Un raccontino da un'idea di una o due notte insonni fa...
Questa storia è opera di finzione e ogni riferimento a persone vive o morte è puramente casuale!
IL PESO DELLA VITA
Quel lunedì l’ingegner Cracchi era stranamente in ritardo: di solito alle 7:30 era già nel suo ufficio: in fondo al corridoio e con la porta ben aperta. Benché non visibile si supponeva che, in qualche maniera (forse riconoscendo il suono dei passi?), osservasse e prendesse nota di chi e quando arrivava dopo di lui: o almeno così sembrava dai commenti acidi e dalle occhiate cariche di significato che elargiva quando, verso le 13:00, riattraversava il medesimo corridoio per andare a mangiare.
Alle 8:05 gli impiegati iniziavano già a sperare in un’inaspettata settimana tranquilla a causa dell’imprevista malattia del loro capo ma, proprio allora, le porte dell’ascensore si aprirono.
L’ingegner Cracchi ne uscì piegato in due e tutto sbuffante: camminava tenendo a fatica, fra le braccia, un manubrio di almeno una cinquantina di chili.
Gli impiegati lo guardarono in silenzio, strabuzzando gli occhi, senza osare neppure rivolgergli il saluto. Una ragazza si strofinò gli occhi come per convincersi di non stare sognando, ma i più si limitarono a seguirlo con lo sguardo, a bocca aperta, mentre egli arrancava faticosamente lungo il corridoio.
Arrivato nel suo ufficio la segretaria lo salutò e meccanicamente, come ogni mattina, iniziò a leggergli il promemoria per la giornata.
«Zitta Barbara, non ora! Non vedi come sono conciato? Dammi qualche minuto per farmi riprendere e portami un caffè in ufficio...»
Quando infatti l’ingegnere era entrato nella stanza lei gli aveva dato appena un’occhiata distratta con la coda dell'occhio: aveva notato che aveva qualcosa di pesante in braccio ma aveva pensato che fosse la grossa lampada/scultura che da tempo diceva di aver intenzione di portare in ufficio. Adesso però l’aveva osservato più attentamente e si era accorta del grosso manubrio: trasalì senza riuscire a trattenere un gridolino di stupore.
Ma non disse niente: appena l’ingegnere fu entrato nel suo sancta sanctorum richiudendosi la porta alla spalle con un calcetto lei, da assistente premurosa e obbediente qual era, si preoccupò solo di aspettare un minuto prima di andare alla macchinetta per preparare con le mani tremanti il caffè come piaceva all’ingegnere.
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«Ingegnere? Posso? Ho il caffè...» chiese Barbara dopo aver bussato per due volte alla porta del suo capo.
«Entra, entra Barbara...» rispose la voce dall’interno.
La segretaria entrò e vide l’ingegnere, seduto alla sua scrivania, già intento a controllare la posta elettronica. Per un attimo pensò di aver avuto un'allucinazione ma poi si accorse che il grosso manubrio riposava adesso sul suo grembo.
«Ma ingegnere...» disse, posando la tazzina sulla scrivania ordinatissima dell'ingegnere. La sua voce flebile e tremante non riuscì a esprimere più compiutamente la domanda inespressa.
«Ah! Barbara: non crederai mai a quel che mi è capitato nel fine settimana!» rispose l’ingegnere che, evidentemente, aveva voglia di confidarsi con la sua fedele assistente.
«Devi sapere che venerdì sono andato a mangiare una pizza con dei vecchi amici del liceo...» spiegò l’ingegner Cracchi.
«Due di questi dovresti conoscerli: Ripetto, il mio avvocato di fiducia e Picciardi, quello che ogni tanto mi propone qualche investimento sballato...»
Barbara annuì attenta, prendendo mentalmente appunti di ogni sua parola come era sempre abituata a fare quando lui le parlava.
«Il terzo non lo conosci: Vindi si chiama, è un tizio strano, bravo ragazzo sì, ma uno che ha sprecato completamente il proprio potenziale...»
«uhm… buono!» disse l’ingegnere fra sé bevendosi di un sorso tutto il caffè.
Poi proseguì «La cena andava normalmente, mi conosci: quando voglio riesco col mio brio e umorismo a rendere piacevole anche l’incontro più stentato e difficoltoso. Una battuta lì, un complimento qua, molti sorrisi, qualche domanda per fingere interesse… il solito insomma...»
«Mangiata la pizza, con quasi una birretta media in corpo, scherzai col Vindi dicendogli che, se si era stufato di non far niente, gli avrei trovato io un buon lavoretto. Gentile no?»
