Come (forse) sapete mi piace leggere più libri insieme: come se si trattasse di un pasto amo alternare “gusti” diversi. Così, oltre a L’anticristo di Nietzsche, sto leggendo un testo patristico: Quale ricco si salverà? di Clemente Alessandrino, (E.) Città Nuova, 1999, Introduzione e traduzione di Maria Grazia Bianco.
Qui devo fare una piccola divagazione per spiegare come mai ho deciso di leggere questo libretto.
Come probabilmente (forse) sapete la Chiesa delle origini era ben diversa da quella attuale: il cristianesimo si diffuse inizialmente fra gli strati più poveri della popolazione, la Chiesa era clandestina (pensate alle catacombe) e non aveva certo la struttura organizzata, pronta a cooperare col potere politico, che avrà da Costantino in poi. Logicamente anche il suo messaggio era molto più rivoluzionario: uno degli argomenti fondamentali era il suo rapporto con la ricchezza.
Anche per chi, come me, non conosce bene il Vangelo è facile ricordare passaggi che esaltano la povertà (a partire dal “beati gli ultimi”): la Chiesa poteva permettersi un atteggiamento critico verso la ricchezza in quanto, nei primissimi secoli, non si rivolgeva ai potenti: ma quando Costantino nel 313 dà pari dignità religiosa ai cristiani allora anche questi dovranno fare la “loro parte”. I rapporti della Chiesa salgono di livello ed essa interagisce con i potenti che, in genere, sono anche ricchi. Per non parlare del fatto che la Chiesa stessa diverrà, nei secoli successivi, favolosamente ricca: sempre più difficile quindi essere intransigenti e duri verso la ricchezza.
A livello indicativo ricordavo che Tertulliano, a cavallo fra il II e III secolo, vedeva nell’avidità la radice di tutti i mali (nulla è nostro perché tutto è di Dio) mentre circa due secoli dopo Sant’Agostino afferma che così come non basta la povertà per salvarsi (ma occorre l’umiltà) allo stesso modo anche il ricco, se umile, può aspirare al Regno dei Cieli.
Come vedete i tempi combaciano: il cambiamento di prospettiva della Chiesa sulla ricchezza pare evolvere in parallelo all’intensificarsi dei rapporti con i poteri temporali.
Dal titolo Quale ricco si salverà? e dall’epoca, Clemente Alessandrino visse fra il II e III secolo, mi aspettavo quindi una denuncia dei ricchi e della ricchezza. Malignamente mi divertiva l’idea di scoprire gli argomenti di Clemente per vedere, col senno di poi, come la Chiesa li avrebbe traditi.
Invece sono rimasto fregato! Il titolo dell’opera è decisamente fuorviante: si tratta infatti di una domanda vera e propria e non retorica (la cui risposta, che davo per scontata, sarebbe stata “nessun ricco si salverà”).
Clemente Alessandrino parte dall’episodio del Vangelo in cui un giovane ricco, che segue a menadito la Legge, chiede a Gesù cosa dovrebbe fare per ottenere la salvezza: Gesù gli risponde di vendere tutti i suoi beni e di seguirlo. Il giovane ci pensa un attimo e poi, mogio mogio, se ne va via; Gesù commenta che è più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago che un ricco vada in Paradiso a cui segue lo sconcerto dei discepoli.
Sembrerebbe che l’affermazione di Gesù sia chiara e inequivocabile: nessun ricco potrà ottenere la salvezza.
Invece Clemente Alessandrino parte da una considerazione economica che (e qui dovete credermi sulla parola) era anche la mia obiezione: se tutti i ricchi diventassero poveri, se sparisse ogni ricchezza e quindi anche i beni essenziali come il cibo, di cosa vivrebbero gli uomini?
Quindi i ricchi non devono disfarsi dei loro beni ma semplicemente non ne devono essere schiavi e, anzi, devono essere pronti a usarli per aiutare i bisognosi. Analogamente la povertà da sola non dà la salvezza: se il giovane si fosse di malavoglia disfatto delle proprie ricchezze divenendo povero ma nel suo cuore avesse continuato a bramarle allora non si sarebbe salvato.
