Sono tornato a riflettere sull'imperativo categorico kantiano: la “cosa giusta” da fare va fatta indipendentemente dalle sue conseguenze; viceversa la “cosa sbagliata” non va fatta indipendentemente dalle conseguenze.
Già al tempo del corso di filosofia della morale e della giustizia ci tornai sopra più e più volte dato che, allora come oggi, trovavo l'argomento di fondamentale importanza.
La categoricità di Kant sulla questione si presta però a paradossi che non è facile dirimere: talvolta sembra che fare la scelta giusta sempre e comunque possa essere sbagliato!
L'esempio classico è quello che riportai in Sandel sbaglia:
«Un filosofo francese, Benjamin Constant, l'aveva [Kant] pubblicamente sfidato presentandogli il seguente semplice scenario: supponiamo che un nostro amico si presenti a casa nostra, inseguito da un assassino, e ci chieda di nasconderlo. Subito dopo arriva l'assassino che ci chiede se il nostro amico è da noi: in questo caso è moralmente lecito mentire all'assassino per salvare il nostro amico? Secondo Constant sì perché l'assassino non si merita la nostra onestà.
Kant rispose dicendo che agli imperativi categorici (le cose giuste da fare e, in questo caso, dire sempre la verità) non si possono trovare eccezioni perché altrimenti non sarebbero imperativi categorici: in altre parole, per Kant, nemmeno nello scenario in questione sarebbe moralmente corretto mentire. Non importa quale sia il pericolo corso dall'amico: la sua eventuale morte sarebbe solo una conseguenza e la moralità di un'azione va considerata di per sé e non per ciò che comporta.
O questa è almeno quanto ho capito della spiegazione dell'opinione di Kant fornita dal professor Sandel...»
Anch'io ero rimasto colpito da questo esempio e trovavo difficile difendere la posizione di Kant anche se, a un livello intuitivo che non riuscivo a comprendere, la ritenevo corretta.
Avevo anche proposto una mia soluzione che però, già all'epoca, non mi convinceva completamente:
«Quindi la penso esattamente come Kant? Non proprio...
Anche Kant afferma che l'uomo vive contemporaneamente nel mondo sensibile (delle necessità) e nel mondo intellegibile (della ragione): proprio questa ambiguità di collocazione provoca lo scollamento fra quello che si fa e quello che si dovrebbe fare.
La mia sensazione è che lo scenario dell'assassino sia un caso limite in cui si debba agire sul piano puramente sensibile: l'irrazionalità stessa della volontà di uccidere dell'assassino ci dà una traccia in tal senso. In una simile contingenza il mentire non è né vuole esserlo un'azione morale ma è invece una azione puramente sensibile. Questo non significa che l'imperativo categorico di dire sempre la verità abbia almeno questa eccezione: l'imperativo categorico è infatti sempre valido ma solo nel mondo intellegibile!
Anzi, l'azione che nel mondo sensibile era “dire una bugia” equivale nel mondo intellegibile a “salvare una vita”: è la contingenza estrema che giustifica la trasformazione.
Eppure qui l'ho scritto e qui lo nego: piegare la morale a un'emergenza mi pare pericoloso e troppo facilmente abusabile. Come spiegato non sono ancora totalmente convinto del mio punto di vista.»
Adesso, a quasi due anni esatti di distanza, le mie idee sulla questione si sono sedimentate: improvvisamente stamani ci ho ripensato e tutto mi è apparso chiaro.
A ogni azione seguono, dopo un certo periodo variabile di tempo, delle conseguenze. Contemporaneamente ogni decisione morale è basata sulle sue conseguenze: ciò che rende un'azione buona (o cattiva) in sé è che la variabile tempo che separa l'azione dalla sua conseguenza positiva (o negativa) è pari a zero.
Se il tempo non è nullo allora esso diviene proporzionale all'incertezza della conseguenza dell'azione. Nell'azione buona in sé il bene è immediato e certo: quando però la variabile tempo cresce ecco che la certezza del risultato viene meno e si entra nel regno delle possibilità.
Il tempo diviene una specie di crepa che si amplia sempre più fra l'azione e la sua conseguenza: in questa crepa possono inserirsi infiniti elementi esterni che possono cambiare, anche radicalmente, il risultato previsto dall'azione iniziale. Il caso, l'ignoto, cambiamenti di contesto, volontà esterne da sole o combinate insieme possono alterare l'esito previsto di un'azione.
La questione non è quindi tanto considerare una decisione morale di per sé ma quanto si ritenga accettabile l'incertezza della sua conseguenza.