«Sì, ingegnere!» replicò prontamente Barbara.
«E allora l’ingrato mi disse che leggere filosofia e scrivere sciocchezze sono la realtà e che invece un lavoro serio e rispettabile come il mio è un’illusione: una specie di sogno, una non realtà. La sua realtà era pesante e solida la mia leggera e impalpabile. Non ha senso, vero? E lì per lì ci risi sopra e cambiai argomento.»
«Però durante la notte dormii male: continuavo a pensare se fosse vero che questa vita, la mia vita, fosse un’illusione. Possibile che numeri, denaro, riunioni e progetti non siano nulla? E se fosse così allora una vita dedicata al nulla sarebbe anch’essa il nulla come ipotizzava il Vindi?
Il giorno dopo, sabato cioè, mi svegliai con un fastidioso mal di testa. Seguii comunque la mia solita routine: feci i miei esercizi ginnici, la mia usuale corsetta sul tapis roulant e poi un pranzo vegano ordinato al ristorante vicino casa. Nel pomeriggio però i dubbi che mi avevano perseguitato durante la notte tornarono più forti che mai: pensai che se il peso della nostra vita è dato dallo scopo dei nostri obiettivi allora io avrei dovuto essere pesantissimo! Dopotutto le mie decisioni spostano milioni di euro fra decine di banche in giro per il mondo. Proprio l’altra settimana, abbiamo approvato quell’investimento sui derivati: se i future sulle azioni delle miniere di rame congolesi calano più di 5 punti allora ci saremo guadagnati un ricco bonus a fine anno! E anche lei Barbara mi confermerà che non c’è niente di più solido di un metallo: e il rame è un metallo, no?»
«Certo ingegnere!» confermò la coscienziosa assistente.
«Ecco: a quel punto mi sentivo molto sollevato dal mio ragionamento e la piacevole sensazione di leggerezza che stavo iniziando a provare non mi preoccupava: pensavo che finalmente quegli schifosi hamburger di soia iniziassero a fare effetto...»
«Andai a letto tranquillo e dormii benissimo ma, ieri mattina, è successo l’impensabile: mi sono svegliato sul soffitto della mia camera!» qui l’ingegnere si interruppe e fece una pausa controllando la reazione della donna alla sconcertante notizia.
Prudentemente la segretaria si morse un labbro ma evitò di commentare così l’ingegnere proseguì subito il suo racconto.
«Mi ci volle un quarto d’ora per riuscire a scendere trascinandomi lungo l’armadio, fino alla poltrona e poi alla porta. Lentamente raggiunsi la palestra dove trovai questo...» disse Cracchi indicando il manubrio che teneva sopra le gambe.
«Ci crede che solo grazie a questa zavorra riesco a non volare via!? Ma troverò una soluzione!» concluse sbuffando.
«Ha provato ad andare al pronto soccorso? Là magari...» ma l’ingegnere l’interruppe bruscamente.
«Ma che dice Barbara! Figuriamoci! Cosa vuole che mi avrebbero detto laggiù: ha mai sentito di una malattia che fa volare? Bene che fosse andata mi avrebbero legato a un letto… qui c’è qualcos'altro: una specie di magia, una maledizione, che ne so… Così ieri telefonai al Vindi: magari ne sapeva qualcosa… Invece si mise a ridere pensando che lo prendessi in giro e, siccome insistevo a dirgli che ero serio, mi disse di prendermi una vacanza! Figuriamoci! Con tutte le riunioni che ho questa settimana, per non parlare della videoconferenza con i cinesi di domani mattina...»
Barbara a queste parole era impallidita: l’ingegnere era il suo punto fermo ma adesso lui non stava bene e lei non sapevo come aiutarlo. La disperazione le riempì gli occhi di lacrime mentre un sospiro sconsolato, quasi una sorta di rantolo strozzato, le sfuggì dal profondo.
L’ingegnere se ne accorse e subito cercò di tranquillizzarla «Su, su Barbara non si preoccupi: figuriamoci se non riesco a trovare una soluzione a questo contrattempo: vedrà che mi inventerò qualcosa e questo inconveniente diventerà solo un buffo aneddoto da raccontare ai clienti per distendere l’atmosfera e farsi quattro risate! Ora torni nel suo ufficio e con calma, per il pomeriggio, vada a cercare nell’archivio i faldoni con i fascicoli delle nostre attività dell’ultimo anno, i più pesanti che trova mi raccomando!»
