoressa in diretta queste mie obiezioni che, del resto, se non si è al di dentro di queste tematiche non sono facili da esprimere in maniera chiara senza banalizzarle.
Conclusione: spero di non aver dato un’impressione sbagliata! L’intervista è stata interessantissima e, di sicuro, la migliore di quelle viste fino ad adesso specialmente per la chiarezza della professoressa capace di esprimersi con termini semplici, sintetici e diretti (in effetti la necessità di adattare il proprio registro espressivo a seconda dei contesti era un altro dei suoi cavalli da battaglia).
Nota (*1): che poi, ci ho pensato rileggendo quanto ho scritto, che senso ha sentirsi “traditi” da una lingua dato che questa non ha certo una sua volontà. Semmai la lingua è il riflesso del pensare della popolazione e, quindi, è da questa che la minoranza dovrebbe sentirsi tradita: ma se è così allora tentare di agire sulle parole equivale a intervenire sull’effetto, non sulla causa.
D’accordo l’obiezione della professoressa è che comunque le parole cambiano il modo di pensare di chi le adopera: certamente è vero: il politicamente corretto introduce una tendenza in una direzione di pensiero ben specifica ma, se di concreto non si fa niente altro, alla fine è una misura inefficace: vincono le tendenze concrete. Come ho scritto nel prosieguo sembra che addirittura il termine politicamente corretto finisca per venire travolto e distorto, assumendo un retrogusto di significato indesiderato…
alla prima stazione
1 ora fa
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