[E] Per la comprensione completa di questo pezzo è utile la lettura della mia Epitome (V. 1.5.0 "Coronavirus").
Quando comprai Le radici psicologiche della diseguaglianza di Chiara Volpato ero curioso di verificare se la mia legge delle diseguaglianze ([E] 7.2) avesse un qualche riscontro nella teoria sociologica.
Quello che scrivo nell’Epitome infatti ha talvolta delle basi teoriche in testi, articoli o corsi che ho seguito ma alcune idee (*1) sono completamente farina del mio sacco: intuizioni sulle quali rifletto più o meno a lungo e che, piano piano, prendono forma e consistenza.
La legge della diseguaglianza (*2) è uno di questo casi: probabilmente alla sua origine c’era la mia teoria del perché nessuno è profeta in patria (v. Patria e invidia del 2016), concetto poi opportunamente generalizzato.
Ebbene ieri ho ritrovato questa mia teoria anche in Le radici psicologiche della diseguaglianza espressa in termini non voglio dire identici ma molto simili ai miei.
Curiosamente si tratta di una teoria piuttosto vecchia (mentre in genere le altre citazioni di ricerche sono recentissime): fu infatti formulata da un certo Festinger nel 1954.
Lo sottolineo perché, avendo superato la prova del tempo, deve essere considerata piuttosto attendibile.
Ora c’è da dire che nella mia Epitome io la pongo come causa principale della diseguaglianza mentre nell’opera della Volpato essa è inserita in un contesto molto più ampio (*3). Come ho scritto in precedenza l’autrice tende a riportare le teorie esistenti ma preferisce non esprimere direttamente il proprio pensiero (*4). Dovrò quindi valutare la reale importanza di questa teoria da solo nel prosieguo della lettura.
Il pezzo mi è venuto un po’ troppo corto e allora ne approfitto per inserirvi un’altra riflessione.
L’autrice riporta una teoria di Joe Feagin del 1972 sull’origine della povertà (che si può riassumere con tre cause principali) e poi mostra come diverse classi sociali tendono a optare per l'una o per l'altra in maniera diversa.
Le cause sono: 1. interna/personale; 2. esterna/strutturale; 3. esterna/fatalistica.
La interna/personale significa che il povero è povero perché non è stato capace di divenire ricco: sostanzialmente non si è impegnato abbastanza oppure non ne aveva le capacità né quindi lo meritava.
L’esterna/strutturale significa che la società è strutturata in maniera tale da dare meno opportunità ad alcune persone e più ad altre: gli sforzi e le capacità del singolo sono secondarie. Frequentare le migliori scuole e università, per esempio, sono un aiuto forse già di per sé incolmabile con la sola buona volontà.
L’esterna fatalistica è invece il caso: si è poveri perché si ha avuto sfortuna. Altre persone in situazioni analoghe e con le medesime caratteristiche magari hanno avuto successo mentre i poveri no. In pratica la società non ha responsabilità: tutti ce la possono fare ma il caso per alcuni (o molti!) può essere avverso.
Prevedibilmente le classi sociali alte sono tendono a optare per la prima ipotesi, quella interna/personale, perché contemporaneamente giustifica il loro benessere. Ma gli orientamenti variano anche in base alla nazione: negli USA, col suo mito degli uomini che si fanno da soli, l’ipotesi interna/personale è la preferita. Ma, per esempio, nell’ex Germania Est, ben il 67% delle persone pensa che la povertà abbia origini strutturali mentre in Danimarca lo crede solo il 17%.
Per curiosità in Italia si pensa che la povertà sia frutto dell’ingiustizia sociale (34% ), sfortuna (26%) e mancanza di volontà (19%). Non è spiegato cosa indicasse il rimanente 21%: forse “non so”?
Personalmente non mi ero mai posto direttamente la questione (indirettamente è legata alla diseguaglianza) ma in uno dei miei pezzi preferiti (*5), 4 aneddoti e 1 domanda, mi ero chiesto la domanda simmetrica: da cosa dipende il successo?
Ovviamente pensavo al successo di una persona comune: è chiaro che se sei un Agnelli comunque cadi in piedi e, male che vada, finisci a fare il presidente della Juventus. Davo cioè per scontato che chi appartiene dalla nascita a una classe alta, se non fa sciocchezze, vi rimanga.
Cercavo invece di investigare il caso dell’uomo che si fa “dal nulla”: inutile che ripeta i miei ragionamenti ma la mia conclusione era che la fortuna fosse determinante e non il merito o le capacità.
Se oggi mi pongo invece la domanda del perché della povertà mi è banalmente ovvio che dipenda massimamente dalla struttura della società. Questo però non è in contraddizione con la mia vecchia teoria del successo: anzi, proprio perché la struttura della società lega a una determinata condizione sociale, occorre un colpo di fortuna per spezzare tale catena.
Se Bill Gates fosse nato 10 anni dopo o magari in Germania (per non dire Italia!) non avrebbe fondato la Microsoft ma sarebbe divenuto un comune, per quanto brillante, tecnico informatico.
Lo stesso vale per tanti altri uomini di successo, spesso presentati come dei geni, quando invece erano semplicemente persone in gamba al posto e al momento giusto, con le conoscenze giuste.
Quando una persona veramente formidabile nasce al posto giusto e al momento giusto si ha un Alessandro Magno.
Conclusione: questo libro mi piace ma perdo un sacco di tempo a leggerlo perché lo riempio di appunti e note!
Nota (*1): per non parlare dell’intero capitolo 5 di cui infatti sono particolarmente orgoglioso.
Nota (*2): in effetti il singolare è meglio: vedrò di modificarlo nella prossima revisione!
Nota (*3): che poi in effetti è quello che faccio anch’io: non per niente ho dovuto inserire questa legge nel capitolo 7 e non nel 5 proprio perché si basava su (mie) teorie aggiuntive e, in particolare sugli epomiti ([E] 6.2) ed equimiti ([E] 7.1) successiva a tale capitolo. E anche da questo punto di vista, in effetti, ci sono molte analogie con il saggio della Volpato.
Nota (*4): almeno per adesso, più o meno fino a metà del saggio!
Nota (*5): ci sono particolarmente affezionato perché rappresenta un momento di crescita personale. Il nocciolo di questa teoria lo formulai quando avevo 11-12 anni: mi resi conto che avevo capito qualcosa che alle altre persone, compresi gli adulti, sfuggiva.
L'esempio di Benjamin Franklin
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