Forse è il momento che inizi a scrivere qualcosa su La banalità del male della Arendt, (E.) Feltrinelli, 2019, trad. Piero Bernardini.
Prima di tutto bisogna riconoscere che è un ottimo libro: non scrivo che è un capolavoro perché è troppo legato alla cronaca e ai fatti: questi lo impastoiano al concreto e gli impedisce di innalzarsi alle vette di pensiero tipiche dei capolavori.
Il pregio maggiore dell’opera è a mio avviso quello di riuscire a trattare un tema difficile e delicato come l’olocausto con una facilità che non lo rende pesante: difficile spiegare perché. Ci ho riflettuto molto e credo dipenda, a parte dallo stile agile e diretto, anche dall'ironia della Arendt: ovviamente l’autrice non scherza né sulle vittime né sul nazismo, sarebbe impensabile: piuttosto è una sorta di continuo stupore per il paradosso di una morale che si frammenta, collassa e si contraddice, e che infine si annulla nella sua banalità. Ecco, l’autrice è brava a cogliere tutti questi aspetti e a evidenziarli…
L’altro grosso merito è ovviamente quello di dare una visione articolata e completa dell’olocausto: il tema centrale è quello del processo a Eichmann ma inevitabilmente non può non ricostruire la storia delle deportazioni: anzi vi è tutta una serie di capitoli che ripercorrono nazione per nazione come furono rastrellati gli ebrei e come furono organizzati i trasferimenti nei campi di sterminio.
Una bella ricostruzione perché non cerca di commuovere il lettore ma, al contrario, rimane sobria e puntuale, ricca di numeri e date. Soprattutto credo che sia utile per capire il fenomeno evitare le generalizzazioni ma ricostruire i diversi percorsi seguiti dai nazisti nei paesi occupati e non.
Ci sono ovviamente similarità ma anche peculiarità importanti: non considerarle non aiuta una comprensione profonda. Su quali siano queste differenze fra nazione e nazione tornerò in seguito (credo).
Nonostante questi indiscutibili meriti ho però ricevuto anche una piccola delusione. Nella premessa dell’autrice (v. La banalità dell’uomo) avevo trovati tanti accenni alla strumentalizzazione del processo per fini politici che mi sarebbe piaciuto se fossero stati approfonditi. Invece no: qua e là sono disseminate accuse indirette (in genere al PM che però, secondo l’autrice, agisce seguendo scrupolosamente le indicazioni del primo ministro israeliano) ma queste non vengono mai chiarite esplicitamente: è un peccato ma è comprensibile considerando l’epoca in cui fu scritto il libro e le pressioni morali, psicologiche e sociali a cui doveva essere sottoposta l'autrice.
C’è anche un capitolo sulla legalità del processo (Eichmann fu rapito in Argentina e poi segretamente trasferito in Israele) che però non ho trovato molto interessante. Probabilmente una questione scottante all'epoca dei fatti ma adesso di scarso valore.
Piuttosto durante la lettura, mentre il conto dei morti in cui Eichmann era più o meno coinvolto cresce a dismisura, mi sono chiesto quale potesse essere il senso del processo stesso.
Giustizia? Vendetta? Punizione?
Ma se su uno dei piatti della bilancia della giustizia ci sono 5 milioni di morti che cosa si potrà mai mettere sull’altro per riequilibrarla?
Ovviamente non c’era pericolo di reiterazione del crimine: Eichmann non amava quello che faceva e organizzava i trasporti perché quello era il suo lavoro (*1) e l’autrice gli crede.
E allora? La condanna a morte di Eichmann è un’adeguata compensazione per le vittime? Certamente no. È una punizione inadeguata: Eichmann avrebbe dovuto essere ucciso milioni di volte per avvicinarsi a “far pari”.
In un’appendice finale sulle reazioni e critiche all’opera della Arendt ho scoperto di non essere il solo ad avere avuto perplessità sul significato morale del processo. Se ho capito bene, secondo l’autrice, il significato del processo era (cito a memoria) “ridare dignità alle vittime”.
Non so: non credo neppure di capire bene cosa si possa intendere con questa frase: riconoscere che le vittime erano tali (ovvio) e che Eichmann era, almeno parzialmente colpevole (altrettanto ovvio), ridà forse dignità? È forse la scenografia del processo a essere importante? Non credo…
Alla fine sono rimasto con i miei dubbi. Mi sono trastullato con l’idea che lo scopo della giustizia debba essere compensare il male col bene (*2) ma non ho trovato la maniera di applicare questo principio al caso di Eichmann.
Conclusione: entrando maggiormente nei dettagli ci sarebbero molte altre cose da scrivere e su cui riflettere: preferisco però chiudere qui questo pezzo e rimandare ulteriori approfondimenti ad altri articoli...
PS: mentre stavo inserendo questo testo nel mio ghiribizzo ho avuto un’intuizione: il significato del processo è psicologico. Il suo valore è aiutare a mettere una pietra sopra il passato e permettere così di iniziare a elaborare il lutto. Ecco: questo può essere il senso del “bene” che non riuscivo a vedere: aiutare i sopravvissuti a superare il trauma subito. È in questa funzione che si raccoglie la giustizia e necessità del processo. Intuitivamente si percepiva con evidenza inconscia che il processo andava fatto: ora mi sono chiarito il perché.
Nota (*1): percepite l’antinomia morale? Come può l’etica del lavoro prevalere sull'umananità del nostro cuore? Questa è una delle tante contraddizioni che l’Arendt è brava a evidenziare e, a suo modo, ridicolizzare.
Nota (*2): e, basandoci su questo mio principio, allora tutti i processi in cui non vi è compensazione (=bene) nei confronti della vittima sono solo vendetta e non giustizia...
L'esempio di Benjamin Franklin
8 ore fa
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