Una premessa: ieri ho accompagnato un parente in giro per ospedali e, prevedendo lunghe attese, avevo riesumato il mio lettore di e-libri.
Non mi ero preoccupato di scaricarmi qualcosa di nuovo perché tanto sapevo di aver già molto materiale ancora da leggere.
Alla fine, nelle molte ore di attesa, ho iniziato a leggere due libri. Chi mi conosce può provare a cercare di indovinare di cosa si tratti sebbene difficilmente vi riuscirà: ma secondo me l'essere spiazzati dalle mie scelte fa parte del divertimento: provateci!
Ecco qui:
The slavery question. di John Lawrence, Ed. Vonnieda & Kumler, 1854
e
Psicologia criminale di Avv. Michele Longo, Ed. Fratelli Bocca, 1906
Di uno di questi libri ho poi letto oltre 50 pagine, su un totale di 120 circa, dell'altro appena 5 o 6 perché illeggibili. A quali libri mi sto riferendo? A quello scritto in inglese nel XIX secolo o a quello in italiano del XX?
Esatto, questa domanda era facile, il libro in inglese è facile da leggere e godibilissimo, quello in italiano semplicemente illeggibile.
Mi ritorna in mente un aforisma che non ho voglia di ricercare e che quindi parafraso:
«Alcuni scrivono per essere compresi, altri per mostrare quanto sanno» (pseudo Goethe).
Il Longo è il classico esempio dello scrittore che scrive (forse) per una cerchia limitatissima di persone in grado di comprendere i suoi riferimenti: ma il lettore occasionale come me non è in grado di ricavarne niente.
Questo è il limite dello stile della cultura italiana, specialmente dei libri, dedicati sempre a pochi o pochissimi e non al popolo evidentemente ritenuto troppo ignorante. A questo si sovrappone l'ipocrisia italica dove la critica letteraria, magari, invece di stroncare le opere illeggibili le esalta come “profonde, colte e raffinatissime” (v. la parte iniziale di Donini e Goethe).
Vabbè, un esempio tratto dall'introduzione che mi sono sforzato di leggere (per mia comodità inserirò nel testo dei commenti che evidenzino le mie perplessità):
«[KGB: il punto 1 era ancora faticosamente comprensibile] 2.—Qualunque fenomeno progressivo, quello del pensiero compreso, non è che distinzione operata su precedenti fenomeni meno distinti [KGB: vago]. Dalla formazione naturale del sistema solare alle più alte manifestazioni della umana intelligenza il principio è costante e si concreta nell’accrescimento di precisione e coerenza con maggiore integrazione dell’effetto prodotto [KGB: si intuisce qualcosa]. La scienza può concepirsi come conoscenza definita in opposizione alle conoscenze indefinite del volgo [KGB: gli italiani, il popolo, notare la sfumatura denigratoria], e però il suo carattere essenziale di progresso sta nell’accrescimento di precisione; di guisa che—secondo Spencer—se la scienza è stata, com’è indubitabile, uno sviluppo graduale delle cognizioni indefinite del volgo, compiutosi attraverso i secoli, è necessario che la conquista graduale della grande precisione che oggi la distingue sia stato il tratto principale della sua evoluzione [KGB: non sono d'accordo ma non sto a spiegare i miei motivi].
Il vero, che è l’obbietto della mente, dapprima lo percepiamo confuso con la esistenza delle cose; poscia grado a grado lo apprendiamo determinato nei rapporti di spazio e di tempo, per indi sottoporlo al potere riflessivo e precisarlo, distinguendolo, nelle molteplici attinenze dell’attività del pensiero scientifico [KGB: si intuisce]. Nè suppongasi che la distinzione interrompa la continuità dei processi formativi, chè a ciò si oppone la legge di persistenza di qualunque specie di energia [KGB ??]; nè che l’unità del fenomeno impedisca che questo si decomponga negli elementi primigenî [KGB ??]. Quindi, al dire di Ardigò, «il pensiero è, effettivamente, e molteplice e uno; poichè anch’esso, il pensiero, è natura, ossia una formazione naturale, come tutte le altre cose. È molteplice come l’aggregazione degli atomi dell’organismo, del quale è la funzione. È uno, come la legge per la quale gli atomi stessi non possono sottrarsi all’azione dell’uno sull’altro. Il pensiero è una formazione, ossia un effetto determinato, per la legge della distinzione, in un punto dell’universo, per la forza risiedente nel tutto, come ogni altra cosa. La contraddizione fra i due termini, della unità e della molteplicità, non è che la conseguenza d’una idea falsa e ormai discacciata definitivamente dalla scienza positiva; l’idea, cioè, della sostanza metafisica, sottoposta ai fenomeni del pensiero e della materia» [KGB: vabbè, qui è l'autore che ne cita un altro ma credo di aver reso l'idea di questo scritto...]»
