Avrei da scrivere de “Il cotone è re” ma non ne ho molta voglia: la tentazione è quella di passare il tempo per scrivere un nuovo pezzo a rispondere ai commenti arrivati più o meno in contemporanea tutti insieme!
Ma, per una volta, partirò da ciò che mi è più sgradito: scrivere questo articolo…
Il nuovo capitolo che ho letto è tutto basato su gli effetti della liberazione degli schiavi da parte del Regno Unito nelle Indie Occidentali (ovvero le isole del Mar dei Caraibi: la Giamaica, le Barbados e simili…) effettuata intorno al 1830, ovvero circa una generazione prima della stampa del libro che sto leggendo (1860).
L’analisi sembra oggettiva ma io sospetto volutamente incompleta.
La teoria del libro è che gli ex schiavi non lavorano con altrettanta solerzia quando sono liberi: cadono invece nell’indolenza e nei vizi. La dimostrazione, che mi lascia perplesso, è basata sui dati numerici delle produzioni agricole locali: non tanto il cotone quanto lo zucchero e (mi pare) il tabacco. Effettivamente i numeri sono chiari e mostrano un declino significativo (della metà o anche più) delle diverse produzioni.
Quello che mi insospettisce è la mancanza di un’analisi che cerchi di spiegarne il motivo: ci si limita a mostrare i dati senza darne una relazione fra causa ed effetto. Siccome sono sospettoso credo che nel non detto ci fosse qualcosa che non si volesse dire.
Per esempio io ipotizzavo (durante la lettura) che il lavoro libero è per forza più costoso di quello degli schiavi: il costo degli schiavi va infatti a coincidere con quello della loro alimentazione (dubito costosa) ma, siccome gli uomini liberi devono comunque mangiare, dovranno essere pagati perlomeno abbastanza da poter acquistare il cibo (più quanto necessario per le altre necessità). In queste condizioni, come dimostra il caso dell’India visto nel capitolo precedente (v. Economia del cotone), anche dove il lavoro costa pochissimo non è comunque competitivo con quello degli schiavi.
In altre parole sospettavo che il declino della produzione nelle Indie Occidentali fosse dovuta allo schiavismo degli stati USA del sud.
Aggiungerei poi che, umanamente, non doveva esserci un grosso entusiasmo negli ex schiavi a lavorare per i propri ex padroni al di là di uno stipendio non abbastanza allettante.
Sì, io sono quasi del tutto convinto che il motivo del declino agricolo di queste isole era dovuto alla concorrenza dello schiavismo statunitense: sarebbe stato paradossale difendere lo schiavismo negli USA mostrando come il lavoro libero nelle Indie Occidentali non fosse competitivo proprio a causa del primo!
Invece l’autore si limita a riportare che gli ex schiavi preferiscono non lavorare nelle piantagioni e accamparsi in capanne di fortuna nelle zone non coltivate fra le montagne e là limitarsi a sopravvivere senza ambizioni né volontà di essere industriosi.
Curiosamente questo comportamento non viene messo in relazione alla razza ma al fatto che si tratta di schiavi liberati: è lo schiavismo ad avere abbrutito questi uomini. Addirittura si scrive che se i bianchi fossero stati tenuti in schiavitù dai neri e poi liberati, si comporterebbero nello stesso modo. Vediamo se ritrovo il passaggio perché vale la pena citarlo letteralmente: «I do not say that the colored people are more debased than the white people would be if persecuted, oppressed and outraged as are the colored people.» (*1)
Una conferma indiretta di questa mia spiegazione si ha quando l’autore passa ad analizzare il caso delle Barbados dove invece la produzione agricola ha retto. Qui non può esimersi dal tentare di dare una spiegazione del fenomeno: spiega quindi che qui non ci sono regioni selvatiche dove gli ex schiavi possano ritirarsi in “ozio” perché il paese è fortemente coltivato. Qui per sopravvivere l’ex schiavo è costretto a lavorare ed, evidentemente, con un salario complessivamente competitivo con quello pagato dagli schiavisti negli USA, ovvero molto basso.
Questa tematica del forzare gli ex schiavi ora liberi ad accettare per necessità paghe bassissime è frequente: precedentemente si era infatti parlato positivamente della concorrenza data da immigrati orientali e (credo) indiani al mercato del lavoro.
Uno schiavista diceva che gli schiavi liberati passano da una forma di schiavitù a un’altra: credo ci fosse del vero nelle sue parole.
Oltretutto la situazione delle Indie Occidentali confermerebbe il mio sospetto che il Regno Unito fosse a favore dell’abolizione della schiavitù negli USA proprio perché avrebbe stimolato la produzione non solo in India ma anche in queste isole...