I casi critici sono due: un male immediato certo contro un bene futuro maggiore ma incerto (tipo uccidere un Adolf Hitler ancora bambino); oppure un bene immediato certo contro un male futuro maggiore ma incerto (tipo salvare da morte certa un Adolf Hitler ancora bambino).
Alla fine la questione critica diviene quando è accettabile fare un'azione con conseguenze immediate negative in vista però di un incerto beneficio maggiore nel futuro. O, analogamente, quando sia accettabile fare qualcosa di giusto sul momento ma che potrebbe avere delle conseguenze future nefaste.
Comunque, con questa nuova comprensione dell'imperativo categorico, è possibile comprendere il paradosso dello scenario proposto da Benjamin Constant.
Mentire è sbagliato: le informazioni errate impediscono alla vittima il libero arbitrio, sono quindi una maniera per condizionare e controllare l'altro privandolo della sua libertà (eteronomia).
Oppure, da un altro punto di vista, mentire e quindi ingannare un'altra persona non potrà mai essere giusto visto che equivalerebbe a trattarla come un mezzo e non come un fine.
Ma allora è giusto far morire l'amico non dicendo una bugia?
Il paradosso di Constant si base nell'annullamento occulto del fattore tempo: viene proposto un caso solo apparentemente realistico in cui dalla scelta iniziale si fa dipendere inevitabilmente il risultato finale (alla bugia corrisponde la salvezza dell'amico; alla verità la sua morte) quando invece la situazione potrebbe evolvere ben diversamente. Ma in pratica la limitazione artificiale delle scelte e dei possibili esiti equivale ad annullare la variabile tempo e, di conseguenza, l'incertezza fra azione e conseguenza.
Nell'ipotesi del paradosso, la conseguenza (la morte dell'amico) collassa sull'azione (il dire la verità) a causa della scomparsa del fattore tempo: in questo caso sarebbe quindi sbagliato non mentire e causare la morte dell'amico (*1). Ma come spiegato si tratta di uno scenario irrealistico, invero privo di senso, a cui viene arbitrariamente tolta ogni incertezza fra azione e conseguenza.
Più in generale allora come ci dovremmo comportare di fronte a scelte in cui a un'azione negativa/sbagliata potrebbe corrispondere, dopo un certo periodo di tempo (e quindi di incertezza), un risultato positivo?
Sfortunatamente non c'è una risposta esatta a questa domanda. La matematica è solo una falsa soluzione a questo problema: assegnare a ogni risultato un certo valore e moltiplicarlo per la probabilità che si verifichi è possibile soltanto in casi altamente ipotetici e irrealistici. Nella realtà la morale non si può pesare e comunque i fattori in gioco, le possibili interferenze, i possibili risultati sono così tanti che quantificare tutto sarebbe impossibile o almeno altamente arbitrario. Al massimo si potrebbe arrivare a conclusioni che legano a una scelta un probabile/possibile risultato.
La mia sensazione intuitiva è che più il fattore tempo è grande e più si debba fare ciò che è giusto nell'immediato perché maggiori sono anche le probabilità che, grazie alla ragione, si possa in seguito intervenire per scongiurare l'esito nefasto che si teme. E comunque tale risultato negativo futuro è tanto più improbabile, a causa di influenze esterne, quando maggiore è il periodo di tempo che lo separa dal presente, al di là di ogni nostro possibile intervento.
Trovo che la comprensione di questo principio sia comunque molto utile: ad esempio diviene banale il dilemma analizzato in Votare o non votare?.
È infatti giustissimo astenersi quando nessun partito ci convince perché le possibili conseguenze, che si protraggono per molti anni, sono avvolte da una tale fascia di incertezza che ciò che moralmente conta per il singolo è solo eseguire quel che è giusto in quel momento. In altre parole se nessun partito ci convince allora è bene non votarne alcuno perché farlo equivarrebbe a mentire (*2).
Conclusione: l'importante non è trovare funghi ma divertirsi a cercarli!
Nota (*1): sbagliava quindi Kant a insistere che fosse comunque giusto dire la verità anche a costo della vita dell'amico: il paradosso dello scenario proposto infatti trasformava ciò che generalmente è giusto in sé in qualcosa di errato. Con la conseguenza collassata sull'azione il dilemma diveniva infatti scegliere fra il far vivere o morire l'amico: l'aspetto della verità/bugia era irrilevante. L'imperativo categorico era salvare la vita dell'amico.
Nota (*2): votare per un partito equivale infatti ad affermare di condividerne le idee e il programma e ciò è palesemente falso nell'ipotesi che nessun partito “ci convinca”.
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