Qualche giorno fa, riferendomi al pezzo del 2011 Bugie a fin di bene, mi vantavo scherzosamente (con tanto di faccina che sorride e strizza l'occhio) di “uguagliare e per certi versi superare” la teoria di Kant; concludevo poi sconsolato che è un peccato che “io sia il solo ad apprezzare così tanto me stesso...”
Nel pezzo citato infatti scrivevo: «è sempre sbagliato dire bugie seppure a fin di bene» frase che ricorda molto l'intransigenza dell'imperativo categorico kantiano evidenziata poi dal paradosso di Benjamin Constant (v. Ancora sull'imperativo categorico e le bugie).
Successivamente chiarivo cosa vi sia di sbagliato nel cercare di controllare e indirizzare la volontà altrui tramite bugie, seppur a “fin di bene”. Davo infatti per scontato che il caso più generale, dove si controlla l'altro dandogli informazioni errate, ovvero il puro e semplice controllo delle decisioni altrui (eteronomia) fosse automaticamente sbagliato.
In questo mio chiarimento/precisazione mi sembrava di essere andato un po' oltre la teoria di Kant (pur nella consapevolezza di conoscerne solo la minuscola frazione presentata dal professor Sandel nel suo corso) e, da tutti questi elementi, era derivata la battuta scritta alla mia amica.
La sua risposta fu: «Forse sarebbe il caso di farsi delle domande ....» e, per sottolineare che la sua era una battuta, faceva seguire tale frase da una faccina MOLTO sorridente: formata cioè da ben cinque parentesi chiuse...
Ovviamente non c'era bisogno di sottolineare la leggerezza del suo commento con la faccina: avevo capito benissimo che stava scherzando. Però lei, essendo una persona sensibile e intuendo che poteva essere un argomento per me spinoso, aveva preferito andare sul sicuro ed evitare ambiguità.
Eppure tale frase in questi giorni è rimasta, come un tarlo, a rodermi la mente: per questo oggi mi sono deciso a scriverne. L'esplicitare quello che ne penso mi potrebbe aiutare a togliermela dalla testa.
Sì perché le domande, a cui scherzosamente si riferisce la mia amica, è una vita che me le faccio: nella loro forma più embrionale già dalle elementari. Ho innumerevoli ricordi di mia madre che mi incitava a “essere furbo” (“perché il mondo è dei furbi”) e io capivo bene a cosa si riferisse: perché il comportarmi in maniera “non furba” era stata una mia decisione cosciente, avevo capito benissimo cosa mi sarebbe convenuto fare, cosa sarebbe stato più facile o semplice, ma io optavo sempre, pervicacemente, per ciò che mi sembrava giusto.
Insomma già mia madre, a modo suo, mi ripeteva che “sarebbe stato il caso di farsi delle domande...”. E io ovviamente queste domande me le ponevo ma l'unica risposta a cui arrivavo era che è giusto fare ciò che è giusto fare.
Inutile ripercorrere la storia della mia vita e i suoi momenti salienti: ma il risultato della mia fermezza, del mio non scendere a compromessi, qual è stato?
Adesso conduco una vita anomala: non dubito che molte persone, che magari mi conoscono più superficialmente, mi considerino un fallito. Anche se forse non riescono a comprendere la mia apparente serenità: ma queste persone sono proprio quelle che “non si fanno mai domande” e, quindi, ignorano felicemente ogni incongruenza che pure potrebbero aver percepito.
Io invece le domande continuo a pormele: soprattutto mi chiedo cosa avrei potuto fare, che obiettivi avrei potuto realisticamente raggiungere, ma onestamente molti dei percorsi che portano al successo sociale mi sembrano così futili e vani che non avrei mai potuto seguirli fino in fondo.
Per inciso, da qualche anno riflettevo che l'unica attività socialmente stimata e che io reputo moralmente degna è quella del medico: l'alleviare la sofferenza altrui mi pare uno degli scopi più alti che si possano avere. Solo che non mi piacciono i malati e le malattie: probabilmente per riuscire a stare quotidianamente in contatto col dolore e la sofferenza ci vuole una scorza emotiva che non ho. Inoltre, se si separano completamente le emozioni dal proprio lavoro, allora anche l'attività medica diviene mera ricerca di successo e denaro. Basta considerare alcuni recenti fatti di cronaca nera per rendersi conto di cosa accade quando si raggiunge l'estremo limite di considerare il malato un oggetto verso cui non si prova nessuna emozione.
Ho perso il filo conduttore. Il punto è che io queste fantomatiche “domande” me le pongo sempre, continuamente, e persevero cocciutamente. Alla fine sono domande dolorose perché è evidente che la società mi disprezza e deride, mentre è innegabile che anche a me piacerebbe essere apprezzato e compreso. Ma alla fine tutto ciò è irrilevante: si deve comunque fare ciò che si ritiene giusto fare.
Conclusione: alla fine l'apprezzamento più bello me lo fece una mia cugina. All'epoca stavo facendo uno dei miei “sondaggi” (v. Risultato sondaggio) in cui chiedevo ad amici e conoscenti se mi reputassero coraggioso. Le risposte furono disparate anche perché non è facile giudicare il coraggio se non si ha l'opportunità di metterlo alla prova: comunque mia cugina mi scrisse che mi riteneva molto coraggioso per le scelte di vita che avevo fatto. Sul momento non le detti molto valore ma in effetti la sua fu un'osservazione profonda.
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