In realtà ho la sensazione che Sant’Agostino ricalcò gli argomenti di Clemente Alessandrino.
Poi ovviamente questa è la mia estrema sintesi: Clemente fa un’analisi parola per parola e costruisce una catena di ragionamenti articolata e logica.
Ma non volevo riassumere le idee di Clemente Alessandrino: piuttosto volevo proporre una mia riflessione. Come ho accennato l’argomentazione principale a favore della ricchezza di questo Padre della Chiesa è, direi, economica: la ricchezza ha una sua funzione per la società e di essa non se ne può fare a meno. Diviene fondamentale, se si è ricchi, l’uso che si fa della propria ricchezza.
Ovviamente all’epoca di Clemente Alessandrino non esisteva una teoria economica: la sua è solo un’intuizione dettata dal buon senso.
Per esempio manca la comprensione di come la ricchezza generi a sua volta ricchezza, di come quindi i ricchi abbiano la possibilità di divenire sempre più ricchi a scapito, spesso, del resto della società. Manca poi un’analisi della struttura della società e delle conseguenze di certe politiche economiche…
Insomma Clemente Alessandrino era un uomo, sicuramente colto e intelligente, ma legato al proprio tempo.
Ebbene mi chiedevo: adesso abbiamo delle teorie economiche molto ben definite e assodate. Perché quindi il Papa non mette insieme un bel gruppo di teologi ed economisti (e magari sociologi e politologi) che stabiliscano quale dovrebbe essere un’economia sostenibile per la società e che rispetti i dettami del Vangelo?
Cioè perché non avere un gruppo di studio che, prendendosi tutto il tempo necessario, non elabori una nuova teoria politico/economico/sociale che rispetti i dettami del cristianesimo e che sia sostenibile. A me parrebbe una cosa logica da fare e, sicuramente, la Chiesa avrebbe le risorse umane e economiche per portarla a compimento…
Una volta stilato questo documento ecco che un partito potrebbe farlo suo: ecco che avrebbe senso una “democrazia cristiana” il cui programma sarebbe proprio una rifondazione della società secondo il nuovo modello elaborato dagli esperti.
Invece questa idea non mi pare sia mai stata presa in considerazione: cioè sicuramente singoli intellettuali cristiani si saranno impegnati in questa impresa ma non credo (correggetemi se sbaglio) che la Chiesa abbia mai organizzato un gruppo di lavoro sistematico per portare avanti un progetto di questo tipo.
È doveroso quindi chiedersene il motivo: la risposta ce la dà la situazione e la tendenza attuale: la diseguaglianza impera: i ricchissimi accumulano ricchezza e i poveri non hanno di che vivere.
Questo, da un altro punto di vista, significa che i grandi poteri che dominano il mondo vogliono l’attuale situazione.
È poi ovvio che qualsiasi modello di società il gruppo di lavoro teologi+economisti tirasse fuori difficilmente tollererebbe le attuali sperequazioni.
La Chiesa dovrebbe quindi mettersi contro i poteri del mondo mentre invece, come spiego nella mia teoria, i grandi poteri tendono a collaborare insieme.
Meglio quindi astenersi dal creare un nuovo modello di società cristiana, equa e giusta perché poi, non potendolo/volendolo sostenere, si renderebbe evidente l’ipocrisia della religione.
Conclusione: personalmente non anelo a un nuovo modello cristiano di società che, sicuramente, avrebbe molti punti con cui sarei in disaccordo. Piuttosto evidenzio la contraddizione che un tentativo di questo genere non venga fatto. Non me ne stupisco però: la realtà, che da un punto di vista teorico comprendo perfettamente, è che la Chiesa ha da secoli rinunciato ad assumersi una funzione propositiva di cambiamento radicale di visione del mondo: meglio invece la facile cooperazione col sistema di potere esistente per quanto ingiusto e, anzi, immorale. Non rivoluzione ma collaborazione: e così la Chiesa tradisce se stessa.
Il post sentenza
37 minuti fa
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