[E] Per la comprensione completa di questo pezzo è utile la lettura della mia Epitome (V. 0.5.0 "Bellis Perennis").
Qualche giorno fa ho terminato di leggere “Ready Player One” di Ernest Cline, Ed. DeA Planeta, 2017, trad. Laura Spini.
Un libro discreto che si legge bene riuscendo a stuzzicare costantemente la curiosità del lettore.
L'ambientazione, che a me sta molto cara, è però carente. Si cerca di giustificare il successo di OASIS (un gioco in linea di realtà virtuale) con una crisi energetica e quindi sociale ed economica. Ma non si entra assolutamente nei dettagli e, a mio avviso, paradossalmente in una tale situazione OASIS non potrebbe neppure esistere così com'è descritta.
La trama poi risente molto di numerosi interventi del deus ex machina: in un caso, sul finale, quasi letteralmente con l'intervento di un ricchissimo patrono che dà accoglienza e protezione ai protagonisti prima dello scontro finale...
Ma non voglio parlare del libro ma piuttosto di un concetto che ormai da diverso tempo (mesi? anni?) mi frulla per il cervello.
Prima vi pongo una semplice domanda sulla quale vi invito a riflettere per qualche secondo: è utile leggere?
…
…
…
Ci avete pensato? Va bene allora vado avanti...
La precedente domanda è volutamente vaga: si sarebbe portati a rispondere “sì, sempre e comunque” ma secondo me è più corretto un modesto “dipende”.
Dipende infatti da cosa si legge.
Io per primo amo leggere libri leggeri e non impegnativi di fantasia o fantascienza ma devo anche ammettere che questi, generalmente (*1), mi lasciano molto poco: mi intrattengono ma da essi non imparo cose nuove né stimoli per la riflessione.
Nei giorni scorsi avevo già una mezza idea di scrivere un pezzo intorno al concetto che un intero libro di intrattenimento non vale due pagine di un saggio. Ebbene, proprio ieri sera, ho ripreso a leggere Breve storia delle religioni del Donini e questo mi ha fornito un esempio concreto di questa differenza.
La lettura dell'intero Ready Player One (441 pagine) mi ha dato un unico spunto di riflessione che ho trovato interessante: nell'ambientazione si spiega che una multinazionale delle comunicazioni, la IOI, assume forzatamente alle proprie dipendenze gli insolventi che, in pratica, diventano loro schiavi fino a quando non avranno ripagato un debito impagabile, ovvero mai. Questa prima situazione è di per sé piuttosto credibile e nella storia se ne sono avuti numerosi esempi.
L'autore però va oltre e dà un accenno della loro vita quotidiana: lavoro per 12 ore al giorno, riposo in un cubicolo di 2 metri cubi, sorveglianza continua, nessuna interazione sociale, nessuna speranza di tornare liberi...
Mi sono quindi chiesto se tale modello di schiavitù avrebbe potuto funzionare in base a quanto ho imparato dalla storia (v. Schiavitù romana (1/2) e Schiavitù romana (2/2)).
L'argomento infatti mi interessa e anche nell'Epitome ne ho spesso accennato: quando è che un potere si sottomette a un altro? Quando è che si ribella? Nell'Epitome abbiamo visto che la società è costruita in maniera tale che nessun gruppo (ovvero potere, debole o forte che sia) si ribelli: tutta una serie di protomiti, che ho definito equimiti ([E] 7.1), la proteggono.
Per spiegare le rivolte degli schiavi sono arrivato quindi a due spiegazioni ([E] 7.2, 8.3).
La prima è la differenza fra chi nasce schiavo e chi lo diventa successivamente e, a sua volta, se quest'ultimo era un romano (nel senso di appartenenza culturale) o un barbaro. A chi nasce schiavo vengono infatti inculcati nell'infanzia, e quindi più facilmente ([E] 1.3), tutta una serie di protomiti che giustificano la sua posizione nella società: il giovane schiavo penserà che è giusto ubbidire al proprio padrone e non ribellarsi mai per alcuna ragione: e come sappiamo è difficile cambiare le proprie idee ([E] 1.1) soprattutto se su di esse abbiamo basato la nostra vita...
Il romano che nasce libero e diviene in seguito forzatamente schiavo ha una diversa prospettiva, ovvero protomiti che danno più valore alla propria libertà e autonomia: eppure anch'egli, in quanto cittadino romano, considererà la schiavitù ammissibile e giustificata anche se magari riterrà la propria particolare condizione di schiavo ingiusta. Comunque già il solo credere nella legittimità della schiavitù lo renderà più docile: inoltre il romano divenuto schiavo è ben conscio dei protomiti che potrebbero portarlo alla libertà e questo gli dà speranza e lo spinge ad accettare le regole della sua condizione.