Da notare l'idea implicita di come la conoscenza sia incompatibile col “volgo”, tanto a ribadire la mia teoria sugli intellettuali italiani: un gruppo chiuso i cui membri si celebrano a vicenda e guardano con disprezzo chi non fa altrettanto, cioè gli ignoranti.
The slavery question è invece molto facile da leggere: per dare l'idea l'unico termine che ho dovuto ricercare sul vocabolario è chattel cioè merce.
Il libro non è comunque privo di difetti: ho trovato i principi religiosi dell'autore un po' invadenti, con giudizi morali che si sovrappongono e si confondono con le sue argomentazioni logiche/scientifiche (ad esempio appare chiaro che l'autore credeva nella storicità del diluvio universale!); alcuni elementi storici sono molto inesatti: è ad esempio assente il ruolo dei mercanti di schiavi arabi oppure il parallelismo con la schiavitù in epoca romana, valido fondamentalmente solo per i secoli II e I a.C.
Ma la vera forza di questo testo sono le numerose citazioni prese da fonti disparate come le leggi di vari stati americani, articoli di cronaca, sentenze di tribunali. Queste testimonianze dirette chiariscono, più di tante parole, l'orrore abietto della schiavitù in USA.
Vediamo se riesco a ritrovare gli esempi che più mi hanno impressionato.
Sul trasporto via mare degli schiavi (ne moriva oltre la metà nel viaggio):
«Permit me to direct your attention to a single slave ship which sailed only a few years ago. This ship was examined by the officers of a British man-of-war. The following is from the pen of Mr. Walsh, an eye witness of what he relates.
“The ship had taken in, on the coast of Africa, 336 males and 226 females, making in all 562, and had been out 17 days, during which she had thrown overboard fifty five!
“The slaves were all enclosed under grated hatchways between decks. The space was so low, that they sat between each other’s legs, and they were stowed so close together, that there was no possibility of their lying down, or at all changing their position by night or day. As they belonged to, and were shipped on account of different individuals, they were all branded like sheep, with the owner’s marks of different forms. These were impressed under their breasts or on their arms, and as the mate informed me, with perfect indifference, quiemados pelo ferro quento—burnt with the red hot iron. Over the hatchway stood a ferocious looking fellow with a scourge of many twisted thongs in his hand, who was the slave driver of the ship; and whenever he heard the slightest noise below, he shook it over them, and seemed eager to exercise it. As soon as the poor creatures saw us looking down at them their dark and melancholy visages brightened up. They perceived something of sympathy and kindness in our looks which they had not been accustomed to, and feeling instinctively, that we were friends, they immediately began to shout and clap their hands. One or two had picked up a few Portuguese words, and cried out Viva! viva! The women were particularly excited. They all held up their arms; and when we bent down and shook hands with them, they could not contain their delight, they endeavored to scramble upon their knees, stretching up to kiss our hands; and we understood that they knew we had come to liberate them. Some, however, hung down their heads, in apparently hopeless dejection, some were greatly emaciated, and some, particularly children, seemed dying. But the circumstance which struck us most forcibly, was, how it was possible for such a number of human beings to exist, packed up and wedged together as tight as they could cram, in low cells, three feet high, the greater part of which, except that immediately under the hatchways, was shut out from light or air, and this when the thermometer, exposed to the open sky, was stand-in the shade, on our deck at 89°. The space between the decks was divided into two compartments, three feet, three inches high; the size of one was 16 feet by 18 feet, and of the other 40 feet by 21 feet; into the first there were crammed the women and girls, into the second the men and boys; 226 fellow beings were thus thrust into one space 288 feet square, and 336 into another 800 feet square, giving to the whole an average of 23 inches, and to each of the women, not more than thirteen. The heat of these horrid places was so great and the odor so offensive, that it was quite impossible to enter them even had there been room. They were measured as above when the slaves had left them. The officers insisted that the poor suffering