[E] Per la comprensione completa di questo pezzo è utile la lettura della mia Epitome (V. 1.5.1 "Fase Due").
Come sapete da tempo sto leggendo Le radici psicologiche della diseguaglianza di Chiara Volpato: progredisco molto lentamente perché per ogni pagina che leggo prendo sempre molti appunti e questo rende il tutto più impegnativo.
Ieri prima di riorganizzare il mio capitolo sulla diseguaglianza dell’Epitome ho finito di leggere quello che avevo lasciato ammezzato (v. Diseguaglianze) del saggio dell’autrice.
In genere ho trovato sempre un’incredibile corrispondenza fra le mie teorie e quanto affermato (e spesso confermato da esperimenti sociali) nella sua opera: dopotutto io di sociologia non ho mai studiato niente mentre lei è una professoressa universitaria proprio di tale materia: mi sembra quindi che il mio stupore, quando trovo conferme su conferme a quanto ho scritto, sia ben motivato!
Comunque “finalmente” ho scoperto un passaggio dove la pensiamo diversamente e che mi sembra molto interessante illustrare. Di seguito ricostruisco il filo logico della Volpato per arrivare alle conclusioni che non condivido.
Il suo punto di partenza è la teoria della deprivazione relativa sulla quale scrive circa tre pagine, cita altrettanti studi e vari esempi di esperimenti che la confermano.
Poi spiega che la globalizzazione ha portato molta insicurezza economica in tutta le fasce della popolazione e questo crea un’ansia che la rende più competitiva e suscettibile alle diseguaglianze con cui viene in contatto ma, soprattutto, teme di esserne vittima: non solo chi è povero teme la competizione degli altri poveri ma anche chi ha un alto reddito teme di perdere il proprio “vantaggio”.
Fin qui sono completamente d’accordo con lei: la “teoria della deprivazione relativa” è una versione semplificata della mia “legge della diseguaglianza” ([E] 7.2), l’ansia della popolazione alla crisi non è altro che una conseguenza delle leggi della conservazione (soprattutto) e della crescita ([E] 5.1 e 5.2) applicate a una crisi economica ([E] 5.3 che, nella prossima versione 1.6.0 dell’Epitome, ho spostato e ampliato nel nuovo sottocapitolo 6.4). Insomma, linguaggio diverso ma stessi concetti…
La crisi, spiega la Volpato, ha quindi fatto sì che le persone ridefiniscano le proprie identità: non più basate sul proprio lavoro (troppo incerto e magari gramo di soddisfazioni) ma su altri principi come la nazionalità, la religione, l’etnia, etc…
Questa è la ragione principale del successo dei populismi e una delle ragioni della “sempre più diffusa ostilità” verso gli immigrati. E questa conclusione la trae da una ricerca di Salmela e von Scheve del 2017.
Tutto sommato qui sono ancora abbastanza d’accordo. Anche per me ciò che “innesca” il successo dei populismi è la crisi economica, qui in più vi è il passaggio intermedio dello slittamento dell’identità delle persone (non ci avevo pensato ma mi pare plausibile anche se lo considererei più uno dei fattori del successo dei populismi e non il principale). Anche sulla “diffusa ostilità” verso gli immigrati non mi ero espresso (se non vagamente in [E] 20) ma concordo totalmente che l’origine non sia razzismo bigotto ma, in accordo alla mia teoria, sia motivato dalla paura economica (*1).
La differenza col mio pensiero sta nel contesto: il mio è molto più ampio. La crisi economica non nasce dal nulla ma è un’estrema conseguenza della crisi democratica inasprita dalla prima e, soprattutto, seconda globalizzazione. Il populismo è il tentativo (probabilmente destinato a fallire perché privo della consapevolezza dell’origine ultima del problema) di risolvere un problema democratico dove, è la crescente povertà a renderlo chiaro anche ai più scettici, i partiti tradizionali o sistemici hanno tradito i loro elettori schierandosi in toto dalla parte dei parapoteri che, infatti, stanno divenendo sempre più ricchi e potenti.
Anche riguardo l’immigrazione il mio sguardo è più ampio: le paure della democratastenia per il proprio benessere sono concrete e motivate. Non è poi un caso che i parapoteri economici, che hanno tutto da guadagnarci da una democratastenia più debole, vogliano invece un’immigrazione incontrollata: come spiego in [E] 20 questo li rende indirettamente più ricchi e forti.
Qualche pagina dopo la Volpato introduce, tramite una ricerca, un argomento che sembrerebbe in contrasto con la mia teoria: in pratica afferma che mentre per le classi basse è comprensibile la diffidenza verso l’immigrazione è meno spiegabile quella delle classi medie e alte “oggettivamente”, scrive lei, meno minacciate dalla crisi. La colpa di questi pregiudizi sarebbe quindi da attribuire ai “populismi di destra” che, con il loro allarmismo, spaventano anche le classi medie e alte. Oltretutto i populismi di destra sono in grado di crescere anche durante fasi positive dell’economia.