Al contrario il “barbaro” che diviene schiavo viene da un contesto di protomiti totalmente diversi: magari anche nella sua società esisteva la schiavitù ma probabilmente aveva forme e giustificazioni incompatibili con quelle dei romani. Ecco quindi che l'uomo non romano divenuto schiavo è quello più portato a ribellarsi.
Il secondo fattore è quello di un brusco cambiamento delle proprie aspettative oppure una qualità di vita insostenibile (come torture quotidiane) tale che la morte divenga un'alternativa accettabile.
Ovviamente accanto a questi elementi “strutturali” vi deve anche essere un fattore di opportunità, la scintilla che inneschi la ribellione o che la rende possibile.
Ora quali di questi elementi caratterizzano gli “schiavi” di Ready Player One?
Innanzi tutto si tratta di persone libere divenute poi schiave ma che comunque provengono da una società che ritiene legittima questa forma mascherata di schiavitù. Diciamo quindi che, da questo punto di vista, siamo nel caso di tolleranza intermedia alla schiavitù e quindi stabile.
Il problema è che, nella descrizione della vita quotidiana, l'esistenza degli schiavi mi pare intollerabile: le privazioni e torture psicologiche, come sa bene la CIA, equivalgono a torture fisiche. Presto o tardi lo schiavo preferirebbe la morte a quella vita.
Di sicuro sarebbe difficile sfruttare lo schiavo economicamente visto che sul lavoro darebbe il minimo: ma, più probabilmente, impazzirebbe dopo pochi mesi.
La mia conclusione è che la schiavitù della IOI non sarebbe sostenibile né economicamente conveniente: insomma un altro buco nell'ambientazione piena di buchi...
Del libro del Donini ieri sera ho letto poco meno di tre pagine (era molto tardi) ma in effetti una sola frase ha stimolato la mia riflessione: «Sotto il velo del mito, sempre più staccata dalla realtà, la religione assume così la funzione che le è propria nella società di classe: giustificare l'esistenza di precisi rapporti di sudditanza tra gli uomini.»
Non è un concetto nuovo: è dalla premessa che il Donini ripete questa idea ogni due o tre pagine!
Però stavolta mi ha fatto scattare la comprensione profonda di quale sia la differenza col mio modo di vedere la religione ([E] 8) che ho espresso nell'Epitome: la sensazione di differenza, pur nelle similitudini, l'avevo avuta immediatamente, come ho cercato di spiegare nell'analogia della partita di calcio (v. Religioni a confronto), ma ieri mi è divenuta più chiara.
Nella visione del Donini (marxista) la religione fa l'interesse del potere in qualche modo giustificando la posizione di privilegio di pochi: nella mia visione invece la religione è un potere come tutti gli altri e, come tale, cerca di fare il proprio interesse ([E] 5.2). È solo incidentale che la religione giustifichi le diseguaglianze sociali: lo fa solamente perché ciò è nel proprio interesse non perché le stia particolarmente a cuore il potere altrui.
La differenza sostanziale fra la mia visione e quella del Donini si ha nel caso in cui supportare il potere politico vada contro all'interesse della religione: in tal caso, dal mio punto di vista, la religione come potere autonomo, non lo supporterà mentre da quello del Donini, la religione, quasi fosse un'emanazione sempre e comunque subordinata al potere politico, lo farà comunque.
Nella realtà casi del genere sono molto rari: come spiegato nell'epitome ([E] 5.7) i parapoteri (e quindi anche la religione e il potere politico) tendono a confrontarsi e cooperare fra di loro. Ma, ovviamente, ci sono delle eccezioni: mi viene in mente il ruolo della Chiesa in Polonia negli anni '80.
In definitiva, quantitativamente il libro di intrattenimento mi ha dato uno spunto in 440 pagine mentre al saggio ne sono bastate tre. Ma anche qualitativamente io trovo molto più interessante la sottile differenza nell'interpretazione del ruolo della religione nella società piuttosto che il semplice arrivare a ritenere inconsistente e irrealistica la struttura sociale ipotizzata nel libro di fantascienza.
Conclusione: leggere è importante ma se ci si vuole arricchire culturalmente è importante anche ciò che si legge. Di per sé la frase precedente è un'ovvietà: quello che però sfugge è il rapporto di utilità fra libro di intrattenimento e saggio che, nel mio esempio, è di oltre cento volte (due ordini di grandezza) a favore del secondo. Cioè, in prima approssimazione, leggere 100 libri di intrattenimento arricchisce quanto la lettura di un singolo saggio!
Nota (*1): Un esempio di eccezione può essere La mente di Schar di cui ho scritto in Un libro strano.
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