Ultimamente dormo male: mi sveglio verso le 4:00 e, a seconda dei casi, faccio fatica a riaddormentarmi. Spesso mi fisso su qualche pensiero che si ripresenta in maniera ossessiva (*1).
L’altra notte è stata colpa di una pellicola che avevo terminato di vedere su Netflix: “Downsizing”.
Il finale mi aveva lasciato perplesso (da sveglio): l’avevo trovato debole, addirittura anodino.
Per spiegare le mie perplessità dovrò raccontarne la trama in maniera più dettagliata del solito.
SCIUPATRAMA: il protagonista, grazie a una nuova invenzione, viene rimpicciolito a un’altezza di pochi centimetri. Ufficialmente le persone lo fanno per salvare l’ambiente visto che una persona così piccola inquina migliaia di volte meno, in verità però per la maggioranza i motivi sono economici: richiedendo solo una frazione di risorse per vivere i costi per ogni necessità sono estremamente ridotti. Delle agenzie organizzano comunità di “ridotti” che non lavorano ma vivono di rendita visto che i loro risparmi sono, praticamente, moltiplicati per 100.
Il protagonista si fa ridurre insieme alla moglie o, almeno, così crede visto che lei all’ultimo minuto scappa via e se ne torna a casa: ovviamente poi segue il divorzio e il protagonista, non avendo più i soldi sperati, si ritrova a dover accettare dei lavori scadenti nella piccola colonia.
Il protagonista scopre così che nel villaggio vive anche una dissidente vietnamita rimpicciolita dal suo governo per motivi politici e giunta anni prima come profuga negli USA. Anche lei avrebbe potuto vivere tranquillamente a spese del governo ma, nonostante abbia perso una gamba, preferisce lavorare e, soprattutto, aiutare i ridimensionati più sfortunati che, ovviamente, lontano dagli occhi di chi vive nel lusso, non potevano mancare.
I due si ritrovano poi a visitare la prima colonia di rimpiccioliti in Norvegia (dov’è stata inventate la procedura di riduzione). Gli abitanti sono scienziati e tutti grandi ambientalisti che speravano di salvare il mondo riducendo massicciamente tutta la popolazione mondiale: adesso però, a causa di un esponenziale peggioramento dell’effetto serra, provocato dalla liberazione nell’atmosfera del gas metano imprigionato dai ghiacci dell’Antartide, hanno ormai scoperto che per l’umanità non c’è più salvezza perché il disastro climatico è inevitabile.
La colonia di ecologisti norvegesi ha però un piano B: nascondersi in un rifugio sotterraneo completamente autosufficiente per circa 8000 anni e aspettare lì che il clima ritorni normale.
Il protagonista vorrebbe accettare l’invito della colonia e scendere anch’egli nel rifugio con la sua compagna vietnamita: lui vede nella sua vita, nelle coincidenze che l’hanno portato in quel luogo proprio in quel momento, un segno del destino. La sua compagna vietnamita però non vuole seguirlo e infine lo dissuade convincendolo a tornare nella colonia americana ad aiutare con lei i più bisognosi. Fine.
Insomma, una pellicola senza colpi di scena (a parte quello della moglie), con pochi momenti divertenti (c’è sempre una sensazione di angoscia che pervade anche i momenti felici), distopico ma in maniera sottile: la distopia non viene mostrata direttamente ma la si percepisce dietro il mondo illusorio della colonia americana. Alla fine direi che si tratta di una pellicola da 6½, o addirittura 7-, ma niente di eccezionale.
Durante la notte insonne però sono tornato a rifletterci e non ho potuto fare a meno di pensare ai messaggi più nascosti della pellicola.
Il film è solo apparentemente ecologista: il messaggio principale del regista è infatti un altro. È più importante aiutare il proprio prossimo che salvare la razza umana nascondendosi nelle viscere del pianeta. Lo conferma il protagonista che, rinunciando al proprio “destino”, rinuncia in verità al proprio egoismo, all’idea di essere “speciale”.