Qui, diversamente dal solito, le mie obiezioni sono numerose…
Prima di tutto “populismo di destra” è improprio almeno dal mio punto di vista: i populismi e i partiti di destra sono entità ben diverse ma, non sapendo bene cosa lei intenda per destra e populismo, è inutile fare ipotesi: tenete solo conto della mia obiezione generica (*2).
Che anche le classi medie e alte si sentano minacciate dalla crisi è invece perfettamente normale e, anzi, doveroso: gli ultimi vent’anni di depressione economica ci hanno dimostrato che anche la classe media sta venendo falcidiata e io, che pure conosco pochissime persone, sono a conoscenza di almeno di un paio di dirigenti che sono stati licenziati. Come ho specificato meglio nella mia ultima versione dell’epitome (la 1.6.0 che devo ancora pubblicare) anche le classi “alte” fanno parte della democratastenia: solo i membri apicali dei parapoteri ne sono esclusi. Ed è tutta la democratastenia che sta perdendo forza nei confronti dei parapoteri economici.
Oltretutto poche pagine prima la stessa Volpato aveva citato uno studio dove si spiegava che la paura delle classi alte era quella di perdere ricchezze (e che io, vedi qualche paragrafo qui sopra, avevo considerato un’applicazione della legge della conservazione). Quindi non c’è bisogno di ipotizzare sobillazioni da parte di movimenti politici per spiegare le paure delle classi medie e alte: basta la crisi economica che ha oggettivamente già dimostrato che anch’esse sono a rischio!
Infine i dati dei presunti successi dei partiti “populisti di destra” non sono niente di eclatante: il risultato migliore è un 17,5%. Certamente un buon risultato ma complessivamente ininfluente: affinché gli elettori si rivolgano in maniera utile a un populismo è necessario che la crisi economica sancisca il fallimento (quando non il tradimento) dei partiti tradizionali e sistemici.
Quindi l’autrice riporta una ricerca che analizza i discorsi elettorali di tre partiti: l’australiano One Nation Party (che ottenne un picco del 9% nel 2006 ma che normalmente è ampiamente al di sotto del 5%), e gli olandesi PVV (picco del 15% nel 2010 e in genere sotto il 10%) e LPF (il cui leader, è bene specificarlo, fu assassinato da un attivista di sinistra una settimana prima delle elezioni e, a mio avviso, ciò contribuì decisamente a spingere tale lista al 17,0%. Lista che poi non si presentò alle elezioni successive).
Al di là delle percentuali mi pare però chiaro che non abbia senso considerare solo tre partiti come modello dei populismi in genere: è probabilissimo che questi, come afferma con parole meno forti la ricerca citata, siano razzisti ma il punto è che non rappresentano assolutamente i populismi in genere. Semplicemente sono dei partitini di destra estrema, degli analoghi a Casa Pound per capirci…
Nel complesso trovo l’accostamento fra populismi e avversione all’immigrazione completamente improprio. Mi pare chiaro che l’autrice cerchi di giustificare i propri pregiudizi facendo un collage di ricerche che però, come ho spiegato qui sopra, o non “combaciano” bene fra loro o sono poco significative…
Alla fine mi pare un debole tentativo di “reductio ad razzismo” per spiegare il fenomeno dei populismi e che invece offusca le problematiche reali che ne sono le vere basi.
Il problema di fondo è che l’autrice ha compreso benissimo i vari quadretti, le singole relazioni fra le diverse problematiche ma, sfortunatamente, non ha la visione generale che, per esempio, fornisce la mia Epitome. Quando cerca di collegare tutto insieme, mancando per esempio dei basilari concetti di parapotere ([E] 4.1) e democratastenia ([E] 4.3), confonde cause ed effetti, vittime e profittatori, e cerca di costruire una relazione fra populismi e immigrazione, che magari anche esiste, ma è debole e certamente non è la principale.
Conclusione: intendiamoci il saggio rimane ottimo! In questo pezzo mi sono semplicemente divertito a evidenziare dei passaggi su cui non concordo visto che normalmente, nel 95% dei casi, sono completamente d’accordo con lei!
Nota (*1): la differenza è notevole: se l’ostilità verso gli immigrati fosse solo razzismo bigotto allora questo si potrebbe ignorare dicendo alle persone “smettete di essere razzisti e vi renderete conto che l’immigrazione non è un problema”, insomma si tratterebbe di un limite puramente culturale; ma se il problema è economico allora il potere dovrebbe argomentare come l’immigrazione porti ricchezza e non povertà: questo però è difficile da provare semplicemente perché è falso: la democratastenia (e spesso gli immigrati stessi e le loro nazioni di origine) ha solo da rimetterci dall’immigrazione, gli unici a guadagnarci sono i parapoteri economici.
Ecco perché in Italia i media (e il governo a guida PD) riducono tutta la questione al razzismo quando invece si tratta di un problema economico connesso alla crescente povertà italiana.
Nota (*2): per esempio il partitino di estrema destra (o sinistra) può essere anche sistemico mentre il populismo, almeno a parole (dipende se è “apparente” o “reale”, v. [E] 13.4), è sempre antisistemico...
L'esempio di Benjamin Franklin
3 ore fa
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