Qualche giorno fa ho finito di leggere Manoscritto di un prigioniero e il Forte della Stella di Carlo Bini, (E.) Rizzoli, 1961.
Il livornese Carlo Bini fu un patriota italiano che collaborò con Mazzini e per questo venne arrestato. Trascorse così tre mesi di carcere presso il Forte della Stella a Portoferraio dove scrisse appunto l’opera che ho letto.
Da tempo ero curioso di leggerlo ma mi aveva sempre dissuaso il giudizio non troppo positivo che me ne dette mio zio una ventina d’anni fa: mi disse che era simile a “Le mie prigioni” di Silvio Pellico ma molto peggiore…
Invece io l’ho trovato piacevole: l’opera in sé non ha un filo conduttore e sembra più una raccolta di idee varie. Soprattutto però si ha la netta sensazione che il Bini fosse un uomo fuori dal suo tempo: lo si capisce non solo da ciò che scrive ma anche dal suo stile che unisce insieme ironia e belle immagini. L’opera fu scritta nel 1833 ma è facilmente comprensibile: molto più di scritti anche di fine XIX secolo.
Nella prima parte narra le vicende parallele di due ospiti immaginari del carcere: un ricco e un povero. Soprattutto la descrizione di come viene trattato il ricco è divertentissima con i secondini che lo trattano come se fossero i suoi servi e lui l’ospite di un albergo modesto il cui proprietario cerchi di fare comunque una buona impressione. Ovviamente il povero è invece abbandonato a se stesso e, se non muore di fame, sicuramente è denutrito…
Nella seconda parte le vicende del ricco e del povero sono abbandonate e ogni capitolo tratta un argomento a sé stante. A memoria ne ricordo uno sulla noia del carcere; uno sul suicidio (che per certi versi si sovrappone al tema dell’eutanasia) dove fa una precisa classificazione dei vari tipi trovando, per alcuni di essi, degli ottimi argomenti; uno sull’anima che poi si trasforma in una riflessione su Dio: curiosamente nei capitoli precedenti avevo avuto la sensazione che il Bini fosse religioso ma in questo capitolo si dichiara ateo.
L’appendice “Il Forte della Stella” è invece un breve dialogo immaginario con un suo conoscente: niente di particolarmente interessante con l’eccezione del suo punto di vista sulle donne considerate dal Bini assolutamente pari agli uomini (solo fisicamente meno forti) e che come tali dovrebbero essere riconosciute dalla società: addirittura (ricordo che siamo nel 1833) si dichiara favorevole al divorzio.
Qualche frammento:
Dal capitolo sul suicidio: «Non siete voi padroni di amputare il membro ammalato, che potrebbe corrompere il resto del corpo? E l’uomo a cui si è cancrenato il cuore non è padrone, tagliando un filo ormai logoro, di finire le sue pene?»
A volte la morte può essere l’unica alternativa rimasta all’eroe:
«Il Destino supera, perché il Destino è ciò che deve essere. Che deve fare allora l’eroe? - progredire è impossibile perché una barriera di adamante gli chiude i passi; - rovinare in fondo è impossibile, perché la natura del Genio è di salire finché può. Allora l’eroe decide di morire, non già perché vuol morire, ma perché non può più vivere. Non è il delirio che spinge; è la coscienza che sceglie.»
Dal capitolo dove riflette sulla religione:
«Io per me credo che la razza umana sarà meno calpestata e infelice quando, invece di fantasticare sull’avvenire e giacere e farsi guanciale della Provvidenza, si terrà con più saviezza al presente, e tentando mille esperimenti, si studierà di trovare una forma di stato sociale in cui ad ogni individuo sia permesso senza danno del prossimo di muoversi liberamente e con piena sicurezza nella sfera descritta dalla sua natura.»
Sulle illusioni religiose (notare anche l’ironia del Bini):
«Un pazzo può immaginare a vita di essere un aquila, di volare verso il sole, e di farsene sua dimora; un uomo sano può immaginarlo per venti minuti; poi dà col piede in una fossa e cade, e si accorge a prova di essere incatenato alla terra sua genitrice».
Sul rapporto religione/ragione (illuminismo e rivoluzione francese (*1)):
«Ma il culto della ragione era fuori di dubbio prematuro, era troppo solo e troppo arido, né bastava a colmare il vuoto lasciato. La religione sbandita dai domini della mente viveva pur sempre nel cuore, e forse più forte, perché meglio riconcentrata; quindi prorompeva da ogni parte; quindi mi piace Robespierre che, considerate le condizioni attuali del popolo, ridonava a Dio l’esistenza, in ciò dimostrandosi egregio politico e sagace conoscitore dell’umana natura.»
Attuale (*2):
«In una aperta dissoluzione di elementi sociali nessuno cospira, - e tutti cospirano; - è una forza indipendente dall’individuo, che agisce in quel tempo; l’uomo si sente menar via e non sa il come, e invano si sforzerebbe di dar petto nella corrente.»
Conclusione: la parti divertenti sarebbero state tante ma avrei avuto da copiare degli stralci di testo troppo ampi per rendere l’idea. Nel complesso non si tratta certo di un capolavoro di per sé quanto piuttosto della testimonianza di un uomo molto intelligente con delle idee notevoli, alcune delle quali ancora attuali…
Nota (*1): dal punto di vista della mia teoria: non si può eliminare un gruppo dalla società se questo ha funzioni utili a essa.
Nota (*2): nei momenti di crisi è il caos che muove le persone: solo a posteriori viene ricostruita una logica posticcia degli eventi. Magari inserendovi anche ideali che sul momento non c’erano o erano adombrati da altre emozioni ben meno elevate: pensate, per esempio, alla rivoluzione francese.
mercoledì 21 ottobre 2020
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