Nel sonno non facevo che ripensare a questi elementi: vi intravedevo un parallelo con l’ecologismo sterile e ipocrita rappresentato da Greta Thunberg. Ora, da sveglio e a quasi un giorno di distanza, non mi sembra più così evidente…
Però rimasi sveglio ore a baloccarmi con questi pensieri, non completamente sveglio né addormentato…
Stanotte invece non riuscivo a smettere di pensare a dei numeri che mi aveva dato un amico ingegnere con cui ero uscito a cena fuori.
Gli avevo raccontato che alle elementari (*2) mi avevano spiegato che a ogni trasformazione da una forma di energia in un’altra se ne perde, massimamente in calore, una parte. Una vettura a benzina trasforma l’energia chimica della benzina in energia cinetica, ovvero in movimento; ma l’elettricità che fa muovere una macchina elettrica subisce un passaggio ulteriore e quindi, il suo inquinamento è maggiore (poi dipende tutto da come è stata prodotto l’energia elettrica: vedi poi).
I numeri che mi aveva dato erano 45% efficienza motore a benzina, 50% motore diesel e 55% motore elettrico (ma potrei ricordare male).
Il motore elettrico è più efficiente semplicemente perché ci sono meno componenti che si devono muovere. Ma bisogna considerare da dove arriva l’energia elettrica usata per alimentare la macchina.
Se è stata prodotta da fonti pulite (idroelettrica, solare, eolica, geotermica, etc…) allora non c’è inquinamento a monte dell’auto elettrica: e di questo ero consapevole.
Ma cosa succede se l’energia elettrica è prodotta da fonti non rinnovabili come gas o carbone?
Qui il mio amico era meno sicuro ma ha ipotizzato che, comunque, le grandi centrali a gas siano molto efficienti: ha ipotizzato un 90% di efficienza (lo stesso, se ricordo bene, per quelle nucleari). Il problema semmai è per quelle a carbone, meno efficienti, in cui l’unico vantaggio dell’auto elettrica si riduce a non inquinare in città ma, complessivamente, la centrale a carbone, per produrre l’energia elettrica usata dall’auto, inquina di più di quanto farebbe un auto a benzina).
Nel complesso l’amico era quindi assolutamente favorevole alle auto elettriche.
Nella notte mi sono però reso conto che il 90% di 55 è 49.5%: insomma l’auto elettrica, ipotizzando centrali molto efficienti, non è così superiore ai motori tradizionali.
In più c’è da considerare l’impronta ecologica delle batterie al momento prodotte con materiali rari e inquinanti: l’amico mi ha risposto che è vero ma che, probabilmente, in futuro si troveranno soluzioni più pulite. Inoltre mi ha fatto notare che i motori tradizionali sono in alluminio e che per produrre questo è necessaria molta energia elettrica (e di nuovo quindi si entra nel ciclo di come è prodotta l’elettricità).
Insomma la questione non è banalmente dire che l’auto elettrica è pulita e quella a benzina è sporca: ci sono molti altri fattori in gioco. Soprattutto il mio vecchio ricordo sull’entropia ha MOLTO senso ed è anzi fondamentale al di là dei numeri ipotizzati dal mio amico (e che magari ho riportato pure male).
Conclusione: pezzo sostanzialmente inutile (gli metterò il marcatore “peso”) ma mi sembrava buffo raccontare cosa vado a pensare quando non dormo...
Nota (*1): è uno dei motivi per cui evito di giocare al calcolatore prima di andare a dormire: rischierei di continuare a ripetere mentalmente il gioco, magari inventandomi dei livelli nuovi o delle regole aggiuntive…
Nota (*2): forse però era stato mio padre (un fisico) a parlarmene, sempre più o meno a quell’epoca: di sicuro erano conoscenze (trasformazione di energia, perdita in calore ed entropia) che già allora avevo ben chiare. Ricordo che quando ero dai miei nonni facevo i miei “esperimenti”: un giorno in un vasino di coccio detti fuoco a un intruglio di cera e altri ingredienti. Per una ventina di secondi la fiamma non sembrò diminuire: ricordo chiaramente che feci in tempo a pensare che se il fuoco non si estingueva allora avevo trovato una fonte di energia infinita e, quindi, sconfitto l’entropia: poi il vasino si spaccò...
L'esempio di Benjamin Franklin
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