creatures should be admitted on deck to get air and water. This was opposed by the mate of the slaver, who, from a feeling that they deserved it, declared they would murder them all. The officers (of the Eng. ship,) however, persisted, and the poor beings were all turned up together. It is impossible to conceive the effect of this eruption; 507 fellow creatures of all ages and sizes, some children, some adults, old men and women, all in a state of total nudity, scrambling out together to taste a little pure air and water. They came swarming up like bees from the aperture of a hive, till the whole deck was crowded to suffocation, from stem to stern; so that it was impossible to imagine where they could all have come from, or how they could all have been stowed away. On looking into the places where they had been crammed, there were found some children next the sides of the ship, in the places most remote from light and air; they were lying in nearly a torpid state, after the rest had turned out. The little creatures seemed indifferent as to life or death; and when they were carried on deck, many of them could not stand. After enjoying, for a short time, the unusual luxury of air, some water was brought; it was then that the extent of their sufferings was exposed in a fearful manner. They all rushed like maniacs toward it. No entreaties, or threats, or blows could restrain them; they shrieked, and struggled, and fought with one another, for a drop of this precious liquid, as if they grew rabid at the sight of it. When the poor creatures were ordered down again, several of them came, and pressed their heads against our knees, with looks of the greatest anguish, at the prospect of returning to the horrid place of suffering below.”»
Sulle punizioni degli schiavi:
«In 1842 a negro was burned at Union Point, Mississippi. The Natchez Free Trader gives the following account of the horrible work.
“The body was taken and chained to a tree immediately on the bank of the Mississippi, on what is called Union Point. Fagots were then collected, and piled around him to which he appeared quite indifferent. When the work was completed, he was asked what he had to say. He then warned all to take example by him, and asked the prayers of all around; he then called for a drink of water, which was handed to him; he drank it, and said, ‘Now set fire—I am ready to go in peace!’ The torches were lighted and placed in the pile, which soon ignited. He watched unmoved the curling flame, that grew until it began to entwine itself around and feed upon his body: then he sent forth cries of agony painful to the ear, begging some one to blow his brains out; at the same time surging with almost superhuman strength, until the staple with which the chain was fastened to the tree (not being well secured) drew out, and he leaped from the burning pile. At that moment the sharp ringing of several rifles was heard: the body of the negro fell a corpse on the ground. He was picked up by some two or three, and again thrown into the fire and consumed—not a vestige remaining to show that such a being ever existed.”
...
Hear the venerable John Rankin, a native and long resident of Tennessee. (See Elliot pp. 225.)
“Many poor slaves are stripped naked, stretched and tied across barrels, or large bags, and tortured with the lash during hours, and even whole days, till their flesh is mangled to the very bones. Others are stripped and hung up by the arms, their feet are tied together, and the end of a heavy piece of timber is put between their legs in order to stretch their bodies, and so prepare them for the torturing lash—and in this situation they are often whipped till their bodies are covered with blood and mangled flesh—and, in order to add the greatest keenness to their sufferings, their wounds are washed with liquid salt! And some of the miserable creatures are permitted to hang in that position till they actually expire; some die under the lash, others linger about for a time, and at length die of their wounds, and many survive, and endure again similar torture. These bloody scenes areconstantly exhibiting in every slaveholding country—thousands of whips are every day stained in African blood! Even the poor females are not permitted to escape these shocking cruelties.”»
Ovviamente il libro è ricco di molti spunti su cui riflettere ma su questi ritornerò in separata sede...
Conclusione: non entro nel merito ma ho nuovo materiale per la mia Epitome.
alla prima stazione
1 ora fa
Nessun commento:
Posta un commento