La tematica è molto attuale: gli stipendi si possono abbassare maggiormente quando i lavoratori disponibili sono molti e sono costretti a lavorare per sopravvivere. Lo si chiama “mercato del lavoro” ma, quando il meccanismo è portato all'estremo, se non è schiavitù di sicuro è sfruttamento.
E scusatemi ma qui non posso non citare il mio capolavoro poetico (!), la tragedia “Andros ed Euginea” (v. Atto IV, scena II), ovvero la risposta che la schiava Spourgita dà ad Andros che la incita a ribellarsi al proprio padrone: “La necessità è avara di scelte.”
Ma è la libertà che il rapinatore dà alla propria vittima gridando: “O la borsa o la vita!”…
Conclusione: in questi primi 15 capitoli lo schiavismo viene difeso principalmente (direi 80%) con giustificazioni economiche (e oltretutto l'altro 15%, ovvero l'inadeguatezza morale degli schiavi, è attribuita in questo capitolo proprio alla schiavitù stessa!). Da questo punto di vista le analogie con la difesa dell’immigrazione, soprattutto quando l’immigrato è visto come il lavoratore che farà i lavori che i locali non vogliono più fare, sono notevoli.
Nota (*1): tratto da “Cotton is king” di E. N. Elliott (che però forse è l’editore: non è chiaro). La forma leggermente contorta di questa frase secondo me è indicativa di quanto questo pensiero gli venisse difficile.
Il ritorno del gladiatore
7 ore fa
Voi state assumendo una certa uguaglianza delle culture.
RispondiEliminaHo ascolto più racconti di missionari molto preoccupati per il loro pensionamento: chiesa, ospedale, officine che... si sarebbero ammalorati.
Qualche tempo fa un'azienda biodinamica di ebrei che dava di lavoro a centinaia di palestinesi passò a Gaza coi relativi territori.
L'azienda andò a patrasso, fallita, lavoro zero.
Mao metteva i .ministri dei trasporti a fare l'autista. Viceversa non puoi mettere l'inserviente ad operare a cuore aperto in sala operatoria.
Basta osservare l'inferno di Haiti.
A pochi km c'è Cuba che tira avanti solo perché i vertici comunisti sono europei con cultura europea e cercano di tenere insieme la nazione.
No, qui non sono io che sto facendo supposizioni ma mi liito a riportare il contenuto del libro: il "mio pensiero" inizia dove scrivo "La tematica è molto attuale".
EliminaComunque concordo che vi fosse un problema di cultura: l'autore era protestante e quindi con una grande cultura del lavoro, con la morale anzi che va a confondersi con l'industriosità. Chiaro che l'approccio alla vita di un boianco e di uno schiavo liberato fossero molto diversi e che il primo attribuisse il comportamento del secondo a una debolezza di fibra morale...
In altre parole ogni società è responsabile di ciò che (non) realizza.
RispondiEliminaNì. Ho un controesempio: una colonia di fatto (come è adesso l'Europa nei confronti degli USA) non è completamente libera di fare quello che ritiene meglio. In particolare ho forti dubbi che la popolazione europea sia d'accordo nel buttare miliardi di euro nell'Ucraina quando avrebbero potuto essere spesi più proficuamente in mille maniere diverse. Solo che le esaltate marionette che ci guidano eseguono ordini...
EliminaJared Diamond analizza, in un capitolo, le cause delle differenze tra Haiti e Repubblica Dominicana. Se ricordo bene Diamond asserisce che la relativa prosperità della seconda fosse dovuta a drastiche leggi ecologiche adottate da signori/dittatori a difesa dell'ambiente.
RispondiEliminaSì, confermo: è quello che anch'io avevo capito.
Elimina> gli ex schiavi preferiscono non lavorare nelle piantagioni e accamparsi in capanne di fortuna nelle zone non coltivate fra le montagne
RispondiElimina> e là limitarsi a sopravvivere senza ambizioni né volontà di essere industriosi.
I climi rigidi impongono pre-videnza e industriosità per accumulare risorse che permettano di superare la stagione fredda.
Questo non succede nei climi caldi: perché sbattersi se con poco riesco a campare!?
La tecnologia stravolge tutto però: l'economia di sussistenza non ti consente di avere buone cure odontoiatriche (molta tecnologia), di volare in areo, di telefonare alla morosa.
Ecco che il divario cresce a dismisura.
Sull'influenza del clima sulla cultura scrissi un pezzo tempo fa. Sono d'accordo... per lo meno su grandi linee...
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