A inizio gennaio ho finito di leggere “Un nuovo mondo” di Eckhart Tolle: non sapevo bene cosa aspettarmi ma me l’aveva consigliato un’amica e io ero curioso.
Ho così iniziato a leggerlo come fosse un testo di psicologia, con molta attenzione, inserendo le note a margine, evidenziando le definizioni, insomma come di solito faccio con i libri “impegnativi” che leggo.
Dopo qualche capitolo ho però iniziato a notare dei problemi di consistenza interna, piccole cose, magari frutto di una mia errata interpretazione o ricordo ma che, posso dire a mia difesa, di solito non mi capitano.
In seguito mi sono reso conto che Tolle prende idee, teorie e concetti da vari campi (come la psicologia o le religioni) e le combina insieme, sincretisticamente, in un proprio sistema spirituale. Ecco, alla fine il passo chiave è questo: io mi aspettavo un testo scientifico da capire con la razionalità mentre invece va letto col cuore. Un po’ come fosse un’opera religiosa: senza la pretesa di capire ogni “mistero” ma cercando di intuire i concetti generali.
L’idea di fondo di Tolle è quella di dare al lettore più strumenti, ovvero le idee contenute nel libro, per avviare un cambiamento totale nella visione di sé e del mondo, una vera e propria metanoia.
Secondo Tolle il nostro vero io non è la vocina con cui pensiamo nella nostra testa ma è un’essenza, fuori dal tempo, consapevole solo della propria esistenza e capace di vivere in armonia con la realtà quotidiana in una sorta di eterno presente distaccato e indifferente dalle normali paure: a partire da quella della morte e dell’invecchiamento.
Il seguace dell’insegnamento di Tolle affronta quindi la vita con serena indifferenza e sente di far parte di un qualcosa di più grande, di un’essenza vitale che pervade tutta la realtà, anzi l’intera galassia a detta dell’autore.
Da metà libro in poi sono diventato progressivamente più scettico e ho iniziato ad annotare i dettagli che non mi tornavano o sui quali non ero d’accordo. Credo però sia inutile che mi soffermi su questi singoli elementi: per dargli un senso comprensibile al lettore dovrei cercare di riassumere il pensiero di Tolle (cosa che farei male perché è un testo spirituale e non scientifico) per poi contrapporgli le mie obiezioni. Un’operazione faticosa e difficile per me e comunque noiosa e forse inutile per il lettore.
Mi limiterò quindi a spiegare la mia obiezione di fondo.
Non metto in dubbio che questa teoria di Tolle possa essere di conforto e aiutare realmente chi cerca di applicarla nella vita quotidiana. Sono anche sicuro che chi accetti la sua visione riesca effettivamente a trascorrere una vita più felice, o almeno con l’illusione di esserlo.
L’accenno all’illusione di felicità non è casuale ma è un effetto della mia critica principale e che ricalca il pensiero di Marcuse sulla psicologia alternativa.
Per Freud è la società moderna che causa con la sua ingiustizia inerente gli stress che, alla lunga, rendono infelici la maggioranza degli uomini.
Marcuse riconosce che effettivamente la civiltà moderna è la fonte principale dell’infelicità umana ma crede anche che sarebbe possibile rifondare una nuova società, più giusta ed egalitaria, che abbia i vantaggi del mondo attuale senza i suoi difetti.
Per operare questo cambiamento è però necessario riconoscere quali siano i problemi, le grandi ingiustizie del mondo moderno, e adoperarsi per risolverli.
Insomma per Marcuse il problema alle nevrosi dell’uomo moderno lo si risolve non curando il singolo, convincendolo che il mondo è giusto così com’è e che ci dovremmo accontentare di come stiamo: piuttosto va eliminata la fonte concreta e reale della nevrosi, ovvero le ingiustizie della società.
La spiritualità di Tolle rientra, mi pare, in questo filone di psicologia alternativa secondo la quale, essenzialmente, l’uomo deve accettare il proprio stato di infelicità, le ingiustizie che quotidianamente deve subire, e anzi convincersi che tutto ciò non è veramente importante, che non conta veramente, e accettare quindi serenamente ogni sopruso.
La mia obiezione a Tolle è quindi nella sua essenza morale: è sbagliato accettare l’ingiustizia e non adoperarsi per combatterla, la nostra felicità (o, secondo me più appropriatamente, serenità) non deve prevalere sul giusto. L’indifferenza di Tolle mi pare abbia un’essenza nascosta profondamente egoistica: ignorare il mondo, ignorare le ingiustizie, o accettarlo così come è equivale anche a ignorare il prossimo e le sue sofferenze. Ciò non può essere morale.
L’uomo felice di Tolle è quello che, invece di risolvere i problemi che lo circondano, chiude gli occhi e si immagina di vivere in un mondo perfetto così com’è, non importa come sia. La felicità propugnata da Tolle non è reale ma è un’illusione egoistica di felicità.
Un’ultima metafora per ribadire come considero il pensiero di Tolle: se la società fosse un formicaio gli uomini dovrebbero essere felici di essere come semplici formiche operaie; dovrebbero accontentarsi di lavorare tutto il giorno per il beneficio della formica regina e di altri pochi privilegiati: ritenerlo lo schema naturale e ineluttabile delle cose, uno stato armonico a cui bisogna piegarsi invece di resistere. Il problema è che gli uomini non sono formiche e hanno diritto a un’esistenza più completa e piena.
Conclusione: non saprei come concludere, mi sembra di aver ben espresso il mio pensiero. Allora ne approfitto per spiegare il titolo, particolarmente sciocchino, di questo articolo: è frutto di un “corto circuito” associativo nella mia memoria allenata con Anki. Ogni volta che leggevo il nome “Tolle”, scritto in grande nel mezzo della copertina, mi veniva in mente la frase evangelica «surge, tolle grabattum tuum, et ambula» che è menzionata nella definizione della Treccani.it per “carabattola”!
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