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mercoledì 30 giugno 2021

Marcuse (quasi) finale

Piano piano sono arrivato a poche pagine dalla conclusione di “Eros e civiltà”.
L’ultimo capitolo che sto leggendo è una sorta di epilogo.

Marcuse è partito dalla teoria pessimistica di Frued, ovvero che la civiltà richieda un’umanità infelice, rivedendola però in una prospettiva ottimistica. Il progresso tecnologico fa sì che l’umanità possa prosperare ED essere felice: in altre parole, in una società organizzata in maniera totalmente diversa dall’attuale, ci dovrebbe/potrebbe essere benessere sufficiente per tutti.
Poi Marcuse “dimostra” che questa società non sarebbe incompatibile con le pulsioni istintuali dell’uomo, ovvero che non crollerebbe da sola: che anche gli istinti sessuali sarebbero rediretti in maniera gioiosa e giocosa spontaneamente per il bene della società.

In quest’ultimo capitolo invece Marcuse considera il lavoro degli psicologhi revisionisti (rispetto alla teoria di Freud). Questi vedono l’uomo come un complesso articolato di relazioni con gli altri individui e la società, una struttura così complessa di cui è impossibile e inutile ricercare le fondamenta teoriche che la determinano.
Mancando una teoria che spieghi la società moderna essa viene allora presa a riferimento teorico di come l’uomo sano dovrebbe essere integrato in essa. Giustamente Marcuse fa notare che si tratta di una strategia autoreferenziale in cui la salute psichica dell'uomo è determinata dalla forma della prigione che causa la sua malattia! La cura dell’individuo infelice non è renderlo felice ma fargli divenire tollerabile la propria infelicità.
Scompare completamente la base teorica che motiva Marcuse a proporre una civiltà diversa, priva delle repressioni dell'attuale, che sia compatibile con la felicità del singolo: se la società è un qualcosa di immutabile, il costrutto inevitabile della moltitudine di relazioni umane, allora è l’individuo che deve adattarsi alla propria infelicità.

Capisco la frustrazione di Marcuse: questa psicologia revisionista non ha l’ambizione di cambiare la società rendendola migliore ma di solo di adattare l’uomo a sopportare e convivere con l’ingiustizia quotidiana. A me pare l’equivalente medico/scientifico della religione che, con argomentazioni diverse, cerca di inculcare nel fedele la convinzione che si debba sopportare in questa vita per essere felici nella prossima.

Non so: forse questo concetto finale non merita il rilievo che gli ho dato. Rispetto ad altre idee di Marcuse è quasi un ovvia banalità, la logica conseguenza del suo pensiero.
Mi rendo però conto che mi ha un po’ toccato.

Nel mio piccolo ho rigettato il principio di realtà e seguo il mio particolare principio del piacere che, come previsto da Marcuse, porta comunque a sublimare in maniera giocosa e costruttiva le mie energie: o almeno il leggere e lo studiare il pensiero di classici e non a me pare costruttivo e perfino produttivo visto che la mia Epitome ne è il risultato.

Ma mentre Marcuse (credo) mi approverebbe, per gli psicologi revisionisti (ma anche per lo stesso Freud) sarei un individuo malato perché rifiuto di integrarmi (lavoro, famiglia, acquisti di beni inutili, vacanze al mare etc.) in un modello di società che, l’ho sperimentato, non mi rendeva felice. A me pare logicamente, ho quindi cercato altro ovviamente pagandone il prezzo in rinunce e nella disapprovazione della società (quest'ultima per me poca cosa ma, mi rendo conto, fondamentale per la maggioranza delle persone).

Ecco, qui pensavo di citare un passaggio del libro ma, come mi sembra di aver già spiegato, Marcuse richiede citazioni ampie per essere comprensibile e non mi va di copiare una pagina di testo fitto…

Conclusione: beh, stavolta è molto personale. Marcuse mi ha confermato che non sono io ma la società a essere malata: le mie scelte di vita hanno un senso filosofico profondo. La maggior parte delle persone si piegano al principio di realtà e in cambio ottengono una felicità nevrotica: io al contrario non sono felice (per esserlo dovrebbe cambiare anche la società) ma non mi piego e non accetto l’ipocrisia di un vivere inutile, dell’essere un piccolo ingranaggio di un mostro meccanico gigantesco e senza controllo di cui sempre meno persone (i super-ricchissimi) traggano benefici ingiustificati e ingiustificabili.
Una battaglia persa la mia ma che mi sembra giusto e inevitabile combattere.

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