L’assistente si girò di scatto e uscì rapidamente, con gli occhi chiusi e i pugni serrati per trattenere le lacrime. Poi corse in bagno singhiozzando e là un gruppetto di colleghe subito la raggiunse per sapere cosa fosse successo e la ragione dello strano comportamento dell’ingegnere.
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«È impazzito poverino! Così buono, così attento a cosa mangiava, a fare attività fisica… sigh… e non fumava né beveva... e poi guarda cosa gli va a capitare!» si sfogò Barbara con le amiche.
«Adesso è completamente uscito di senno: si trascina dietro quel grosso peso perché crede che altrimenti volerebbe via!»
«Come? Cosa?» chiedevano tutte insieme le altre donne.
Così Barbara ripeté loro fedelmente il racconto che le aveva fatto l’ingegner Cracchi mentre queste scuotevano la testa e mormoravano interiezioni.
«E adesso che faccio poverino?»
Ognuna delle donne disse la sua e poiché tutte suggerivano soluzioni diverse Barbara si convinse ad aspettare per vedere cosa sarebbe successo nel pomeriggio.
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L’ingegner Cracchi si era messo a dare una lettura cursoria a un sito economico: aspettava l’ora di pranzo con insolita impazienza perché, evidentemente, il trascinarsi dietro il manubrio gli aveva messo un gran appetito.
Improvvisamente sentì un grido: «Aiuto! Aiuto!»
Era la voce di Barbara: subito l’ingegnere si diresse alla porta il più velocemente possibile per quanto gli permettesse l’ingombrante zavorra.
Gli occorsero pochi secondi per raggiungerla ma gli strilli disperati della donna che provenivano dalla stanza adiacente li fecero sembrare molti di più.
Finalmente, col fiato corto per l’improvviso e intenso sforzo, aprì la porta con un gomito e vide cos’era successo: la sua segretaria svolazzava sul soffitto dell’ufficio mentre alla porta di fronte si accalcavano vari colleghi che si bloccavano sulla soglia a osservare increduli la scena.
«Capretti, non stia impalato! Prenda l’attaccapanni e cerchi di farlo afferrare alla signora Ciabatti per tirarla giù» urlò l’ingegnere prendendo immediatamente in mano la situazione. Il Capretti era un giovane ingegnere: promettente ma poco proattivo, aveva però il vantaggio di essere alto e ben piazzato…
«Ma come ha fatto a finire lassù?!» le chiese l’ingegnere.
«Mi ero messa a riflettere che la misura del peso della mia vita è data da quella della vostra ingegnere: dopotutto sono io che le prenoto i voli, le controllo e filtro la posta e l’aiuto nelle sue importanti attività. La mia vita ha quindi tanta importanza quanto la sua e deve allora essere ugualmente pesante. Mi sembrava, come dice sempre lei, “logico e consequenziale”. Poi, improvvisamente, mi sono sentita divenire leggera e in un attimo mi sono ritrovata quassù!» spiegò singhiozzando la signora Barbara Ciabatti.
«È così infatti» intervenne l’ingegnere che voleva essere d’aiuto «lei è quasi altrettanto fondamentale quanto me: senza il suo aiuto per le umili incombenze non avrei tempo per svolgere altrettanto efficacemente i mie importanti compiti! Si concentri su questo: questa è la nostra realtà! Entrambi siamo importanti perché il nostro lavoro è importante! Ricordi questa è l’unica realtà!»
Ma Barbara nonostante gli occhi colmi di lacrime lanciò per la prima volta al suo capo un’occhiataccia ribelle e gli gridò «Ma io non voglio pensare alla realtà! Voglio solo ritornare con i piedi per terra!»
Né l’ingegnere né i colleghi lo capirono ma Barbara voleva dire che il peso della realtà può essere insostenibilmente leggero e, per questo, spesso è meglio far finta di niente, ignorarla, e illudersi di vivere vite vere, vite pesanti.
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In breve tempo si diffuse nell’intera azienda la voce che tutti coloro che vi lavoravano non avevano peso: alcuni non sapevano neppure che cosa si intendesse con “vite senza peso” ma ci credevano e immediatamente levitavano fino al soffitto. Probabilmente se la voce si fosse diffusa anche al di fuori delle sue mura il mondo, come oggi la conosciamo, sarebbe anche potuto finire ma, fortunatamente, il grosso palazzo si staccò dalle sue fondamenta e salì in cielo, forse fino alla luna se non oltre...
L'esempio di Benjamin Franklin
3 ore fa
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